La pellicola è il terzo remake esplicito de L'invasione degli ultracorpi, superclassico della fantascienza diretto da Don Siegel. Questa volta la regia è stata affidata al tedesco Oliver Hirschbiegel, lo stesso de La caduta. Il denominatore comune delle varie versioni cinematografiche sembra essere l'instabilità politica e sociale. Nel 1956 era il pericolo rosso, nel 1978 la guerra del Vietnam mentre ora vengono seminati riferimenti d'attualità (Darfur, Iraq, l'avvento di Chavez in Venezuela) ma il tutto viene fatto in modo sfilacciato e annacquato creando una larga forbice tra le questioni contemporanee e la storia rappresentata.
Cruciale nel film il rapporto esistente tra i personaggi e l'ambiente. In particolare, la figura di Carol è messa in relazione con gli spazi in base a un criterio di rilevanza che chiama in causa il peso che il soggetto assume nella narrazione. Su di lei grava gran parte della storia e diventa portatrice degli eventi e delle trasformazioni. Il peso specifico, assunto da Carol durante l'evoluzione del narrato, viene evidenziato da demarcazioni continue.
Il fascino di entrambi gli attori gioca a favore nell'economia complessiva del film ma non è sufficiente a farlo decollare. Il richiamo alla fantascienza classica, genere che si pregia nel mostrare la paura collettiva, avviene in maniera frettolosa. La psicologia dei protagonisti viene, spesso, schiacciata dagli effetti speciali e da un'azione adrenalinica fatta di macchine in fiamme ed elicotteri.
Tratto dal romanzo di Richard Harris scritto peraltro quando era già germogliata l’idea che avrebbe portato alla sceneggiatura a quattro mani, il film è un solidissimo dramma storico – l’unico suo vero difetto è proprio un eccesso di “solidità” che inibisce un po’ l’emozione – in cui l’ottantaseienne Polanski unisce arte e desiderio di toccare argomenti di più vasta portata.
Lo aiuta la vicenda ben nota dell’affare Dreyfus (Louis Garrel) con il capitano ebreo condannato ingiustamente di tradimento e riabilitato solo dopo una lunga e straziante esperienza che ebbe al suo apice il grido di Zola (André Marcon) del titolo originale: c’è così il tempo e il modo per inserire una riflessione che va dall’ottusa arroganza del potere (le istituzioni che si autodifendono fino alle menzogne senza coscienza dell’esercito) alla docile manipolabilità delle folle (il ‘tifo’ sulla scalinata del secondo processo) sino alla perenne caccia all’ebreo (la notte dei cristalli e dei libri bruciati con quattro decenni d’anticipo).
Il regista distribuisce momenti di grande cinema sin dall’iniziale sequenza della degradazione sotto un cielo plumbeo (la fotografia è di Pawel Edelman): da ricordare, fra le altre, l’interno della chiesa gotica con i passi dei pochi presenti che rimbombano nel vuoto e il duello nel freddo di una cavallerizza fra Henri (Grégory Gadebois) e il protagonista Picquart, nella cui interpretazione Jean Dujardin dimostra la sua bravura di attore da noi chissà perché poco conosciuto.
Il perno della narrazione è la sua figura di un uomo come tanti, incluso il pregiudizio antisemita, che decide di rischiare tutto – la carriera, le sostanze, persino l’amante (Emmanuelle Seigner) nei panni del marito della quale il co-produttore Luca Barbareschi si ritaglia un piccolo ruolo – per cercare di ristabilire la verità: il suo ostinato rimbalzare contro il muro di gomma finisce per mettere a disagio chi guarda avendolo già visto accadere in troppe circostanze diverse e il quasi lieto fine a scoppio ritardato non può certo compensare l’ingiustizia.
Alla seconda prova cinematografica, Checco Zalone, il personaggio creato da Luca Medici per portare a galla il peggio del "buon uomo" italiano, conferma di possedere una scintilla di genialità, che gli permette di conquistare critica e pubblico, distraendoli persino dalle enormi debolezze di fattura dei suoi film. Più idiota di Clouseau, più ingenuo di Mr Bean, maschera poco italiana dell'italiano medio in soluzione concentrata, Zalone non conosce pudore né timore, nemmeno in fase di scrittura, e dunque si scaglia contro le missioni di pace così come contro Chiesa e clero (gli angeli e i demoni di "don Brown", insomma), come pochi altri oserebbero fare al di là di una battuta, così in grande stile.
Che Bella Giornata non prosegue Cado dalle nubi, il setting è stato azzerato e ripensato in toto, ma estingue per sempre il dubbio che il comico avesse un unico colpo in canna, fatto della somma delle sue sparate televisive, e ci permette di salutare davvero l'avvento di un talento così intelligente da prendere il proprio pubblico come target nel senso letterale di bersaglio (sviando minimamente le indagini quando seleziona l'Islam a pretesto, per impugnarlo in realtà come uno specchio impietoso).
La trovata dell'agente di sicurezza, versione italiota della spia che altrove ha combinato guai immensi (una per tutte, Johnny English), inserisce il nostro idiota del villaggio nel cuore delle relazioni istituzionali, alzando dunque il tiro rispetto all'ambientazione familiare del primo film, ma conservando perfettamente la portata disintegrante del protagonista in quanto elemento (la definizione è di Marescotti) "socialmente scorretto" prima e forse più che politically uncorrect.
Tutta colpa dell'amore non fa che confermare il non felicissimo momento della commedia sentimentale americana. Ancora il conflitto tra città e campagna, ancora i solidi (e reazionari, va pur detto) valori campagnoli di fronte alla fatuità cittadina. Tutto molto già visto, spesso con maggiore soddisfazione. La Whitespoon avrà pure eguagliato il cachet percepito da Julia Roberts, ma deve lavorare ancora parecchio per attingerne il carisma.
Come ho già accennato per Godzilla Minus One, non posso fare una recensione solo per "consigliare" o "sconsigliare" la visione di questo film. Non dipende da me.
Questo film si trova nel mezzo.
C'è chi ne è entusiasta e dà minimo 4 stelle, c'è chi non lo apprezza, nè lo capisce e lascia mezza stellina, condita da faccine disgustate.
Una cosa è certa. Meglio essere estimatori, e conoscere abbastanza bene il videogioco dal quale è tratto.
Molte persone, nella comunità Horrorofila lo snobbano. Non lo considerano per nulla un Horror.
Ma lo ritengo un difetto degli horrorofili del Web: cercano nell'horror sempre quel brivido in più. Sì dovranno arrendere, perchè più invecchieranno, più si desensibilizzeranno all'horror. Daranno la colpa ai film, che di volta in volta saranno sempre "meno spaventosi".
Ma sarà solo colpa loro e della loro assuefazione.
Io lo considero un horror. Certo, non un horror cupo, non un horror violento, non un horror cattivo. Diciamo che adatto anche ad adolescenti. Mi sembra giusto, visto che il videogioco è diretto sopratutto a loro.
Ma c'è un altro problema. Se non siete proprio avvezzi al videogioco, potrebbero sfuggirvi parecchie cose.
Tra l'altro, questa è stata l'unica critica sensata al film.
Potreste trovarvi a farvi delle domande, e a non afferrare bene alcune cose.
Inoltre, ci sono state alcune critiche che non condivido per nulla, da adulta che ha apprezzato il film (e che conosce bene il videogioco).
Il film sembra "mancare" di quell'atmosfera "tesa" per il quale è famoso il gioco.
Sì, ammetto che è così. Però parliamoci chiaro: la "tensione" del gioco non è certo generata dalla "bruttezza" degli animatronici coinvolti, come sostenuto da certe persone. Inoltre, dopo avere giocato per diverse volte, scoprirete che quella tensione non è affatto generata dal fatto che ci sia un'atmosfera cupa, strani rumori e pupazzi inquietanti. È semplicemente il GAMEPLAY che è snervante. SNERVANTE e "spaventoso" (come lo vorrebbero certi horrorofili) sono due cose diverse. Sei lì, in attesa del jumpscare improvviso. Potrebbe fartelo pure un micetto coccoloso, e l'effetto sarebbe identico. ANZI, Il fatto che gli animatronici siano "pucciosi", non è per nulla sbagliato. È solo una turba mentale di chi vuole a tutti i costi associare l'horror con la pretesa di essere "suggestionati" una volta terminata la visione di un film.
Questa pretesa, personalmente è fallimentare e prima o poi, ogni horrorofilo ne farà i conti. Se non avete particolari "fobie", e siete ancora convinti che bambole e pupazzetti possano essere i principali incubi della vostra vita, avete sbagliato tipo di horror. Sono simboli infantili, e dovrebbero essere presi come "divertimento", o qualcosa di legato alla nostra infanzia, che prima ci terrorizzava. Adesso ci sembra divertente, anche se un pò pittoresco.
Se sei un trentenne, e pretendi di vedere questo film e provare chissà quali brividi, e non succede, la colpa è solo tua.
Se qualcosa di simile ti ha spaventato, è solo una casualità, perchè vi posso garantire che di base, pupazzetti carini e bambole simpatiche sono l'ultima cosa che dovrebbe suggestionarvi. Al contrario, potreste affezionarvi ai personaggi, emozionarvi ed appassionarvi alle storie.
Ad esempio: Thanksgiving è un film che ho apprezzato solo in parte, perchè una delle sue debolezze, sono i personaggi. Non si fanno ricordare. Sì, rammendi cosa succede. Ma chi sono costoro? Vittima uno, vittima due, tizio e tizia.
Però da quello che so, a Thanksgiving hanno lisciato le piume,ed ha vinto pure dei premi.
E invece FNaF no, hanno trovato il pelo nell'uovo, fatto il capello in quattro, lamentati per quello che manca, o per come avrebbero voluto che fosse, piuttosto di concentrarsi su quello che era.
Certi famosi "critici" d'oltre oceano hanno detto che "è tutto sbagliato", compreso il fatto di avere creato degli animatronici troppo "espressivi", quando invece dovevano essere "spaventosi".
Critica stupida e fuorviante. Basata esclusivamente sulle cose che ho detto prima. La pretesa di "spaventarsi". Oltretutto, questa è una cosa soggettiva. Ma come? Non erano i "paladini" dell'oggettività?
Allora,se così fosse, dovrei spaventarmi alla visione dei pupazzoni orribili di "Willy's Wonderland", che invece mi sembrano solo brutti e ridicoli. Non spaventosi. Stop.
Gli animatronici sono carini, perchè lo sono anche nel gioco. Strani, sì, ma "pucciosi".
"Eh no" dirà qualcuno.
"Nel gioco non sono espressivi ed hanno lo sguardo vacuo".
Ok, rispondo: nel gioco sono immagini statiche. Pensa a farli così nel film. E sopratutto, pensa a fare un film, come invece avrebbero voluto certi "professionisti", che abbia una dinamica IDENTICA a quella del gameplay....sarebbe diventato semplicemente un continuo fissare dei monitor e vedere dei "cartonati" ripetuto all'infinito. Non mi sembra una buona idea per un film.
E infatti non lo hanno fatto.
Per me hanno reso bene la situazione. Manca solo un pò di dinamicità. Dovevano trovare un pretesto perlomeno credibile per fare in modo che il protagonista fosse motivato a tornare a fare il suo turno di lavoro, cosa che nel videogioco è assolutamente NON CREDIBILE, poichè nel gioco ci viene detto fin da subito che stiamo rischiando la vita. E infatti, nel film il pretesto lo hanno trovato, ed è anche credibile. Sì, sospendi l'incredulità, ma almeno come pretesto REGGE.
Comunque, i feedback dei fan sono stati accettati e vedranno cosa possono fare per migliorare il prossimo capitolo.
Che i critici e le giurie vadano a quel paese, e non mi vergognerei a dirglielo in faccia, se mi capiterà l'occasione.
E comunque, per chi fa lo schifato, lo snob,o che critica per presa di posizione perchè pensa di essere esperto di cinema, lascio detto questo:
Il Cinema, quello con la C maiuscola, è la realizzazione dei nostri sogni più profondi. Non importa come. Deve essere in grado di farci sognare. Anche il film che voi snobbate, che non ha vinto premi, che vi ostinate a giudicare in modo "obiettivo" a seconda di quanto vi sia piaciuto, che tentate in tutti i modi di fare apparire a noi pubblico come inadeguato, solo perchè il vostro obiettivo è farci apprezzare i film "fatti bene", ovvero quelli che piacciono a voi, può essere unico a prescindere dal valore che tentate di venderci con le vostre inutili valutazioni, solo perchè influenzare le idee degli altri vi da potere, quindi soddisfazione.
Se davvero studiate Cinema, io mi vergogno, per alcuni di voi. Profondamente.
Altrimenti non mi spiego perchè dovrei accettare che questo film debba essere uno schifo totale, mentre Willy's Wonderland dovrebbe essere molto meglio e Cult of Chucky un film da quattro stelle solo perchè, testuali parole (direttamente dalle vostre recensioni "professionali"):
"Nicolas Cage" è uno spasso"
"Dopotutto è Chucky"
Beh, io allora io posso dire che FNaF è FNaf, e anche con i suoi difetti, è UNICO.
E per le care "giurie":
sapete bene che ne ho anche per voi.
FNaF, secondo voi neanche merita di essere inserito tra gli adattamenti in concorso, perchè "non è un buon adattamento". Però su "Fallout" nessuno ha osato aprire bocca. Io però conosco persone che ci hanno giocato, e con la serie televisiva non ci hanno trovato nulla a che fare e che dopo 15 minuti si sono stancati di vederla. Direi che sono gusti, giustamente, ma sul web non ho trovato mezza critica. Solo salameleccate. Eh, lì guardacaso, come lo hanno adattato, stava bene a voi e avete rigirato la padella secondo il vostro gusto.
Però ai vostri amati esperti, che non sono altro che giornalistucoli e influencer ciarloni, non potevate proprio dire di no, eh?
Concludendo: se amate atteggiarvi a "macho" dell'horror, questo film non fa per voi.
Almeno vi evito di dover lasciare mezza stella e faccine che sboccano, solo perchè vi aspettate che qualcosa di simpatico possa fare "paura" a voi che avete superato la maggiore età. E se al gioco ci giocate, però "lo volevate identico al gioco", è perchè siete dei semplici sceneggiatori in poltrona che hanno visto troppe puntate di Boris o troppi riassunti del trono del Muori, che ora credono che tutto, volendolo davvero, sia possibile, e che pensano che se lo avesse diretto Kubrick allora sì, che sarebbe stato un bel film.
Bel mondo perfetto, il vostro, salutatemi gli unicorni.
Per tutti gli altri, quelli che hanno capito davvero come gira il fantastico mondo di FNaf, ma sopratutto ai giovani dico:
Può anche sembrarvi che manchino molte cose. Ma non dimenticatevi, che è un FILM, non il videogioco.
CAPITELO. perchè i critici capiscono solo i film che piacciono a loro, e qui, nella vita reale, NON CI SONO. Sono quattro gatti sul web.
PER UNA BUONA VOLTA, RIBELLATEVI. Cestinate quei siti troll come RT e Metacritic, sono fatti solo per attirare utenti, dare lavoro agli influencer del cinema con la c minuscola e scatenare polemiche.
TMDB mi sembra molto meglio, con I piedi per terra e più realistico.
con affetto, una persona adulta che ama FNaF (e altri film umili)
"Gekko è vivo e truffa (forse) insieme a noi" si potrebbe affermare parafrasando uno slogan del '68. Per la prima volta Oliver Stone torna sui suoi passi rivisitando un proprio personaggio. In questi casi si tratta sempre di operazioni rischiose ma l'operazione è riuscita. Non poteva essere diversamente, vista la materia offerta dalla recente crisi finanziaria di cui ancora a lungo pagheremo le conseguenze. Il finanziere d'assalto del film datato 1987, che veniva incarcerato pei suoi crimini, 23 anni dopo sembra un agnellino rispetto a chi gli è succeduto. La speculazione è un cancro pervasivo che ha invaso il mondo e l'alea morale (quella peculiarità per la quale i risparmiatori mettono il loro denaro nelle mani di qualcuno che non si assumerà alcuna responsabilità per l'uso che ne farà) domina il mercato.
Stone lancia ancora una volta un pesante j'accuse adempiendo al compito (che si è dato da sempre) di 'volgarizzare', nel senso di rendere comprensibili, le dinamiche del potere, sia esso politico o economico. Come sempre, però, torna a rivisitare le proprie ossessioni narrative e visive. Perché in lui permane sin dalla gioventù un conflitto mai risolto con la figura paterna che traspare in molte sue opere. Non è un caso che la dinamica 'privata' del film si dipani su due filoni legati alla paternità: Gekko vuole riallacciare un legame spezzato con la figlia, e Jake, avendo perso Zabel, è alla ricerca di una nuova figura 'paterna' di riferimento. Stone vive costantemente il conflitto tra autorità e libertà, lo associa politicamente al conflitto tra Stato e Mercato e lo traduce nella drammatica scena della crisi in cui uno dei presenti, dinanzi alla necessità dell'intervento dello Stato americano per salvare le banche, afferma: "Questo è socialismo!".
Ma il regista crede anche profondamente nell'opera di Satana nel mondo (ricordiamo quante riscritture dovette subire l'originale sceneggiatura di Tarantino per Natural Born Killers per introdurvi la presenza del Demonio). Ecco allora il quadro dominante lo studio del 'cattivo' di turno in cui il Diavolo mangia un corpo umano. Da anarchico di destra bisognoso di certezze Stone va alla ricerca del Male. Lo denuncia spietatamente sperando così che le forze degli inferi non prevalgano.
The guardian, è un prodotto di ottima fattura, con buoni effetti speciali per le sequenze di salvataggio dalle acque, con solide interpretazioni dei due protagonisti (Ashton Kutcher meglio di Kevin Costner), piacevole da vedere nel suo insieme. In un packaging così ben confezionato, Andrew Davis (regista de Il fuggitivo e della nuova versione de Il delitto perfetto) sembra tuttavia avere saccheggiato Ufficiale e gentiluomo e, in secondo luogo, Top gun, per costruire una storia che sullo schermo è apparsa più volte. Il rapporto addestratore-recluta, non particolarmente approfondito, risulta quindi un deja vu, che non aggiunge niente a ciò che è stato.
In un insieme di thriller-gotico-fantasy-action, la storia fila arrembante fino alla conclusione. Notati gli "sposi" Vincent-Monica (dove c'è l'uno c'è l'altro) e la brava Dequenne, l'infelicissima Rosetta (già premiata come migliore attrice a Cannes '99). Il budget è stato di sessanta miliardi, quasi un record per una produzione non hollywoodiana
L’amore infedele – Unfaithful, remake del bel film di Chabrol Stéphane, una moglie infedele, conferma una volta di più i pochi pregi e i molti difetti del regista Adrian Lyne: tecnicamente dotato ma più furbo che ispirato. Eccolo allora offrirci il consueto repertorio di erotismo laccato e dilemmi morali da rotocalco, con l’aggravante di una sceneggiatura che non sa come e quando “chiudere”. Unica nota positiva Diane Lane, che sebbene in ritardo si avvia finalmente allo status di diva.
Jon Lucas ha alle spalle il lavoro alla sceneggiatura dell'intero ciclo di Una notte da leoni a cui Scott Moore ha dato il suo contributo. Si tratta quindi di una coppia affiatata quella che si cimenta con questo primo lungometraggio. Si potrebbe pensare (a buon diritto) che scrivere sia una cosa e dirigere un'altra. I due però, per sentirsi più sicuri, percorrono strade già battute avendo comunque cura di mutare la fascia d'età che il titolo originale dichiara immediatamente. Non hanno quindi difficoltà nel raccontare una notte brava e di passaggio (quante volte Jeff sbatte letteralmente in faccia ai buttafuori la sua carta d'identità...) innervandola con tutte le varianti del caso. Non mancano infatti un bel vomito prolungato e ripreso al ralenti, l'uso inconsueto di un tampone vaginale così come l'incontro/scontro con un gruppo di ragazzi desiderosi di vendicarsi o un bisonte spaventato da un'esplosione.
E le ragazze? Non mancano neanche loro e vengono declinate, come d'uso in questi casi, in versioni diverse (ivi compresa quella sadomaso che dopo le 'sfumature' ha acquisito molti punti e qui trova anche una variante giustizialista). Quello che però si percepisce (a differenza della stragrande maggioranza dei film del genere) è un senso di tristezza, di arrivo al capolinea più che di raggiungimento di un traguardo che proietti verso nuove mete. Le trovate più goliardiche e 'sconvenienti' possono anche provocare il riso ma si tratta di un riso amaro.
Non è dato sapere quanto i due ne siano stati consapevoli ma Miles Teller nel ruolo di Miller sembra un John Belushi adolescente senza possederne il carisma però con quel tanto di amarezza nell'eloquio che ne ricorda le performance.
Che Serenity fosse un oggetto perfetto per diventare un flop, era in qualche modo scritto: un regista sceneggiatore, Steven Knight, solito a divertirsi con stereotipi e sfide stilistiche (suo lo script di Allied - Un'ombra nascosta di Zemeckis, classicissima spy story hitchcockiana ambientata durante la Seconda guerra mondiale; sua la regia di Locke, un'ora e mezza di conversazione telefonica di Tom Hardy nell'abitacolo di una macchina); due interpreti, Matthew McConaughey e Anne Hathaway, entrambi vincitori di Oscar ma dalla carriera segnata da battute d'arresto e scelte sbagliate; un'ambientazione su un'isola tropicale, con atmosfere sudate e colori accesi, che rimanda immediatamente a un'estetica patinata da softcore anni '80, alla Orchidea selvaggia, per intenderci, o giusto un paio di gradini più in su a The Hot Spot.
Da sette anni il Mel Gibson attore aveva deciso di fare posto al suo alter ego di regista impegnato a raccontarci 'La Verità' sulla passione di Cristo prima e sulla crudeltà dei Maya subito dopo. Martin Campbell lo ha riportato dall'altra parte della macchina da presa per questo adattamento per lo schermo di una miniserie in sei puntate prodotta dalla BBC, datata 1985 e diretta da Campbell stesso.
Il plot di base è decisamente già visto con un padre che infrange la legge pur di scoprire cosa stia dietro l'uccisione di un figlio o di una figlia e, per quanto accortamente disseminato di piccoli o grandi colpi di scena, potrebbe spingere a disertare le sale. Il pregio però sta proprio nella scelta di Gibson quale protagonista. L'attore sa offrire al suo detective impegnato nell'indagine più dolorosa della vita una serie di sfumature che segnano la vicenda come un percorso di riavvicinamento alla figlia che passa attraverso un odio che è sublimato dalla sofferenza interiore. Non è un giustiziere della notte Thomas Craven, anche se agisce come tale. E' un uomo che ha visto crollare il mondo intorno e dentro di sé e non vuole rinunciare a trovare una risposta a una morte apparentemente insensata. Scoprirà una verità che per il conservatore Gibson suona inusuale. Perché dietro all'intrigo sul nucleare non si trovano i 'cattivi' mediorientali. Non ci sono alieni alla Signs da cui difendersi impugnando la simbolica mazza da baseball per poi tornare a ritrovare 'la fede'. Scoprire che il Male non è più così facilmente collocabile al di fuori dei confini patri è un bel passo in avanti.
Campbell non è Eastwood però ha un'attenzione simile per un cinema di genere capace di guardare oltre gli stereotipi. Magari anche attraverso gli sguardi e i gesti di un padre in cui si legge l'abisso di una perdita. Ben tornato all'attore Gibson.
Michael Moore si era fatto conoscere anche in Europa con il lungometraggio Roger and Me (1989). Torna alla carica, dopo aver realizzato altri tre film, con un nuovo documentario in cui stigmatizza il liberismo assoluto in materia di porto d'armi negli Stati Uniti. Prendendo come punto di partenza la strage alla Columbine High School del 1999 il regista non si limita a scaricare tutte le colpe su Charlton Heston e sulla sua associazione che promuove l'autodifesa dei cittadini ma prova ad andare più a fondo. Ne nasce un ritratto in nero, ma anche satirico, della nazione più potente nel mondo che ha meritato il riconoscimento che gli è stato tributato a Cannes.
L'onda lunga del passato non consegna sempre buoni ricordi e trasformarlo in presente può essere un buon affare ma anche una cattiva azione. "Vita da strega" (Bewitched) è stata una delle tante serie televisive ed una delle più sciocche. Una di quelle appunto che hanno contribuito ad instupidire le masse tra nuvole di zucchero filato e la rappresentazione della classe media americana, obbligata ad uno status banale e convenzionale. Erano le avanguardie dei personaggi di Oltre il giardino e Forrest Gump, vale a dire: statevene a casa e fate i bravi. Ed infatti il personaggio del marito della protagonista era interpretato da Dick York, attore mediocre dall'espressione stolida. Era il trionfo del matriarcato. Nata negli anni 60, la serie si è protratta oltre il sopportabile. La protagonista era l'insipida figlia dell'attore Robert Montgomery, di qualche fama negli anni 40: Elisabeth Montgomery.
Ci vorrebbe un altro carattere di stampa per parlare di Speed Racer, ultima fatica dei fratelli Wachowski, dal sudore virtuale e dall'impatto iperreale. Unendo computer grafica e live action, i "warner bros" hanno abbandonato le atmosfere dark a metà tra sogno e incubo della trilogia di Neo per penetrare nel regno del colore, dell'esuberanza e della soddisfazione di ogni istinto ludico: il cartone animato.
Nella reinvenzione del cult di Tatuo Yoshida, in Italia noto come "Go go Mach 5", più che sulla velocità dei bolidi o sui loro duelli acrobatici - che hanno ispirato la definizione di car-fu, il kung-fu delle quattro ruote -, la sfida che i Wachowski hanno vinto in partenza è quella della novità dell'immagine.
Dalla complessità dei livelli narrativi sincronici di Matrix si passa qui alla messa a fuoco contemporanea di tutti i piani, dal dettaglio al campo lunghissimo. La sproporzione tipica del disegno animato (e, in qualche modo, dell'arte) viene sposata come mai prima in un film di attori in carne ed ossa, per cui un sorriso può riempire lo schermo e seguire a ruota l'inquadratura di un intero skyline di grattacieli. Le regole di composizione e di successione s'ispirano solo alla fantasia e al collage di stili, con una predilezione per l'acid-pop.
La narrazione è lineare, senza piroette, scandita come un videogioco da quattro "quadri" principali, corrispondenti ai quattro circuiti su cui si lancia la Mach 5 di Emile Hirsch.
Babbo John Goodman, mamma Susan Sarandon, Christina "Trixie" Ricci e la popstar coreana Rain, nella tuta di Taejo Togokhan, più che un provino sembrano aver superato il test della trasformazione in fumetto. Persino la back-story di Racer X, coltivata nel segreto, nel sacrificio e nell'esagerazione, è ingrediente immancabile di ogni "anima" giapponese.
Non che se ne sentisse la mancanza, ma il neoclassicismo spielberghiano regala una versione brillante ricca di belle coreografie e con un gruppo di attori giovani davvero bravi.
Il resto lo fa la partitura originale (che si gioca comunque le cartucce migliori nella prima parte) e il Bardo sullo sfondo: la scena del balcone (pardon: delle scale antincendio) fa sempre piangere come vitelli.
La storia di un supereroe come potrebbe essere nel mondo crudele. Bello e imprevedibile.
Un film dell'orrore che poteva essere interessante 50 anni fa. Nessuno sforzo creativo solo la riproposizione pedissequa di tutti i clichè del genere. Deludente.
Meno male che abbiamo ancora attori che invecchiano bene. Non tanto sul piano fisico quanto piuttosto su quello della "tenuta" sulla scena. Due di loro sono Jack Nicholson e Diane Keaton. Che si possono permettere di recitare in una commedia old fashion sul tempo che passa e gli innamoramenti che restano senza perdere un colpo e, anzi, rimediando alle eventuali debolezze della sceneggiatura. Alcuni sguardi di Jack sono impagabili e se qualcuno si lamenta per le mossette di Diane non c`è problema. Le fa da quando ha cominciato a recitare.
Ultraviolet ed Equilibrium nascono dalla mente della stessa persona (Kurt Wimmer, sceneggiatore-regista), vantano la stessa interessante tecnica marziale (Kata della pistola), ed hanno una trama di fondo, dettagli a parte, praticamente identica: uno contro tutti e pedalare. Mentre Equilibrium, nonostante limiti oggettivi, è però un titolo che ha diviso le platee tra detrattori e adoratori, Ultraviolet potrà dividerle al massimo in detrattori moderati e oltranzisti. In una cornice digitale al risparmio sui fondali, peraltro di qualità scarsa persino per un videogame, si assiste ad una tediosa sarabanda di combattimenti antigravitazionali smodatamente acrobatici. Tuttavia le grazie di Milla Jovovich si meriterebbero cinque stelle.
Non il mio Tarkovskij preferito, ma una sf diversa ed estraniata che medita sui desideri e sulle pulsioni umane (anticipando in un certo senso 'Stalker').
Parco di parole, l'acqua come elemento unificante, Bach, Cervantes, Bruegel, l'alternanza di bn e colore: durasse un po' meno sarebbe meglio, ma comunque intrigante.
Opera prima di Henry Hobson, Contagious non è un film di zombie come gli altri. Nessuna orda di morti viventi, nessuna mazza a tramortirli, nessun centro commerciale a stiparli, niente di tutto questo accade sullo schermo perché il regista inglese si concentra sulla relazione intima padre-figlia e attraverso quel legame interroga l'eterno vagare degli zombie.
Dentro un clima di diffusa malinconia, che non si nega qualche passaggio gore, Contagious impiega le convenzioni del genere (horror) per svolgere una storia inattesa. Allo stesso modo, la scelta di un interprete ad alto rilascio leggendario, uno Schwarzenegger di inaspettata dolcezza, risponde all'esigenze della trama e frustra le aspettative. Fenomeno possente esploso nel 1982, l'attore austriaco ha prodotto un cinema dell'eternità convertendo la carne in acciaio e rendendola insensibile a qualsiasi sofferenza fisica. Ercole, Conan, Terminator, Schwarzenegger ha fatto letteralmente a pezzi i suoi nemici cambiando con Sylvester Stallone la storia del cinema popolare americano. Per questa ragione la sua impotenza, di fronte al corpo necrotizzato di sua figlia, disorienta e sbalordisce lo spettatore. Padre in ambasce e colosso abbattuto dentro un mondo in rovina, Schwarzenegger è lontano dall'androide implacabile che fu e dalla competenza pratica dei suoi eroi. Per la prima volta disarmato davanti all'ineluttabilità del destino e sopraffatto da un sentimento autentico, imbraccia il fucile e abbraccia la figlia, nel tentativo estremo di trattenerla e di rimandare la sua eutanasia. Ancorata alle sue spalle olimpiche e alla sua inedita vincibilità, la Maggie di Abigail Breslin resiste per la seconda volta in un film di revenants. Scampata ai morsi 'avvelenati' dentro una commedia e un luna park 'zombizzato' (Benvenuti a Zombieland), Abigail Breslin avverte questa volta i cambiamenti 'mostruosi' dell'adolescenza. E ancora evoca una malattia senza remissione, interpreta una malata terminale più lucida di chi la ama e rifiuta di accettarne il trapasso imminente.
Tra padre e figlia si ingaggia allora un confronto struggente, una lunga resistenza che nulla potrà contro la febbre omicida che divora la protagonista. Contagious è un duello che tratta il soggetto zombie in maniera intimista, elude qualsiasi muta splatter e minacciosa e converge sull'individualità del morto vivente, sulla sua angoscia davanti alla propria crescente pulsione distruttrice. Se nei film di zombie la trasformazione ha luogo in pochi istanti, in Contagious la decomposizione del corpo richiede, a ragione di questo ripiegamento esclusivo, settimane. Hobson sacrifica l'esaltazione dell'intrattenimento allo sguardo contemplativo, il panico alla disperazione, la macellazione alla quarantena, la precipitazione all'incubazione, e realizza un film drammatico che esce dal sentiero battuto dal genere, tornato alla ribalta sotto l'impulso e il successo della serie televisiva The Walking Dead. Alternando i contrasti freddo-caldo, i grandangoli (per scoprire distese di terre improduttive) e i piani stretti (per cogliere l'inquietudine irriducibile dei protagonisti), la regia di Hobson suscita un sentimento destabilizzante reso ancora più toccante e turbante dalla coppia Schwarzenegger-Breslin, il primo annientato dalla dipartita imminente della sua bambina e la seconda torturata dal male che la divora dall'interno. Sospeso tra ballata elegiaca e science fiction post-apocalittico, Contagious è dominato dal corpo piegato e sconfitto di Schwarzenegger, lontano dai circuiti hollywoodiani e dentro un progetto indipendente di cui l'attore è interprete e produttore. Dopo aver ripreso il ruolo di Terminator T-800 nel quinto episodio della celebre saga (Terminator Genisys), l'attore infila un film che è insieme condizione dell'anima e luogo fisico dove (forse) cominciare a invecchiare.
Roger Kumble continua ad occuparsi di commedie e questa volta è vicinissimo a centrare il bersaglio. Vicinissimo ma non al centro. Vediamo perché. Il personaggio del ragazzo destinato a rimanere solo amico non esiste solo sul grande schermo o nella canzone (ricordate "La regola dell'amico" di Max Pezzali?) ma anche nella realtà. Quindi la possibilità di identificazione con il grande e grosso Chris Brender 'prima della cura' è un elemento narrativo molto forte. Così come lo è la possibilità di ritrovarsi nel cinico sciupafemmine per vendetta inconscia del 'dopo la cura', dieci anni più tardi. Funziona poi anche il controcanto del fratello minore rompiscatole a cui si affida il contenimento della debordante Samantha (con un'Anna Faris insopportabile al punto giusto). Il problema però è che la sceneggiatura a tratti vuole mescolare le carte e attribuire il grottesco a un Ryan Reynolds che in quelle situazioni risulta poco credibile. Anche in questo caso: ottima l'idea di trattare il tema del 'passato che ritorna' con Chris ormai convinto della propria seduttività che vede invece riemergere le frustrazioni di un tempo ma è 'il modo' in cui le suddette fanno la loro ricomparsa che finisce con il far perdere l'adesione al personaggio. Vorrebbero farci ridere (e magari ci riescono) ma trasformano un personaggio credibile in una macchietta. Peccato.
Cinque anni e un Oscar fa, Mambo era un piccolo pinguino col vizio del tip tap e alla ricerca della propria iniziazione alla vita. Ballerino in un mondo di cantanti virtuosi, Mambo cresce e diventa padre di un pinguino altrettanto 'diverso' ma altrettanto ostinato a realizzarsi. A 'formare' il giovane Erik ci pensa ancora una volta George Miller, produttore, sceneggiatore e regista di animali che pensano e agiscono come persone. Come fu per Babe, maialino coraggioso che voleva diventare cane pastore, per l'anatra che si sognava gallo, per il pinguino che studiava da ballerino, allo stesso modo Erik aderisce alla poetica dell'autore australiano 'differenziandosi' e divergendo dalla 'legge' del gruppo di appartenenza. Ma se per Mambo la danza era un'inclinazione naturale e irrinunciabile dentro una società gerarchizzata dove il suo cambiamento diventerà strumento di riconoscimento, per suo figlio le cose sembrano andare diversamente. Erik vuole modificare la propria natura e vive la propria 'pinguinità' come un limite. Ma davvero senza ali non si può volare? Più adolescenziale che infantile, 'il ragazzo' disobbedisce tenacemente. La sua indisciplinatezza sfida le competenze paterne e cerca altrove, in un 'pulcinella' (di mare) qualsiasi, l'esempio da imitare. Saranno l'imprevedibilità della vita, l'onda anomala di uno tzunami e i rovesci di un terremoto a ravvedere Erik e a invitarlo a guardare con sguardo indulgente e finalmente ammirato quel genitore impacciato ma fortemente impegnato a diventare un padre migliore. Diversamente dal passato i papà sono più accudenti e coinvolti nell'esistenza dei propri figli al punto da diventare argomento eletto dell'animazione, che 'disegna' sempre più spesso padri distintivi e amorevoli.
Insieme a Cattivissimo me e Kung Fu Panda, Happy Feet 2 mette in schermo padri adottivi o naturali che producono valori, pongono limiti e insegnano alla propria prole ad affrontare la vita adulta, abbinando alla funzione normativa quella affettiva. Se la Disney con Il Re leone introdusse per prima la 'presenza' paterna, Mufasa, dominante e democratico, resta un genitore incoerente e 'interrotto'. Mambo è padre di un altro 'inverno', di un cambiamento sociale, di una rivoluzione culturale, di una diversa specie, naturalmente portata alle attività di accudimento primario dell'infanzia. 'Covare' il suo Erik ha fatto di Mambo un padre materno che ha rinnovato il concetto tradizionale di virilità e autorevolezza. Il potenziamento della figura paterna non ha depotenziato comunque quella materna di Gloria, madre affettuosa e consapevole dei rispettivi ruoli. Ancora una volta Miller sposa la musica e realizza un ambizioso progetto danzato, riconfermando ecologismo, diversità e tridimensionalità. Tra rock e rap, pop e hip hop, jodel e melodramma (lirico), Erik intonerà la romanza di Puccini ("E lucevan le stelle") facendo rimpiangere la metrica perfetta di Giacosa e Illica, Happy Feet 2 canta e coreografa con meno incisività il palcoscenico antartico. Spettacolare nella profondità dell'oceano e del 3D è invece il mondo di sotto, 'battuto' dai gregari Will e Bill, krill leggiadri che, sviluppando una storia parallela alla maniera di Scrat, si improvvisano predatori e risalgono la catena alimentare. Perché nelle produzioni 'polari' di Miller i pinguini possono volare alto e gli invertebrati eseguire coreografie felpate che 'spaccano'.
Quando i ciak sbagliati riproposti sui titoli di coda sono la sequenza più divertente del film, non ci vuole un tesserino da detective per capire che c'è qualcosa che non va. L'idea di mettere nella stessa inquadratura Reese Witherspoon e Sofia Vergara non è affatto male, ma non si può pensare che basti a se stessa. Invece, nel film di Anne Fletcher, molto poco vien loro in soccorso: la trama è del genere scontato che può salvarsi dal vuoto solo facendosi esplicitamente cliché e riempiendosi di un dialogo irresistibile e di qualche gag ben assestata, ma sfortunatamente ciò non accade e il massimo a cui ci si può aggrappare per sorridere sono i nomignoli con i quali il personaggio della Vergara apostrofa quello della Witherspoon, anch'essi però ridimensionati dal doppiaggio, che fa quel che può per mantenere la temperatura dell'idioma ispanico ma non fa miracoli.
Siamo dalle parti di Corpi da reato, con Sandra Bullock nei panni della stangona di turno e Melissa McCarthy in quelli del corpo fuori formato (all'estremo opposto rispetto alla minutissima Witherspoon), nel senso che il film della Fletcher ripropone allegramente molte situazioni narrative del film del 2013 nonché l'idea di fondo di un buddy-movie al femminile. Più pulito nel tono e romatico nell'ideale, Fuga in tacchi a spillo lascia pensare che nelle intenzioni della regista e della produzione ci fosse una commedia sofisticata travestita da poliziesco burlesque, anche se poi nei risultati c'è una commedia piuttosto stentata, una "cooperata" buona per un dopo pranzo estivo davanti al televisore, dove l'unica emozione viene dalla sottotraccia omoerotica: il solo aspetto del film che superi le intenzioni.
Avete mai visto un film su cui vi hanno fatto un sacco di Hype, ma poi non vi è piaciuto così tanto?
Lasciate che vi faccia un pò di Hype : innanzitutto Minari è un film che parla della vita di una famiglia coreana che si trasferisce in america, è essenzialmente un film sul sogno americano. Ha vinto anche importanti premi al Sundance Festival, ed è stato candidato a molti oscar.
Le emozioni non mancano, è un film di vita reale in cui si vedono e sentono cose negative, positive, spaventose, incoraggianti, si nota soprattutto la mutevolezza della vita e il caos che la accompagna.
Le relazioni sono rese bene, gli attori son molto bravi, fotografia e regia eccellenti, e anche la musica accompagna piacevolmente l'intera visione.
E' allora cosa c'è di negativo?
Non saprei come spiegarvelo se non così : Mi sembra un film fatto apposta per piacere agli americani. Credo ci sia molta abilità artistica, ma è talmente e solamente una reinterpretazione del sogno americano, che, al di fuori della cultura che lo osanna, questo film lascia ben poco di altro.
**Verdetto** : Quando i mezzi per raggiungere il fine sono fantastici, e esci di sala un pò con la pancia vuota, allora è il fine che cozzava? Ma forse il verdetto in inglese dice molto di più in molto meno : "Nothing to write home about."
**Ottimo per** : Un pomeriggio di sole e vento, se avete voglia di qualche emozione e di rilassare la mente.
Una specie di La ballata di Stroszek della nuova Hollywood politicamente corretta e senza talento.
Mediocre e senza guizzi, il film va avanti stancamente per inerzia in scenette e dialoghi stucchevoli.
L'unico che fa bella figura alla fine è il rabdomante
Pochi altri film hanno messo in immagini con altrettanta efficacia la locuzione metaforica "carne da cannone", ma al di là degli accenti epici, dei conflitti psicologici e dei rimandi all'attualità sociale, questo 2° film di Zwick, sceneggiato da Kevin Jarre, ha un'intensa dimensione religiosa. 3 Oscar: miglior attore non protagonista (Washington), fotografia (Freddie Francis) e suono.AUTORE LETTERARIO: Lincoln Kirstein, Peter Burchard
Affiatati come pochi, i Farrelly Bros. e Ben Stiller si riuniscono per un'altra commedia irriverente e bizzarra. Protagonista, questa volta, è Eddie Cantrow, un fascinoso quarantenne, convinto, dopo soli tre giorni di luna di miele, di aver trovato la donna della sua vita. In realtà, le cose non vanno come dovrebbero e la neosposa svela lati caratteriali inizialmente sopiti.
La trama trae spunto da una novella di Bruce Jay Friedman già portata sul grande schermo nel 1972 con protagonisti Charles Grodin e Cybill Shepherd. Ricalcando fedelmente i toni surreali e oltraggiosi di Tutti pazzi per Mary, la nuova pellicola dei fratelli Farrelly difetta nel concentrare la vis comica nella prima parte del soggetto che si stempera, nei toni e nel ritmo, nella parte conclusiva. Nonostante la presenza di numerose gag esilaranti, il film ripropone gli stilemi della commedia hollywoodiana (avvicendamento, equivoci più diversi, ricchezza di colpi di scena, lieto fine) senza aggiungere al prodotto soluzioni originali o coraggiose.
I due registi, maghi nel far apparire divertente la vita, sembra abbiano costruito un vero e proprio marchio stilistico che, da un lato, fa piacere ritrovare, dall'altro, genera nello spettatore un sentimento di stanchezza e di ridondanza.
Buono il cast. Sia protagonisti che caratteristi riescono a essere disinvolti e brillanti senza forzature. Su tutti svetta l'interpretazione di Ben Stiller la cui espressività tragicomica ne esce amplificata nella sua vivace naturalezza.
I fratelli Strause sono tornati per offrire la controprova che non è sufficiente essere ottimi creatori di effetti speciali per potersi anche consentire di considerarsi altrettanto validi registi. I due sono stati supervisor in film come Terminator 3 - Le macchine ribelli, L'alba del giorno dopo, 300, Il curioso caso di Benjamin Button, Avatar solo per citare alcuni titoli. Il loro problema non sta quindi nella capacità di portare sullo schermo elementi nuovi sul piano della resa tecnologica. Su questo versante anche in questo film (in cui avevano a disposizione un budget basso) le cose funzionano.
Quello che non va è la sceneggiatura (se così vogliamo definirla) scritta a quattro mani da Joshua Cordes e Liam O'Donnell, entrambi al loro primo script. Purtroppo si vede e ci si accorge da subito che anche una serie televisiva di medio livello ha dei dialoghi più efficaci e una costruzione dei personaggi più articolata. Tutto (o quasi) risulta prevedibile e quelli che altrove avrebbero potuto risultare quali 'omaggi' (a Jurassic Park, a La guerra dei mondi per restare in area Spielberg o a Independence Day per l'articolazione in giornate e per la reazione a mani nude) qui si riducono a puri e semplici tentativi di portare avanti la storia.
Premi Oscar per gli effetti speciali come Giger e Rambaldi non si sono mai cimentati nella regia di un lungometraggio e hanno fatto bene. Anche perché se ti ritrovi a girare nella casa in cui abiti (il set è l'edificio in cui è collocato l'appartamento di Greg Strause) e per di più stai lavorando come supervisore a un film, sempre su un'invasione aliena, che si chiama World Invasion: Battle Los Angeles qualche problema produttivo ce l'hai già e qualche altro rischi di averlo (per plagio). Ma gli Strause non si fermano dinanzi a nulla e il finale (una delle cose più riuscite del film) fa intravedere la possibilità di un sequel.