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Movie lists

Latest reviews:

Captain America: The Winter Soldier (2014) Captain America: The Winter Soldier (2014)
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Il profilo che la Marvel sta delineando per se stessa al cinema, anche in opposizione ai film della casa di fumetti rivale DC, è quello più legato all'entertainment in senso stretto. Poco problematici e molto divertenti, i suoi fumetti trasportati al cinema sono un concentrato delle migliori regole dell'intrattenimento filmico, con una complessità sempre crescente data dalla gestione di un universo di storie e personaggi intrecciati in maniera ben più stretta di quanto non facciano i fumetti stessi.
È cinema che flirta con la serialità televisiva, cercando di mescolare le acque e le competenze. Non a caso, dopo una prima fase in cui erano affidati a canonici registi di cinema, i film Marvel sempre di più cadono nelle mani di mestieranti o autori provenienti dalla tv (da Whedon per Avengers ai fratelli Russo per questo film) e sempre di più pare che, proprio come per la serialità televisiva, la parte di scrittura e la maniera in cui i diversi episodi/film creano un tutto armonico e coerente, sia la componente della filiera creativa in cui si trova l'autorialità di questi prodotti.
Capitan America, che per il suo primo film aveva beneficiato del trattamento del veterano Joe Johnston, il quale complice l'ambientazione l'aveva contaminato con echi dell'Indiana Jones di Spielberg riuscendo ad organizzare un gran racconto, ora invece prosegue con una patina più anonima, che mette in risalto l'arrivo di nuovi comprimari (Falcon in primis) più che la storia in sè.
Il risultato serve molto bene la grande trama che lentamente porterà questo secondo ciclo Marvel al prossimo Avengers, a cui spetterà nuovamente il compito di chiudere tutte le sottotrame aperte nei diversi film ma non rende un buon servizio a Capitan America. È infatti una storiella molto sterile di tradimento e idealismo quella che anima il secondo assolo filmico di Steve Rogers, una più utile a rinsaldare il legame tra il protagonista, Nick Fury e Vedova Nera e ad evolvere il ruolo dello S.H.I.E.L.D. che altro.
Con il consueto dispiegamento di riferimenti alle saghe fumettistiche, mezzi, esplosioni, botte e botti da serie A del cinema, Captain America - The winter soldier serve bene il sopracitato intento primario dei film Marvel ma di certo non riesce a trovare quella felice leggerezza che hanno gli esempi migliori provenienti dallo studio. Sarà quindi difficile che questo secondo episodio dell'eroe patriottico venga ricordato per qualcosa se non per l'essere stato un film di passaggio.

Animali fantastici e dove trovarli - Fantastic Beasts and Where to Find Them (2016) Animali fantastici e dove trovarli (2016)
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Bisogna essere creature un po' magiche, com'è J. K. Rowling, per far saltar fuori da un bestiario di poche pagine, pensato come testo scolastico per i giovani allievi di Hogwarts, una pentalogia che, stando almeno al primo capitolo, non ha nulla del calco della saga potteriana ma soltanto una magnifica continuità di visione e di felicità d'invenzione. In questo quadro, David Yates non ha, però, un ruolo minore: la sua frequentazione dell'universo magico della scrittrice ne ha fatto probabilmente il miglior traduttore in circolazione per il cinema, specie degli episodi più scuri e perturbanti, com'è questo, nei quali dimostra ancora una volta di saper equilibrare con sapienza la necessità di non edulcorare il tema e l'eleganza di non indulgere nell'orrorifico per vezzo.
Denso di citazioni interne e di indizi che faranno incuriosire i fan, così come di allusioni a personaggi storici (Deliverance Dane) e persino di reminiscenze e atmosfere di sapore prettamente cinematografico, Animali Fantastici e Dove Trovarli non è per questo un film chiuso ai nuovi arrivati. Al contrario. E non potrebbe essere diversamente: in primo luogo perché, proprio come Newt, siamo tutti nuovi al mondo che incontra e agli amici che si farà (non più un trio ma un quartetto, adulto, altrettanto riuscito) e, secondariamente, perché il film è, nel suo tema, un invito a ripensare proprio i pregiudizi e la clandestinità, e a non temere la diversità. Non solo Newt si stupisce che gli Stati Uniti non prevedano, come fa già l'Europa, matrimoni misti tra Maghi e No-Mag, ma soprattutto il film racconta, nel suo cuore più dark e potente, quali terribili conseguenze può avere punire qualcuno per quello che è, quale forza folle e traumatica può scatenare in un bambino il sentirsi rifiutato, non accettato, non amato.
Scamander, che salva le creature che terrorizzano chi non le conosce, le nutre e la protegge, e soprattutto si adopera per insegnare ad altri maghi come prendersi cura di loro, ha l'animo del giovane maestro illuminato, che sa che bisogna mettersi ad altezza di bambino, giocare con lui, parlare il suo linguaggio. Non è un caso, dunque, che al pronunciare la parola "scuola", lui, Tina e Queenie sospirino di nostalgia. Questo sarà anche un film per un pubblico più adulto, ma non per chi non ha almeno un po' di nostalgia per quel tempo, l'infanzia, in cui non c'erano barriere tra le pareti di casa e il mondo degli amici e degli animali immaginari.

Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 1 - Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1 (2010) Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 1 (2010)
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Di episodio in episodio la saga cinematografica di Harry Potter accumula incassi, nonostante sia sempre più difficile da seguire. Aumentano i riferimenti, i personaggi, gli oggetti, i luoghi e la storia pregressa, rendendo più difficile tenere le fila di tutto per lo spettatore digiuno di romanzi che segue le avventure solo una volta l'anno. Tutto ciò non sembra interessare alla produzione, come del resto non sembra interessare la qualità generale del prodotto confezionato. Dopo l'avvicendamento di tanti registi importanti e abili (Columbus, Cuaron e Newell), la Warner conferma per la terza volta il meno adeguato David Yates (il quale chiuderà anche la saga con il prossimo e ultimo film girato assieme a questo).
Harry Potter e i doni della morte soffre però anche di un altro problema: essere il primo film della saga tratto da una parte di un romanzo. Fino ad ora ad ogni libro era corrisposto un film, con tutto il corollario di polemiche da parte della base dei fan che vorrebbero rivivere in sala ogni singola pagina della Rowling. Ora invece l'idea di tradurre l'ultimo libro in due film arriva a raddoppiare la monetizzazione con la giustificazione morale di accontentare i fan, il risultato tuttavia è un film lungo più di due ore che manca di quelle caratteristiche che erano la firma di ogni avventura potteriana al cinema: umorismo, mistero e azione. Questo settimo film è la parte più on the road di una saga tutta casa e Hogwarts ma anche quella con il ritmo più controllato, tutta silenzi espressivi e tempi dilatati.
L'idea sarebbe di comunicare l'incertezza, i dubbi e le paure del personaggio attraverso l'uso di una messa in scena apparentemente meno controllata (c'è moltissima più macchina a mano del solito) e lasciando che le molte location in esterni parlino dell'interiorità dei personaggi in fuga. Paesaggi e silenzi esteriori che riflettono vuoti interiori, spiazzando spettatori abituati ad una routine scenografica rodata (le case, le aule della scuola, la foresta intorno) con laghi immensi, foreste innevate, autostrade in rovina e boschi d'inverno ripresi come luoghi tetri di un'anima inquieta. Per riuscire in questa impresa cinematografica di paesaggi che definiscono personaggi però forse era necessaria la mano di un regista più abile a mescolare i toni e gestire tempi dilatati.
Voldemort e Harry perdono le loro bacchette senza perdere la loro magia, si emancipano dai propri strumenti in vista di un confronto che sarà personale prima che magico mentre l'Horcrux (ovvero un'epifania del signore oscuro) corrompe e incattivisce i tre amici che lo portano in fuga come fosse l'Unico Anello. Sono tutti stimoli però che il film non sembra voler recepire per lasciare spazio ai dilemmi interiori di un eroe che ormai affascina ben poco.
Eccezione che conferma il giudizio è la sequenza della favola dei doni della morte, realizzata con un'animazione CG altamente stilizzata, e dotata di un fascino oscuro e misterioso che ricorda quello dei primi episodi cinematografici di Harry Potter e che si sperava di ritrovare in questi conclusivi.

Alla ricerca di Nemo - Finding Nemo (2003) Alla ricerca di Nemo (2003)
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Disney e Pixar hanno fatto ancora una volta centro con un film che rappresenta una sorta di rivincita dle rapporto padre-figlio al cinema. Di solito si tratta di relazioni virilmente tormentate. Qui invece è papà, dopo che la mamma è morta ad inizio film, ad essere apprensivo nei confronti del piccolo leggermente handicappato. Come è ormai da tempo tradizione siamo di fronte a un'animazione molto curata (anche se qualche pesce è un po' 'gommoso') e a una sceneggiatura che parla ad adulti e bambini con livelli di narrazione diversificati. I colpi di scena si susseguono fino all'ultimo. Anzi, anche oltre. Guardate tutti, ma proprio tutti, i titoli di coda. Ne vale la pena.

Logan - The Wolverine - Logan (2017) Logan - The Wolverine (2017)
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L'intento è di esaltare il lato umano degli stessi: perché Wolverine si diventa, ma Logan si nasce (e si muore). Sono sufficienti poche inquadrature per capire che il tema sarà crepuscolare. Ma Mangold - che fu regista non a caso del malinconico Copland - fa di più, confeziona un autentico inno al western crepuscolare, con tanto di citazione esplicita da Il cavaliere della valle solitaria e della struggente Hurt - il testo del brano calza a pennello su questo Wolverine - cantata da Johnny Cash. Ma come quei whisky invecchiati, distillati allo stesso modo da decenni, la soluzione funziona ancora. L'importante è crederci, metterci un pizzico di fede.

C'è ancora un domani - C'è ancora domani (2023) C'è ancora domani (2023)
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Un solo aggettivo: POTENTE!

Fast X (2023) Fast X (2023)
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A chiusura di una saga, famiglia, onore e motori sono i punti cardine del film.
Un film pieno di azione, corse e non mancano anche le pallottole, in pratica un degno film della saga Fast & Furious.
I produttori hanno scelto di chiudere col botto, forse inteso più come esplosioni cinematografiche che come finale, dato che, a mio parere, il film alla fine sembra chiudersi senza un senso logico, in maniera frettolosa e senza dare spiegazioni.
Che l'abbiano fatto per lasciare aperte eventuali porte per qualche ricomparsa dei protagonisti? Non si sa, lo scopriremo a breve, a partire già dal prossimo Hobbs & Shaw.

Inside Out 2 (2024) Inside Out 2 (2024)
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Ho pianto tutto il tempo 😭😭

Oppenheimer (2023) Oppenheimer (2023)
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Christopher Nolan non poteva tornare al cinema con un film migliore di questo. Il biopic del regista britannico su J. Robert Oppenheimer, colui che è considerato il padre della bomba atomica, è uno dei migliori incassi del 2023, ed è in assoluto (senza voler fare battute squallide) una bomba pazzesca. Ancora una volta è il tempo a farla da protagonista, questa volta come espediente perché raccontare una storia apparentemente semplice, ma in realtà più complessa di quanto si possa immaginare. Non è un film sulla bomba, neanche un film sul secondo conflitto mondiale, ma bensì un'immersione totale nella vita di una delle più brillanti menti della storia umana: l'uomo che ha preso la storia del mondo fino al 1945 e l'ha letteralmente capovolta, segnandola per sempre. Una vita tra lavoro, attivismo politico, passioni e vizi come quello del fumo e quello per le donne; insomma, un trattato storico-biografico su un personaggio sfaccettato come Oppenheimer, magistralmente interpretato da Cillian Murphy (candidato al Premio Oscar e vincitore di Golden Globe e di un BAFTA). Ogni inquadratura, ogni parola, ogni scena è funzionale al mettere a nudo il protagonista che, anche nel silenzio, trasmette tutto ciò che prova allo spettatore. Non è solo Murphy a spiccare: Robert Downey Jr. sforna la prestazione della carriera interpretando Lewis Strauss (anche lui candidato all'Oscar), mentre Emily Blunt è perfetta nel ruolo di Kitty, moglie che ne ha viste e ne ha passate di ogni, regalandoci una scena che entrerà negli annali della storia del cinema (anche lei, tu guarda, candidata all'Oscar). Degne di nota sono anche le performance di Matt Damon e di una divina Florence Pugh, alla quale è attribuito un ruolo fondamentale per il film in funzione del protagonista (senza scendere nei dettagli per evitare spoiler). Il resto del cast rende questo film, partito da un biopic su un singolo, un vero e proprio film corale con attori del calibro di Casey Affleck, Kenneth Branagh, Rami Malek, Josh Hartnett e svariati altri. La genialità di Nolan non sta solo nell'aver assemblato un cast da capogiro, ma anche nell'aver reso un thriller un film storico, di cui si sa già la storia. Il momento del Trinity Test, per quanto si sappia già come sia andato a finire, trasmette un ansia micidiale che ti fa perdere il fiato e sprofondare sulla poltroncina della sala. Nolan mostra tutto il suo genio quando inserisce un colpo di scena; sì, hai letto bene... un colpo di scena un film storico-biografico. Tre ore di dialoghi, ognuno di essi funzionale per dove il film vuole andare, con un secondo tempo veramente straordinario dove esce tutta la bravura degli attori, tutta la bravura di Nolan nel sceneggiare; un crescendo da brividi che porta ad una scena finale che ti lascia interdetto, oserei dire devastato, e ti fa uscire dalla sala senza parole.
Menzione d'onore va fatta per gli effetti speciali, creati senza ausilio della CGI, da come si apprende, e dalla sensazionale colonna sonoro targata Ludwig Goransson - onnipresente, memorabile ed indimenticabile - che gli è valsa una candidatura al Premio Oscar e per la quale ha già vinto il Golden Globe a gennaio.
Se non lo aveste già fatto, guardate questo film, perché oltre ad avere tutte le caratteristiche di un biopic che si rispetti, pone tematiche e riflessioni sempre molto attuali, anche considerando che lo spauracchio dell'arma atomica è tornato ad essere un trend, cosa che non era più dalla fine della Guerra Fredda.

Iron Man 2 (2010) Iron Man 2 (2010)
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Nel 2008 Iron Man fece segnare una delle punte più alte del cinema d'azione degli ultimi anni, raccogliendo il quasi unanime consenso di pubblico e critica per come raggiungeva tutti gli obiettivi del film d'intrattenimento all'americana: avvincere con l'azione, affascinare con un protagonista carismatico in cui volersi immedesimare, divertire e smuovere sentimentalmente. Il team capitanato da Jon Favreau, nel quale spiccava la forma smagliante di Robert Downey Jr., sembrava aver ritrovato lo smalto dell'intrattenimento della Hollywood degli anni '80 fondendo il meglio del cinema del frat pack con il fascino che è proprio dei supereroi da fumetto.
Lo stesso non si può purtroppo dire di Iron Man 2, che seguendo la tipica scansione del cinema supereroistico (dopo un primo episodio che narra le origini dell'eroe viene un secondo più denso di eventi e personaggi che mette in crisi e infine consolida la figura protagonista) gioca al raddoppio con l'idea di aumentare il gradimento. Ma così non è.
Uno dei pochi cambi fatti al team creativo nel passaggio da un film all'altro riguarda gli sceneggiatori: arriva Justin Theroux (che alle spalle ha la collaborazione a Tropic Thunder) e se ne vanno i 4 realizzatori del precedente. Scelta curiosa che si ripercuote in una scrittura non eccellente: molte sottotrame raccontate in maniera non impeccabile, molti personaggi, un trionfo di ammiccamenti al futuro film sui Vendicatori, molti dialoghi non eccezionali e poca azione appesantiscono inevitabilmente il film e, cosa peggiore, tolgono quel misto di arroganza e autoironia che rendeva unico il film precendente. I cattivi da uno diventano due: oltre a Vanko, specchio del Tony Stark inventore, c'è anche Justin Hammer, che è lo specchio del Tony Stark imprenditore, mentre gli alleati raddoppiano e a soffrirne è il rapporto tra Tony e Pepper Potts, ormai ridotto alla solita macchietta da battaglia dei sessi e lontanissimo da quell'amaro e romantico menage a due che li univa.
Iron Man 2, insiste e preme su tutti quegli elementi che avevano fatto il successo del primo, portando ogni situazione e ogni personaggio al suo paradossale estremo. La conseguenza è che si perde quell'aura di apparente spontaneità che rendeva godibile il racconto di un uomo che vola in un'armatura tecnologica a favore di una compiaciuta sufficienza. La prova evidente è data dalle molte sequenze che replicano i momenti topici del primo film ma che non ne sono all'altezza. Anche lo showdown finale con la nemesi di turno (un Mickey Rourke perfetto tanto quanto lo era Jeff Bridges) si risolve in poco e senza vero coinvolgimento.

Suicide Squad (2016) Suicide Squad (2016)
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Nell'universo fumettistico in cui vive il più grande dei bravi ragazzi, l'eroe positivo senza macchia per antonomasia, Superman, sembra che nessun altro possa provare a stare alla sua altezza e tutti i "buoni" debbano mascherarsi da cattivi. Non solo Batman, storicamente vicino al lato oscuro, cammina sul crinale tra positivo e negativo, si lascia percepire come minaccia, pericolo, mostro e creatura della notte, per incutere timore e nascondere così le sue cristalline intenzioni, ma anche questa squadra di eroi è formata da cattivi. È solo la sensibilità poliziesca di David Ayer a renderli quindi criminali da polar francese, guardati senza badare allo schieramento ma come integerrimi portatori di un codice: più coerenti dei soldati, fedeli a tutto tranne che alla legge degli stato.
Dotati di sogni ingenui e naive, portatori sani di cuori d'oro, gli eroi di questo film nemmeno ci provano ad essere un po' cattivi come il marketing si sforza di promettere, sono solo cresciuti nella parte sbagliata della città, sono solo ragazze innamorate delle compagnie meno indicate e papà che fanno di tutto per una figlia. Criminali costretti a lavorare per il governo (quello sì, il vero criminale) messi all'opera contro un'antica divinità in un'unica notte d'inferno, i membri della Suicide Squad sono dunque tallonati per tutto il tempo dal solo vero villain che il film conosca: la donna che li ha messi insieme per conto dello stato, che gli tiene testa e gli mette paura senza nessun potere speciale che non siano gli occhi a mezz'asta di Viola Davis e una scrittura inesorabile.
Impossibile da promuovere a pieni voti per un finale che vola eccessivamente vicino al ridicolo, fino a bruciare tutte le proprie ali al sole dell'incoerenza e della puerilità spinta, questo primo film che accenna ad un supergruppo della DC Comics (che in realtà film dopo film sta parallelamente creando anche la squadra dei buoni, la Justice League) è un poliziesco con costumi e maschere, un divertente e ritmato incontro tra la tradizione noir europea e le richieste dei blockbuster americani: la musica, le frasi ad effetto, l'umorismo, il buon sentimentalismo e tutto quello che di più grossolano e basilare può divertire. E fino ad un certo punto diverte davvero Suicide Squad, con autoironia, ottima azione e valenti idee di messa in scena. Dalla prima parte volutamente schematica, pensata a misura di introduzione di ogni personaggio, scheda per scheda (i singoli frammenti sono gustosissimi), fino agli assoli di Will Smith, che coinvolto in un film corale con il ruolo di maggiore rilievo dimostra subito come mai il suo assegno sia maggiore rispetto al resto del cast, passando per le ironie di Margot Robbie, linea comica e al tempo stesso romantica di un blockbuster fondato sulle poche donne in un mondo di uomini.
È lei, con la sua Harley Quinn, l'altro polo d'attrazione della storia, quello che si oppone alla già citata e terribile Amanda Waller di Viola Davis. Candida e spietata al tempo stesso, crocerossina e bastarda senza gloria, sessualmente folle e già solo per questo attraente ma anche teneramente innamorata senza speranza, Margot Robbie a braccetto con il suo personaggio sembra piegare i soliti odiosi stereotipi femminili sia cavalcandoli che negandoli. Viene così resa piena giustizia ad uno dei personaggi più interessanti della scuderia DC, la spalla di Joker che qui ruba la scena al suo amato, scialbo e inconsistente nella versione di Jared Leto, sempre intenso senza un vero perché come se si trovasse in un brutto film italiano, mai capace di sfruttare il nuovo look da dandy criminale emo, con un corpo marchiato oltre che dal solito acido anche dalla sua volontà e dalla sua pazzia.

Thor (2011) Thor (2011)
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Atteso con la curiosità che merita l'ingresso nel mondo delle pellicole commerciali e fracassone di un regista e attore noto al cinema per i suoi adattamenti shakespeariani, Kenneth Branagh conferma l'idea preconcetta che pubblico (e probabilmente produzione) avevano di lui. Il suo Thor attinge a piene mani da diverse mitologie shakespeariane, dalla lotta per la successione, agli intrighi di palazzo, dall'uccisione del regnante da parte di un familiare fino all'amore proibito tra due amanti appartenenti a mondi separati. Come previsto tra simili argomenti il regista si muove con agilità, ma quando l'epica delle relazioni nel mondo dei nobili deve necessariamente tramutarsi (vista la tipologia di film) in grande epica d'azione, il film mostra tutte le sue debolezze.
Se infatti nel mondo di Asgard il mito trova, sebbene a fatica, una dimensione filmica propria, sulla Terra il film funziona molto meno, incastrato com'è in un New Mexico edwoodiano dal sapore anni '50 che calza male l'occasione. A questo si aggiunga che l'alchimia tra il gigantesco (e solo per questo azzeccato) Chris Hemsworth e la minuta scienziata Natalie Portman, interessante proprio per la lontananza fisica, sulla pellicola non si realizza mai del tutto e il loro rapporto è trattato con sbrigativa banalità, per andare a concentrarsi il prima possibile sulla rapida frustrazione del desiderio d'unione dei due.
Di contro la parte che dovrebbe beneficiare da questa contrazione, quella d'azione fantascientifica, è messa in piedi con uno stile che ricorda i film anni '90 sul genere, con un uso straniante dei costumi e delle inquadrature sghembe che appare in contraddizione con l'esigenza (e le velleità) di grande epica d'azione. In questo modo alla fine, il desiderio di un cinema in grado di unire alto e commerciale, classico e moderno, teatrale e computer grafica si infrange proprio sul terreno più determinante, quello del respiro epico.

Captain America - Il primo vendicatore - Captain America: The First Avenger (2011) Captain America - Il primo vendicatore (2011)
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Il protagonista aveva un appuntamento -lo ricorda spesso il testo del film-, ma è in ritardo. Tanti altri supereroi, tutti più giovani anagraficamente, hanno occupato preventivamente i nostri spazi di capienza e non è peccato ammettere che si fa leggermente fatica a fare posto anche a lui. Occorre però aggiungere, immediatamente, che quel posto Captain America se lo guadagna, con un'entrata in scena scoppiettante. Sulla lunga distanza (124 minuti) ha poi un declino, d'altronde non vola e probabilmente in termini di sceneggiatura gli è stato chiesto troppo, ma la prima parte del suo "biopic" ha un carattere cinematografico notevole. Mentre scorrono sullo schermo le immagini degli anni '40, con i ragazzi in uniforme al luna park, scorrono parallele nella mente quelle dei film americani che hanno raccontato quegli anni ben prima di Johnston, la propaganda cartacea e radiofonica, i cinegiornali: l'approdo al fumetto è sottile e obbligato.
L'icona dello zio Sam, con quel dito puntato che diviene poi il dito di Stanley Tucci e trasforma uno scarto in un leader, come in un Giudizio Universale pop art collega con grande efficacia ed immediatezza visiva lo spirito degli Stati Uniti con il piccolo eroe di un film, chiudendo un cerchio immaginario ma assai reale.
Captain America non ha superpoteri (ha una super arma, lo scudo) ma non è certo un personaggio che va per il sottile: Super buono -perché il siero esaspera il carattere di partenza e Steve Rogers è un bravo ragazzo- è nato per combattere il Male estremo, e cioè la follia nazista, con la stessa logica ma ribaltata di segno (la perfezione fisica scientificamente acquisita, l'ideale superomistico). La bellezza del film di Joe Johnston è quella, in questo contesto tutto di maiuscole, di non perdere mai di vista il ragazzino del prologo: sotto i muscoli di Chris Evans, già torcia umana, il film ritrova sempre l'ingenuità, il senso di smarrimento e il coraggio testardo del personaggio delle origini, persino potenziate. Il resto è noia. Fatta eccezione, in alcune scene, per il duo di cattivoni da cartoon formato da Hugo Weaving e Toby Jones, e soprattutto per Tommy Lee Jones, folgorante scettico, vero macho del film.

Harry Potter e il prigioniero di Azkaban - Harry Potter and the Prisoner of Azkaban (2004) Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004)
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Harry Potter è un assegno circolare. Fortunatamente per gli spettatori, è anche una serie che migliora di episodio in episodio, e questa nuova, spettacolare, puntata diretta da Cuaròn, che rientra nel progetto di far dirigere ogni nuova pellicola della serie ad un regista diverso, rappresenta, almeno fino al 2005, il punto più alto della eptalogia in divenire.
Pur armato di forbici e cesoie, il regista messicano, già realizzatore del bizzarro Y tu mama tambien, viaggio iniziatico di due adolescenti alla scoperta del sesso e della vita, riesce a conferire a Potter un'immagine molto più adulta e convincente che nei due film passati, a dispetto del solo anno trascorso cronologicamente dalle sue ultime avventure.
Eliminate le derive bamboccesce di matrice Spielberghian/Columbesche, Harry Potter si presenta al pubblico in una veste più dark ed oscura. Stavolta i nemici e gli incubi non vengono dall'esterno ma dall'animo dei protagonisti e molti temi, pur se non approfonditi, mantengono alto il livello di attenzione "sociale": la mancanza di genitori e di punti di riferimento, il razzismo, il dualismo delle personalità degli individui e la non assolutezza del male, le classi sociali, l'ingiustizia.
Strepitoso il cast, che, ancora una volta, raccoglie il gotha del cinema anglossassone. Oltre ai soliti noti (Smith, Rickman) si aggiungono due mostri sacri come Oldman (sottovalutatissimo e qui splendido "villain") e Thewlis (già strepitoso ne L'Assedio e Naked), la sempre apprezzabile Emma Thompson e una manciata di caratteristi che solo un certo tipo di cinema riesce a sfruttare appieno come Timothy Spall, attore feticcio di Mike Leigh e Julie Christie.
Formalmente perfetto, Harry Potter and the Prisoner of Azkaban, continua la climax ascendente della serie: lo spirito del libro, avviso per i puristi, è salvo, anche se le due ore e mezza di proiezione, fatalmente, non bastano. A questo punto, la patata bollente passa nelle mani di Mike Newell.....

Inside Out (2015) Inside Out (2015)
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Il segreto della Pixar non risiede nell'abilità tecnica, sempre raggiungibile o perfezionabile, ma nella forza drammatica delle loro storie. Storie che non abdicano mai l'originalità narrativa. Prima un bel soggetto, a seguire la scelta grafica, sempre coerente con quella narrativa che tende a semplificare la superficie e mai la sostanza.
La bellezza delle loro sceneggiature è costituita poi dai risvolti teorici, che dopo aver esplorato il mondo oggettuale e indagato i sogni delle cose, reificano le emozioni umane, in altre parole prendono per concreto l'astratto. Inside Out visualizza ed elegge a protagonisti della vicenda la gioia, la tristezza, la rabbia, la paura e il disgusto, emozioni che guidano le decisioni e sono alla base dell'interazione sociale di Riley, che a undici anni deve affrontare sfide e cambiamenti. Se Up svolgeva l'avventura di fuori, Inside Out la sviluppa di dentro, attraversando in compagnia di Joy e Sadness la memoria, il subconscio, il pensiero astratto e la produzione onirica di una bambina che sta imparando a compensare la propria emotività e ad assestarsi in una città altra.
Diretto da Pete Docter, Inside Out impersona le voci di dentro con un radicalismo che impressiona e commuove. Con Inside Out Docter installa di nuovo l'immaginario al comando e ingaggia cinque creature brillanti per animare un racconto di formazione che mette in relazione emozioni e coscienza. Perché senza il sentimento di un'emozione non c'è apprendimento. Dopo la senilità e l'intenso riassunto con cui apre Up, che ha la grazia e la crudeltà della vita, Docter lavora di rovescio sulla fanciullezza, tuffandosi nella testa di una bambina, organizzando la sua esperienza infantile intorno a centri di interesse (la famiglia, l'amicizia, l'hockey, etc) e accendendola con flussi di pensieri sferici che hanno tutti i colori delle emozioni. E a introdurre Riley sono proprio le sue emozioni che agitandosi tra conscio e inconscio sviluppano le sue competenze e la equipaggiano per condurla a uno stadio successivo dell'esistenza. Nel cammino alcuni ricordi resistono irriducibili, altri svaniscono risucchiati da un'aspirapolvere solerte nel fare il cambio delle stagioni della vita e spazio al nuovo. A un passo dalla pubertà e resistente dentro un'infanzia gioiosa, che Joy custodisce risolutamente e Sadness assedia timidamente, Riley passa dal semplice al complesso, dal noto all'ignoto. Nel processo 'incontra' e congeda Bing Bong, amico immaginario che piange caramelle e sogna di condurla sulla Luna.
Creatura fantastica generata dalla fantasia di una bambina, Bing Bong, gatto, elefante e delfino insieme, è destinato a diventare uno dei personaggi leggendari della Pixar Animation, rivelando un'anima segreta, la traccia di un sentimento e l'irripetibilità del suo essere minacciato dalla scoperta di una data di scadenza. Rosa e soffice come zucchero filato, guiderà Joy e Sadness dentro i sogni e gli incubi di Riley, scivolando nell'oblio per 'fare grande' la sua compagna di giochi.
I personaggi, realizzati con tratti essenziali che permettono di coglierne la natura profonda (rotonda, esile, spigolosa), emergono l'aspetto intangibile del processo conoscitivo dentro un film perfettamente riuscito, che ricrea la complessità e la varietà dell'animazione senza infilare scorciatoie tecniche o narrative. Dentro e fuori Riley partecipiamo alle vocalizzazioni affettive indotte da Joy e Sadness che, finalmente congiunte, la invitano a comunicare la tristezza. Perché la tristezza, quando è blu e piena come Sadness, è necessaria al superamento dell'ostacolo e alla costruzione di sé. Impossibile resistere all'espressività emozionale delle emozioni primarie di Docter che privilegia anziani e bambini, gli unici a possedere una via di fuga verso il fantastico. Gli unici a volare via coi palloncini e ad avere nella testa una macchina dei sogni.

Inside Out (2015) Inside Out (2015)
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Quando i personaggi passano per la zona riservata all’astrazione e, per l’appunto, si astraggono in un consecutivo perdere di dimensioni, la domanda sorge spontanea: i bambini si divertono? A una breve occhiata, quelli che affollano numerosi la sala risponderebbero di sì, a parte i più piccoli impegnati a tempestare di domande i genitori: perciò può dirsi riuscita la scommessa della Pixar di creare una storia avvincente utilizzando strumenti concettuali complessi. Sulla base di uno svolgimento classico fatto di smarrimento e rilancio e corredato dall’immancabile corsa contro il tempo, i registi, assieme al nutrito gruppo di scrittori che ha collaborato alla sceneggiatura, assemblano un’avventura ambientata nel cervello di una ragazzina, descrivendo le interazioni fra pensiero, ricordi ed emozioni: i più giovani si divertono e sobbalzano al ritmo senza sbavature e gli adulti vengono solleticati da aspetti che vanno ben oltre le semplici battute che strizzino loro l’occhio. Il risultato è uno dei più bei lungometraggi della casa che non solo recupera la qualità un po’ appannata negli ultimi anni, ma, se non li raggiunge, si avvicina molto ai livelli del superlativo Wall-E: forse il divertimento non sarà scatenato, ma le doti di equilibrio e fantasia del film sono davvero rimarchevoli. Nella mente della piccola Riley ai comandi c’è Gioia sin dalla nascita, ma fondamentali per l’equilibrio interno sono Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia: il trasferimento della famiglia dal Minnesota alla California scombussola però le certezze e, mentre Gioia e Tristezza vengono sbalzate fuori per errore dal Quartier Generale, Riley vede il suo mondo crollare un pezzo alla volta sotto il comando delle rimanenti emozioni. Il percorso di rientro delle due disperse non sarà facile, ma, con l’aiuto dell’Amico Immaginario nel ruolo di Virgilio, infine l’impresa riesce rimediando ai guai solo all’ultimo tuffo come di prammatica: raccontata in un modo simile, la vicenda non sembra tutto questo granchè, ma mai come in questo caso è importante la realizzazione, caratterizzata da un’accurata cura dei dettagli. Il disegno delle figure è molto arrotondato mentre i colori sono squillanti nella testa di Riley e più opachi nella realtà: se quest’ultima mette in scena un gelido Minnesota, ma soprattutto una San Francisco ben più cupa di quanto siamo abituati a immaginarla, la prima ha consentito di sbrigliare la fantasia, dalle emozioni create a partire da una forma (Gioia è una stella, Tristezza una lascrima e così via) ai ricordi racchiusi in globi, colorati a seconda delle sensazioni che vi sono collegate, che vengono archiviati in librerie che riprendono la forma delle sinapsi, dalle fantasmagoriche ma fragili isole della personalità alle inquietanti ombre dell’inconscio per giungere infine alla lenta modifica del peso specifico delle singole emozioni che avviene mentre Riley cresce. Inseguendo queste – e le molte altre – invenzioni il tempo scorre senza accorgersene, perché si è impegnati a cogliere ammiccamenti, spunti e citazioni (di altri film Pixar, ma anche ‘Chinatown’) che sono sparsi a piene mani e, al contempo, a seguire la comunque appassionante narrazione che, se non strappa troppe risate, fa sorridere spesso e volentieri: l’umorismo rispetta i toni delicati dell’insieme mollando i freni solo nella rappresentazione dei Quartier Generali dei personaggi minori (da non perder, in proposito, i titoli di coda).

Guardiani della Galassia Vol. 2 - Guardians of the Galaxy Vol. 2 (2017) Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017)
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Non se l'aspettavano in molti nel 2014, ma I Guardiani della Galassia ha saputo sdrammatizzare una space opera ad elevato rischio di ridicolo, restituendo quell'attitudine disincantata, da spacconi, con cui Han Solo o Jack Burton hanno salvato fantasy e sci-fi dalla noia seriosa dei biografi nerd. Tanto da poter portare tranquillamente ad affermare che lo scanzonato spirito originario di Guerre stellari alberghi più nel film di James Gunn che in quanto sia avvenuto alla saga degli Skywalker negli ultimi trent'anni. Per il secondo episodio della serie, ultimo atto prima delle attese Infinity Wars che vedranno Guardiani e Avengers lottare insieme, James Gunn si trovava quindi di fronte a un pericolo più temibile di un mostro dallo spazio esterno: la paura di non essere all'altezza dell'originale oppure di tradirne l'essenza.
Seguendo un curioso fil rouge da "ultimi giorni della disco music" che ha innervato molto cinema recente - da Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater in giù - I Guardiani della Galassia Vol. 2 insiste nuovamente sul periodo di passaggio tra '70 e '80, punto di svolta nella storia degli Stati Uniti d'America, rivivendolo attraverso le audio cassette di Peter Quill. Quest'ultimo, di fronte a una duplice figura paterna, espone ancor più le proprie debolezze, nel nome di una scomposizione e ricomposizione del macho in una nuova forma di eroe che non disdegna di mostrare il suo lato tenero e vulnerabile, con una donna forte al proprio fianco.

Spider-Man: Homecoming (2017) Spider-Man: Homecoming (2017)
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Una morale semplice, che ha però il pregio di riportare con i piedi per terra il Marvel Cinematic Universe dove tra dèi, re, androidi e avventurieri dello spazio si scivola di film in film nel più puro escapismo.
Jon Watts regista e sceneggiatore (insieme ad altri sei scrittori accreditati), guarda dichiaratamente alle commedie liceali anni 80 di John Hughes, e l'Homecoming è infatti una festa americana che, nella sua declinazione scolastica, celebra il ritorno, per esempio, da una trasferta sportiva. In questo caso si tratta di un decathlon culturale cui partecipa una squadra della scuola di Peter, che dal Queens viaggia fino a Washington. Al calendario scolastico, con feste, lezioni e gite, si alternano e a volte si sovrappongono le sue avventure da Spider-Man, che prendono una piega pericolosa quando il giovane eroe si imbatte in alcuni ladri dotati di tecnologia aliena. Cercando di risalire alla fonte e fermare il problema finisce dritto tra gli artigli dell'Avvoltoio, interpretato da Michael Keaton. Un cattivo tra i più riusciti visti finora nei film Marvel, anche se non arriva alla grandezza del Dr. Octopus di Spider-Man 2, perché la trama deve coprire troppe situazioni e scene d'azione e non gli dà modo di essere approfondito a dovere. Ciò nonostante è facile simpatizzare con le ragioni per cui si è dato al crimine e lo stesso vale per i suoi aiutanti, solo abbozzati nella personalità ma che si sono trovati ingiustamente disoccupati da un giorno all'altro.

Harry Potter e la camera dei segreti - Harry Potter and the Chamber of Secrets (2002) Harry Potter e la camera dei segreti (2002)
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Tratto dal secondo romanzo di J. K. Rowling, Harry Potter e la camera dei segreti convince meno del primo episodio. Squadra che vince non si cambia, e il film è qua e là spettacolare. Ma aldilà di mirabolanti scenografie ed effetti speciali spira un'aria di già visto, aggravata da un metraggio abnorme e da un eccessivo indulgere ad atmosfere dark. Riempie gli occhi ma non scalda il cuore.

Hunger Games - The Hunger Games (2012) Hunger Games (2012)
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Finalmente un prodotto cinematografico specificamente pensato per il pubblico giovane che offre ai ragazzi una confezione ben concepita, profondità introspettiva ma soprattutto spunti di riflessione. Che Hunger Games sarebbe stato lontano anni luce dalla saga di Twilight lo si poteva capire già dalla scelta del regista, quel Gary Ross che con Pleasantville e Seabiscuit aveva dimostrato di essere un cineasta in grado di padroneggiare lo spettacolo adatto al grande pubblico senza però renderlo piatto, anzi condendolo con delle sottotrame sempre capaci di rivelare il lato inquietante della facciata conciliatoria americana.
In questo suo ritorno al cinema dopo nove anni di assenza fin dalle primissime inquadrature Ross sembra voler prendere esplicitamente le distanze dalla messa in scena patinata e monotona che ci si poteva aspettare visto il target di destinazione del film. Invece Hunger Games parte come un film nervoso, pieno di inquadrature "sporche", di macchina a mano assemblata con un montaggio estremamente serrato. Questa scelta estetica ben precisa all'inizio si rivela addirittura eccessivamente ostentata, in quanto non permette bene di mettere a fuoco ambienti, situazioni ed anche i personaggi, fattore che per un film di fantascienza è piuttosto importante.
Dopo un inizio piuttosto faticoso ma comunque coerente nelle direttive sia estetiche che narrative, il lungometraggio comincia a salire di colpi quando inizia la gara mortale tra i giovani partecipanti. La durezza delle situazioni accresce la drammaticità della storia, e questo permette alla protagonista Jennifer Lawrence di esplicitare con maggiore efficacia le sue notevoli doti d'attrice. Ci troviamo veramente di fronte a un'interprete che a soli ventun'anni riesce perfettamente a riempire un personaggio e a svelarne i lati nascosti. C'è anche da sottolineare però che la sua Katniss Everdeeen è un ruolo molto interessante nella sua fragilità celata e nel suo bisogno quasi primitivo di aggrapparsi e di proteggere chi le sta intorno. Risulta poi interessante che l'arco narrativo di Katniss non sia delineato in modo classico ma rimanga piuttosto indefinito, o meglio fascinosamente "aperto" per una presa di coscienza che verosimilmente avverrà nei prossimi episodi dell'annunciato franchise.
Già, perché Hunger Games semina anche in alcune scene dei momenti che non è illecito supporre "politici", e che riempiono ancor di più una sceneggiatura già densa. Altra sottolineatura la merita il valevole gruppo di caratteristi che compone il cast di supporto del film: su tutti vogliamo spendere una parola d'elogio per l'intramontabile Donald Sutherland, mellifluo e ipnotico come soltanto lui sa essere. Per quanto riguarda invece il lato più specificamente tecnico del film, la fotografia di Tom Stern e le musiche sempre poetiche di James Newton Howard sono le cose più riuscite.
Cinema per giovani capace di scavare in profondità e proporre uno spettacolo non superficiale. Hunger Games riesce dove negli ultimi anni questo tipo di intrattenimento aveva pesantemente fallito. A prescindere dalle sbavature e dalle imperfezioni del prodotto finale, questo è già un enorme merito.

Doctor Strange (2016) Doctor Strange (2016)
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Premere sul pedale dell'acceleratore porta con sé delle conseguenze: metafora che vale per il dottore Stephen Strange, mentre sfreccia al volante della sua Lamborghini Huracán, così come per la Marvel, alle prese con la gestione del suo multi-sfaccettato MCU (Marvel Cinematic Universe). Quando la necessità è di stupire continuamente, presto o tardi si raggiunge il livello di saturazione, quello in cui vengono pizzicati i confini del ridicolo. Per la Marvel il rischio si è fatto concreto, specie in una "fase tre" - caratterizzata dalla guerra civile tra Vendicatori - che si è da subito dimostrata complicata, per la potenza di fuoco messa in gioco e per la difficoltà nel gestire il continuum globale, mantenendo le necessità stilistiche e narrative di ogni singolo lungometraggio. In questo senso la genesi di un nuovo eroe è il toccasana di cui la Marvel aveva bisogno. Specie di un soggetto complicato e dai poteri immensi, benché "minore" come fama all'interno della cosmogonia della Casa delle Idee. Ma Strange con sé porta anche molti rischi sul piano narrativo: la complicazione di mantenere un'estetica tra psichedelia, misticismo e new age, ad alto rischio di eccesso kitsch e la necessità di conciliare queste esigenze con una genesi tradizionale.
La nascita di un nuovo supereroe è gestita da Scott Derrickson (Sinister, The Exorcism of Emily Rose) con un approccio tradizionale riguardo al periodo "pre" - la parabola classica sui limiti della razionalità, obbligata a lasciare il posto alla fede - e un'accelerazione improvvisa degli eventi dopo che Strange raggiunge il Nepal.
Derrickson affronta di petto la visionarietà del personaggio e delle sfide che deve affrontare, sfruttando al massimo i colori e le forme di universi e "multiversi", come solo il digitale spinto fino ai livelli odierni può garantire.
Il film di Derrickson mantiene un invidiabile equilibrio: da un lato quella sobrietà da cui il suo protagonista sfugge in continuazione, dall'altro una radicalità che si manifesta nell'audacia visiva - lo sconvolgimento di spazio e tempo che guarda a Inception e alle visioni più estreme di Escher - e nella gestione dei picchi emotivi della vicenda (la quasi-morte di Strange, la minaccia letale e improvvisa che si abbatte sui tre santuari), aiutata dal background di regista horror di Derrickson. L'ingrediente speciale è ancora una volta l'autoironia, quella che aiuta a riportare sulla terra una vicenda sottoposta a continue sollecitazioni centrifughe: le gag sono spassose e capitalizzano il giusto sullo standard affermatosi dopo il successo dei Guardiani della galassia. Merito anche di un cast che rappresenta l'effetto speciale aggiunto. Benedict Cumberbatch si adatta alla perfezione ai panni egocentrici e megalomani di Strange, superato solo dall'ineffabile Tilda Swinton, in un ruolo ideale per le sue caratteristiche di alterità e irriducibilità a connotazioni di genere o età.
L'universo di Strange è dominato da un'entropia fuori dal Tempo, contro la quale la Terra e i suoi protettori "spirituali" combattono strenuamente. Con delle leggi da tutelare, ma occasionalmente da infrangere. Strange, preda della paura di fallire e dell'egoismo, impara a sue spese la lezione e sceglie di rinunciare alle gioie della vita terrena per difendere un bene più grande. Non è dato sapere il perché cambi idea sulla propria natura, ma a giovarne, oltre alla razza umana nella finzione, è la stessa Marvel nel mondo reale.

Iron Man 3 (2013) Iron Man 3 (2013)
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Il terzo ed ultimo capitolo della saga combina due storie classiche del fumetto di partenza, quella del Mandarino ed "Extremis", innestandole non là dove terminava il secondo film bensì dopo "i fatti di New York", ovvero al termine dell'esperienza collettiva di The Avengers. Il film di Joss Whedon ha segnato dunque uno spartiacque, tanto che Jon Favreau, creatore dei primi due successi, viene simpaticamente parcheggiato su un lettino d'ospedale a guardare Downtown Abbey, mentre in sala di regia prende posto Shane Black, autore, tra altro, dei buddy-movies Arma Letale e Kiss Kiss Bang Bang (il film che ha candidato Robert Downey Jr al ruolo di Iron Man).
Black dimostra di aver fatto tesoro della lezione di Whedon, dove il personaggio di Iron Man aveva dato il meglio di sé come membro di un gruppo (sodale pronto al soccorso così come alla battuta sdrammatizzante e non più egomaniaco solitario per la delizia della stampa), e si diverte ad affiancargli un compagno di turno ad ogni snodo della vicenda, con effetto comprovato. E tutto torna, perché con Iron Man 3 si scende nel privato del protagonista, in quel buco tutt'altro che vuoto che l'immagine del cratere di villa Stark rende al meglio, e più privata e personalizzata si fa anche la figura del "cattivo", Killian, vicina a quella del freak, umiliato e assetato di vendetta, tipica di altri supereroi. Sottraendo il personaggio di Tony Stark ai riflettori (dandolo pubblicamente per morto, ad un certo punto), Black in realtà lo illumina definitivamente, lo investe di una luce senza più ombre, perché le luci della cronaca e dello spettacolo qui cambiano drasticamente di segno e si tingono degli oscuri colori dell'invidia e della truffa.
Stark è cresciuto, protegge il privato, riconosce il teatro - che è stata una sua passione in passato - ma in esso ora legge soltanto la pietà della buffonata: non a caso sta lottando con se stesso per affrancarsi dalla maschera e ritrovare un cuore umano. E proprio la maschera, come doppio e come demone, maschera teatrale e funeraria (in mano a Pepper Potts), estesa alla misura del corpo intero, è senza dubbio il ritornello visivo più riuscito del film, cui si associa la ripresa della questione morale, vero e proprio biglietto di presentazione del personaggio nel primo capitolo, qui riproposto non più in termini di scomodo conflitto interiore quanto di certezza raggiunta.
Sfortunatamente, la misura non è perfetta: come nel secondo episodio, c'è molta, troppa carne al fuoco e qualche costoletta di narrazione ne fa le spese e non riceve sufficiente cottura, specie nel momento del prefinale, dove le linee del presidente, del Mandarino e dell'amata in pericolo si assommano l'una sull'altra. Peccato anche che il ruolo della Paltrow, finalmente ampliato, non riservi, però, alcun incremento di qualità, né di scrittura né d'interpretazione.

Black Panther (2018) Black Panther (2018)
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Il lavoro scenografico di ricostruzione digitale è mirabile in questo senso, al pari di quello sui costumi e sulle caratterizzazioni di donne e uomini guerrieri. La fotografia di Rachel Morrison riesce a far rivivere i colori, i suoni, la rabbia e la natura selvaggia dell'Africa senza scivolare in pregiudizi da uomo bianco o da "colonizzatore", come i wakandiani apostrofano, i caucasici.
Oltre al lavoro su costumi e scenografia, straordinaria è la colonna sonora, e Black Panther si candida dichiaratamente a status symbol in fatto di tendenze, alla stregua di quel che Hair fu per la moda hippie o Shaft per la blaxploitation. A deludere invece, sono gli effetti speciali, e la post-produzione in cgi non sembra godere delle delizie tecnologiche del vibranio. Le scene di battaglia, sempre più diffuse verso l'epilogo, sono prigioniere di un'estetica da cartoon indegna di un'operazione di questa portata.

Bastardi senza gloria - Inglourious Basterds (2009) Bastardi senza gloria (2009)
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Quentin Tarantino colpisce ancora. La sua passione per il cinema di genere, unita al piacere di raccontare storie, lo porta a riscrivere la Storia ufficiale con un attentato a Hitler collocato nell'unico luogo in cui il regista americano può pensare si possa attuare una giustizia degna di questo nome: una sala cinematografica. È solo al cinema che i cattivi muiono quando devono e gli eroi si sacrificano o trionfano.
È cinema puro quello che Tarantino porta sullo schermo, come biglietto da visita di Bastardi senza gloria nella prima mezzora. I tempi, i dialoghi, la tensione, l'ironia giocata sul versante delle lingue differenti (elemento che sarà il fil rouge di tutto il film) ne fanno un piccolo/grande gioiello i cui riferimenti vanno ampiamente al di là dei referenti classici dichiarati quali Sergio Leone e lo spaghetti western.
Il film nel suo complesso non manca di qualche momento statico che fa sentire il peso della sua lunga durata. Grazie però alla straordinaria prestazione di tutto il cast ma in particolare a quella di Christoph Waltz (attore austriaco semisconosciuto da noi a riprova che, al di là dei proclami sulla circolazione delle idee, conosciamo pochissimo del cinema europeo) e grande rivelazione di questo film, Tarantino conduce le danze rendendo omaggio a Enzo Castellari senza per questo avere la minima intenzione di realizzare un remake.
Semmai resta, nello spettatore che ha amato il cinema di Ernst Lubitsch, il piacere di un soggetto che, in alcune sue parti, non può non far pensare a To Be Or Not To Be (tradotto in italiano in Vogliamo vivere ripreso poi da Mel Brooks). Là era il teatro a dominare, qui c'è un'attrice cinematografica a fare il doppio gioco e dei guerriglieri macho che si spacciano per poco credibili italiani in una sala cinematografica. Tarantino è forse l'unico regista contemporaneo capace di metabolizzare un universo cinematografico di cui si nutre costantemente (chi scrive lo ha visto applaudire calorosamente, confuso tra il pubblico della proiezione stampa, alla prima cannesiana di Looking for Eric di Ken Loach che fa un cinema distante anni luce dal suo). Lo metabolizza restituendocelo nuovo e assolutamente personale (si veda, tra i tanti e a titolo di esempio, il riferimento a Duello al sole). Perchè Tarantino ama il Cinema tout court (e non solamente, come tanti altri registi, il proprio cinema) ed è felice quando riesce a trasmettere questa sua passione. Anche in questa occasione la missione è compiuta.

Mad Max: Fury Road (2015) Mad Max: Fury Road (2015)
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Il ritorno alla regia di George Miller, atteso quanto insperato, forse prepara a una nuova saga, tutto sembra farlo credere, ma soprattutto cerca di riscrivere l'ultimo e debole - al di là dell'impatto iconografico della sfera del tuono - capitolo con Mel Gibson e Tina Turner, riproponendo Max in un contesto come quello attuale, sovraccarico di supereroi invincibili e di action movies che dall'universo distopico di Mad Max molto hanno saccheggiato.
Come Ken il guerriero, per citare solo una delle innumerevoli visioni di medioevo prossimo venturo degli ultimi due decenni, che devono tutto all'intuizione milleriana, contestualizzata nell'ideale paesaggio intrinsecamente borderline del deserto australiano. Una società resettata, in cui benzina e cromature assumono sostanza quasi divina: un tema ripreso in Mad Max: Fury Road, con il coraggioso accostamento tra la mistica da kamikaze del terrorismo contemporaneo e un'estetica neo-ariana che inneggia al Valhalla, in una crasi impossibile tra filosofie opposte di un'ideale crociata. Miller intende riprendersi ciò che è suo e rilanciarlo nel linguaggio della contemporaneità, avvalendosi del 3D, ricorrendo probabilmente a una velocizzazione dei frame per secondo (a tratti eccessiva), ma Mad Max: Fury Road è molto più di questo. A partire dal lavoro compiuto su eroi e antieroi: il Max di Tom Hardy, perseguitato dagli incubi di una vita precedente e quasi balbuziente nella sua timida incapacità di interagire con gli altri, è lontano dal vendicatore senza nome di Mel Gibson. Un supereroe con super-problemi marveliano, more human than human, per dirla con Rob Zombie.
La vera eroina (forse destinata a un ruolo da protagonista nei possibili sequel?) è una donna, la Furiosa di Charlize Theron, una figura di top model corrosa dalla malvagità dell'animo umano e contrapposta all'oggettivizzazione della bellezza propria delle angeliche figure delle concubine di Immortan (Immortal + Octane, si suppone) Joe. Protagoniste, queste ultime, di sequenze che sembrano quasi parodiare il punto di vista misogino di Transformers di Michael Bay (casuale la scelta di Rosie Huntington-Whiteley?) e l'estetica videoclippara softcore più scontata (la loro prima apparizione assomiglia a un lavaggio auto sexy nel deserto).
Il regista sopperisce alle inevitabili mancanze di adeguamento tecnologico, dovute all'appartenenza alla old school del cinema action, con la pregnanza di significato che difetta nei troppi shooter di oggidì. E su tutto regna la consapevolezza che la più intrinsecamente cinematografica e cinefila tra le saghe action abbia diritto di cittadinanza nel terzo millennio, se non addirittura uno ius primae noctis su temi e intuizioni che troppi hanno cercato di inflazionare.

Mad Max: Fury Road (2015) Mad Max: Fury Road (2015)
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Riprendendo in mano la saga di Max Rockatansky dopo una pausa durata tre decenni, George Miller mette da parte l’idea di cominciare da capo: il suo (anti)eroe è sì tormentato dal passato in brevi, dolorosi lampi di memoria, ma viene coinvolto, suo malgrado, in un’avventura del tutto nuova che può essere goduta anche senza conoscere i capitoli precedenti. Sia stato grazie alla libertà concessa da una simile scelta o sia a causa dell’esperienza accumulata negli anni dal regista, fatto sta che ‘Fury road’ è un film dalle incredibili doti spettacolari che – nel suo genere – sfiora la perfezione spazzando il ricordo dei blockbuster dedicati ai supereroi negli ultimi anni. Anche perché i suddetti filmoni deviano spesso, alternando ai momenti più serrati rallentamenti in cui si sprecano le battute per alleggerire o ci si dilunga in verbose spiegazioni, mentre qui si va dritti al nocciolo: azione pura condita da splendide coreografie – quella dei cascatori a scuola dal Cirque du Soleil se non è vera è ben inventata – e fotografata in maniera impeccabile dal veterano John Seale che la fa brillare di colori squillanti in cui domina il giallo del deserto, ma che raggiunge forse il fascino maggiore nell’eterna penombra virata in blu della palude. Il risultato sono due ore di virtuosismi che impreziosiscono le variazioni su di un unico tema, la cisterna blindata dei buoni assaltata dai millanta mezzi dei cattivi come in una sorta di infinito assalto alla diligenza in ‘Ombre rosse’: quando a un bel momento i primi invertono la rotta, invece che pensare ‘oh no, ancora!’ ci si accomoda fiduciosi e se ne ha ben donde, visto che non c’è un momento di stanca (davvero brillante pure il montaggio di Margaret Sixel, moglie del regista) e la noia è del tutto bandita in uno spettacolo che lascia sovente senza fiato. Non stupisce allora che, prima di una lavorazione dalla genesi peraltro tormentata, sia stata data molta più attenzione alla preparazione dello storyboard, oltre tremila tavole, rispetto a una sceneggiatura in cui le parole sono davvero ridotte leonianamente all’osso: Miller ha scritto quest’ultima assieme a Brendan McCarthy e al fumettista Nick Lathounis che è facile associare almeno tanto alla parte visiva quanto a quella scritta. La quale narra di un mondo arido in cui chi controlla l’acqua ha il potere (istanza ecologista? Boh) e lo esercita con ferocia rendendo il prossimo schiavo e/o in miseria. Da una di queste satrapie sfugge un gruppo di donne a cui ben presto si associa Max, prigioniero impiegato a far la sacca di sangue (prima di tante idee geniali): sulle loro tracce si butta tutto il variopinto esercito del tiranno, le cui truppe si avvicinano, si affiancano, assaltano, ma vengono continuamente respinte. Girato nel deserto della Namibia e nel sud dell’Australia, l’infinito rimpiattino mette in scena morti spettacolari ed esibizioni ginniche, mentre la tonitruante colonna sonora martella impietosa anche grazie alla ‘fanfara’ che accompagna gli inseguitori (quattro enormi tamburi e un chitarrista con strumento sputa fuoco). Insomma, Miller dimostra di avere grandi capacità di sbrigliare l’immaginazione - ecco allora che le deviazioni come ‘Babe’ o ‘Happy feet’ appaiono meno stravaganti – tanto è vero che la libertà più grande che si prende è di affibbiare a Max il ruolo di coprotagonista: al centro della storia c’è infatti chi è al comando del gruppetto delle fuggitive, ovvero l’Imperatrice Furiosa nei cui panni Charlize Theron sa affascinare anche rasata e con un braccio di meno (sarà perché il nerofumo ne esalta gli occhi?). Al suo fianco, Tom Hardy ci mette essenzialmente il fisico, anche per ‘colpa’ di un personaggio che per lunghi tratti più che parlare grugnisce, mentre gli altri attori sono assai poco riconoscibili, da Nicholas Hoult nello smunto aspetto di Nux al veterano della serie Hugh Keays-Byrne dietro alla maschera del repellente Immortan Joe. Il ribaltamento dei ruoli principali pare anticipare quello conclusivo in cui le donne – fra le quali appare per poche scene Megan Gale – vengono chiamate a riappiccicare i cocci di una società quasi azzerata dall’imperio di uomini non proprio in salute e sostanzialmente deficienti: una morale un po’ semplicistica, ma non è a film come questi che si chiedono doti umanistiche. Sono invece necessari intrattenimento e adrenalina che in ‘Fury road’ brillano per qualità e quantità, tanto che lo spettatore, un po’ rintronato all’uscita, finisce per guardare con preoccupazione ai seguiti già annunciati: è noto che partendo dalla cima si può solo scendere.

Il cavaliere oscuro - Il ritorno - The Dark Knight Rises (2012) Il cavaliere oscuro - Il ritorno (2012)
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Come metterla con la glorificazione delle gesta di un ultra miliardario spendaccione in tempi di Occupy Wall Street? I fratelli Nolan decidono di tematizzare il conflitto anziché evitarlo. Alzare la posta del terrore in gioco, dopo lo scenario del caos affrescato dall'insuperabile Joker di Ledger e quello del caso impersonato da Due Facce, non era impresa facile ma il terrorismo si offre, da un decennio a questa parte, su un piatto d'argento, soprattutto se lo scopo è scatenare una guerra dei (due) mondi, ovvero una spaventosa guerra civile. Mai come in questo caso, dunque, Gotham è esplicitamente assurta a sineddoche del mondo (quello nord-occidentale) ed è una megalomania che ben si adatta al capitolo finale di una delle saghe più rappresentative dei temi e dei modi del cinema hollywoodiano contemporaneo, per quanto d'autore.
Non sono pochi gli "spiegoni" né gli episodi ridicolmente inverosimili ma, in mezzo al racconto di tanta articolata corruzione e tanto umano orrore, così verosimilmente presentati (non si sa più se per una deriva antropologica o mediatica), le imperfezioni riportano alle esagerazioni da fumetto e quasi scaldano il cuore. Proprio come gli echi della tana delle tigri nel poliziotto di Joseph Gordon Levitt o quelli della casa-scuola di Xavier.
Tra il secondo e il terzo capitolo non c'è apparentemente soluzione di continuità, ma a ben guardare la formula non è quella del seguito quanto piuttosto quella della ripetizione, che garantirà il gradimento dell'ultimo tomo a chi aveva già (giustamente) apprezzato il secondo, ma allo stesso tempo porta a riapprezzare il primo, che acquisisce in prospettiva il valore aggiunto di una maggior libertà e inventiva. Un piano ben congegnato, non c'è che dire, che nulla toglie, in fondo, allo spettacolo epico-mélo del film, ma può anche suscitare una legittima sensazione di appesantimento. Soccorrerà prontamente Alfred, con un Fernet Branca.

Captain America: Civil War (2016) Captain America: Civil War (2016)
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La serie di film dedicati a Capitan America sono per la Marvel la maniera di prendere di petto il mondo reale (o quasi). Quello di Steve Rogers è il medesimo universo degli altri supereroi, eppure le storie che lo riguardano hanno sempre a che vedere, in una maniera o nell'altra, con problemi concreti e con la maniera in cui lo stato si prende cura dei cittadini. Dal suo esordio con i Marvel Studios (Capitan America - Il primo vendicatore), che aveva a che vedere con la maniera in cui lo stato approfitta dei suoi soldati per combattere guerre che loro non capiscono, al secondo (Capitan America - Il soldato d'inverno) pensato in pieno stile anni '70, fobico e paranoico, centrato sulle agenzie segrete e i limiti del loro potere, fino a quest'ultimo il filo rosso è sempre l'etica dei governi e la loro propensione ad approfittarsi di chi dovrebbero proteggere.
Nonostante la folta presenza di altri Vendicatori faccia apparire Civil war come un film della serie Avengers, lo stesso in cui la trama gira intorno al terrorismo e alla paura costante di attacchi inarrestabili e invisibili riconduce tutto ai temi cari a Capitan America. In più viene rimarcato con forza il tema che regge quasi tutti i film tratti da fumetti americani, la vera maniera in cui Hollywood porta avanti il grande ragionamento sui nostri anni: quanto quel che facciamo per proteggerci sia in realtà la prima causa delle minacce che ci affliggono.
In un film che punta tutto su una contrapposizione tra forze positive, più viva nel marketing che poi nella storia, in maniera non diversa da quanto fatto dalla concorrenza con Batman V Superman, è quindi la presenza di una minaccia minuscola, molto umana e per niente super, a segnare la differenza dal resto dei film tratti da fumetti Marvel. Un uomo astuto, piccolo e anonimo (interpretato come sempre benissimo da Daniel Bruhl) sfugge agli ingranaggi della giustizia e sparge il terrore con attacchi imprevedibili e una strategia invisibile. È tra noi ma non lo vediamo, ha cattive intenzioni ma non sappiamo quando, dove e come colpirà.
Tuttavia è una differenza sottile che non bilancia la sensazione di già visto. L'universo Marvel, al cinema, funziona come una grande serie tv: nonostante l'avvicendarsi diversi registi (che ha portato a risultati diversi) lo stile, il look e la messa in scena sono sempre coerenti e, specie in Civil war, questo porta ad una forte impressione di ripetitività, non tanto nella storia quanto nella maniera in cui sono presentati gli eventi. Inseguimenti, confronti fisici, scontri verbali, svolte di trama, presentazioni dei villain e ancora showdown finali, arrivano e sono condotti sempre nella stessa maniera, variazioni su un medesimo canovaccio. Addirittura anche gli inseguimenti e i momenti d'azione si somigliano tutti.
Accade così che anche un film ben fatto e inappuntabile come questo dei fratelli Russo possa lo stesso risultare dimenticabile, perso nel mare di opere simili ed incapace di distinguersi se non per la fugace apparizione di un nuovo personaggio. È Spider-man l'unica presenza in grado di ravvivare il film, per la prima volta in mano alla casa che l'ha inventato (era la Sony e non la Disney, ora proprietaria della Marvel, a gestirne i diritti cinematografici in precedenza). E non sono tanto le qualità di scrittura o le doti del personaggio in sè a segnare la differenza, quanto lo sguardo completamente nuovo con cui il film lo osserva. Se infatti gli altri eroi sono filmati alla medesima altezza, Spider-man è guardato come un ragazzino. Negli altri film a lui dedicati, nonostante fosse sempre un adolescente, la prospettiva era quella di un suo pari, sembrava un ragazzo guardato da altri ragazzi, qui invece è un ragazzo come lo vedono gli adulti, pieno di ingenuità, problemi futili e troppo irruento. Invece che stonare questa novità funziona moltissimo, marca una differenza sostanziale dagli altri, idea uno specifico filmico e porta tutta un'altra aria al film. Segno che, per quanto non ci fosse bisogno di ricordarlo, anche nel mondo dei cinecomic valgono le medesime regole che regnano al resto del cinema, cioè che come eventi e personaggi vengono guardati fa tutta la differenza possibile.

Avengers: Age of Ultron (2015) Avengers: Age of Ultron (2015)
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Travolto da un successo a dir poco imponente, Joss Whedon dimostra con questo secondo film di saperlo reggere sulle spalle e di poter continuare l'opera senza smarrire l'ispirazione, compensando la sorpresa sfumata con nuovi arrivi e nuove idee. Il faccia a faccia con Thanos è rimandato, per questo capitolo si resta sulla Terra, anche se l'America non è più al centro della mappa (ma certa retorica americana sì...). Si aggiungono al gruppo i gemelli Maximoff, Pietro e Wanda, e il personaggio cult di Visione, interpretato dallo stesso Paul Bettany che ha finora fornito la voce di Jarvis. Ma le dinamiche più interessanti sono interne al gruppo originario, come l'avvicinamento sentimentale tra Natasha e Bruce Banner, se non al personaggio stesso, com'è il caso di Stark.
Si ride un po' meno, in compenso il discorso sull'intelligenza artificiale è affascinante sia dal punto di vista concettuale sia da quello filmico (con una debole eco del crepuscolo di Hal 9000). Certamente, scrittura e regia assicurano qui nuovamente un grandissimo equilibro tra le forze in campo, specie all'interno degli stessi Avengers, bilanciando la superiorità di Ironman, Thor e Hulk con un maggior protagonismo di Occhio di Falco e Black Widow (Capitan America sta un po' nel mezzo). Allo stesso tempo, si conferma il quid in più di Tony Stark e Bruce Banner, cervello e sentimento di questa serie di film, tanto che la sequenza in cui lavorano insieme d'intelletto è più emozionante della loro prestazione nella battaglia. Ma la trovata più spiazzante è anche la più intelligente: non potendo ingannarsi ed ingannarci sulla difficoltà di Jeremy Renner di reggere il confronto coi suoi partner a colpi di arco e frecce, Whedon potenzia la sua ordinarietà (è il super padre di famiglia), inserendo in un sol colpo un'altra dimensione nel film, che fa sorridere e guarda dritta negli occhi il pubblico in sala. Stanti così le cose, gli Avengers devono trionfare a tutti i costi. Per salvare il mondo, naturalmente, ma anche per permettere ad Occhio di Falco di tornare a casa e finire di pavimentare il solarium.

The Wolf of Wall Street (2013) The Wolf of Wall Street (2013)
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Alla fine di un film di Scorsese ci si convince ogni volta che non si possa andare più in là, che non ci sia più spazio per un'altra inquadratura dopo l'immersione subacquea de Le royaume des fées (Hugo Cabret), che non ci sia un altro sguardo ammissibile dopo gli occhi celesti di un orfano dietro agli orologi e aggrappati alle lancette che scandiscono l'unico tempo che può vivere. Poi vedi The Wolf of Wall Street, commedia nera e stupefacente senza redenzione, e ti accorgi che è possibile. Navy Seal del cinema, Martin Scorsese si spinge daccapo oltre e questa volta negli angoli oscuri dove vivono le cose (molto) cattive e dove ingaggia una battaglia ad alto volume con gli avvoltoi di Wall Street, immorali gangster ma socialmente più accettabili di un gangster.
Jordan Belfort, trader compulsivo impegnato a consumare (letteralmente) il mondo, è in fondo il fratello di quel bravo ragazzo di Henry Hill (Ray Liotta in Goodfellas), che proprio come lui non è frutto dell'immaginazione ed è materia prima su cui si edifica il film. Recitato in prima persona da Leonardo DiCaprio, imperiale nella performance e imperioso nel film, The Wolf of Wall Street afferra in piena e frontale autarchia un personaggio incontinente e talmente brillante che non smette di rilanciare e sperimentare i suoi limiti. Alla maniera del suo 'eroe' le immagini di Scorsese, brillanti e smaniose, sature e vuote, si rigenerano con la costanza di un moto perpetuo, svolgendo l'oscenità bestiale del mondo della finanza e proseguendo la sua analisi antropologica sull'avidità attraverso l'economia americana. Scrupoloso studioso di ambienti, di cui L'età dell'innocenza è il vertice incomparabile, Scorsese introduce in un'ouverture rapida e vorticosa l'universo degli operatori finanziari, un regno delirante e fuori controllo che fa fortuna a colpi di bluff e di transizioni più o meno legali, che pratica il piacere e il cinismo dentro un programma quotidiano di feste decadenti popolate da spogliarelliste, puttane, nani volanti e bestie da fiera. Un'orgia senza fine e senza altra ragione che perseverare nella perversione e nel vizio del denaro e della droga, il primo serve per ottenere la seconda. Così per 'montare' il toro furioso di Wall Street Jordan Belfort tira la cocaina, per restarci in equilibrio ingoia sedativi.
Se si vuole accedere nei luoghi di The Wolf of Wall Street è necessario seguire la 'striscia' bianca e mettere in conto la tachicardia, un'accelerazione di ritmo e un aumento della frequenza delle immagini, in cui non si può fare a meno di leggere l'esperienza psicotropa e autodistruttiva che ha segnato la vita del regista e lasciato un'impronta indelebile nel suo cinema. Una conoscenza estrema e febbrile della 'materia' che ha forgiato il suo stile, l'eccitabilità della macchina da presa, il montaggio vertiginoso e incalzante, le atmosfere paranoiche, quelle ansiogene e quelle insonni. Gli abusi degli anni Settanta poi hanno prodotto un'identificazione primaria tra il giovane Scorsese e Jordan Belfort, di cui l'autore coglie assai bene i comportamenti ossessivi e la grottesca esuberanza, figurando un personaggio irrecuperabile, che cavalca ininterrottamente una cresta isterica e amorale fino al punto di rottura, un'onda di trenta metri che lo inghiottirà senza inghiottirlo davvero mai. Perché Belfort, in cima al suo yacht o sul palco(scenico) del suo ufficio, è un eruttante 're del mondo', di un serraglio di animali selvaggi e predatori. Lupo, leone (il logo della sua azienda e della sua immagine pubblica), toro (l'emblema di Wall Street), scimmie in stato di eccitazione permanente, ubriachi di potere e dipendenti da tutto. Scorsese non fa sconti, figuriamoci lezioni morali, per quelle rimandiamo a Oliver Stone e Michael Moore, rinunciando a qualsiasi forma di empatia col suo personaggio, escludendo la traccia sentimentale di Casinò, la storia di un 'asso' che costruisce un impero per offrirlo a sua moglie, e mettendo in scena niente altro che la pura e semplice ambizione di dilapidare il mondo senza scrupoli e senza rimpianti.
The Wolf of Wall Street è (anche) lo stand-up di un buffone, corruttibile e corrotto leader di una gang disfunzionale, da cui emerge l'ambizione smisurata del trader di Jonah Hill, grande improvvisatore e habitué della commedia 'per adulti' a cui Scorsese regala una delle sequenze più prodigiosamente oscene e fuori misura del film. Maître in materia di cinismo e profitto personale resta nondimeno Jordan Belfort, che il regista riduce a un verme paralizzato dall'abuso di una sostanza chimica, costretto a strisciare fino alla sua vettura, vittima di un'umiliazione che ha contribuito a creare. Un uomo impossibile da redimere che quando infine cade non ha che un'idea nella testa: ricominciare. Un imperatore moderno e wellesiano, che fallisce il successo ed è un fallito di successo, senza 'Rosebud', traumi infantili o segreti da scoprire. Oscillante tra picchi e crisi, ansiolitici ipnotici e droghe stimolanti, The Wolf of Wall Street agisce direttamente sulla chimica cerebrale dello spettatore, che rimane con una penna in mano e la rivelazione di qualcosa di mostruoso e appassionante sulla natura umana. Scorsese ripete la magia, questa volta nera e distruttiva.