J.J. Abrams produce, scrive Christopher McQuarrie (Oscar per I soliti sospetti), che dirige anche, mentre Tom Cruise, al solito, è il supereroe di questo quinto compendio di supereroismi, dall'apnea prolungata alla corsa vertiginosa in moto senza casco, dal travestimento che non ti aspetti al disegno artistico a matita: non c'è nulla che Tom Cruise non sappia fare, tanto che, nonostante le minacce titaniche, sono tutti tranquilli (la CIA lo cerca con tutti i mezzi? "Non lo troveranno mai"). Non è baldanza né tantomeno ingenuità, è invece parte integrante di un discorso sopra le righe che permea il film di sana ironia. In questo senso, il teaser pre-titoli -con il nostro che entra in scena all'ultimo secondo sul jingle del franchise e si aggrappa a mani nude alla carrozzeria di un aereo in volo-, sequenza che poteva far presagire il peggio, si configura in realtà come lo zenit di questo tipo di ironia, piazzato in apertura per chiarire da subito le cose, e anche, per nostra fortuna, per poi procedere ad occuparsi d'altro.
"Altro" è una parola grossa, perché sempre di correre e saltare si tratta, restando il più vaghi possibile sul fronte dell'intreccio. Basterà dire che il Sindacato è un'organizzazione terroristica che usa come braccia altre organizzazioni terroristiche, in tutto il mondo, per ritorcersi con immenso odio verso chi l'ha creata per altri scopi: credibile è credibile, e attuale quanto basta. Riguardo a salti e corse, invece, quelli van fatti con stile, perché sono la vera sostanza, e McQuarrie non delude: all'Opera di Vienna così come sui tornanti fuori Casablanca, combina sapientemente adrenalina e punti macchina, tempistiche da cardiopalmo e tacite promesse di romance. E se poi la love-story finisce continuamente rimandata, tanto meglio, funziona di più (cos'è la sequenza dell'inseguimento in moto se non un corteggiamento coi fiocchi?)
Rebecca Ferguson, volto nuovo ma "bondgirl" nata, è generosamente eletta ad alter-ego femminile di Hunt, nei panni della britannica Ilsa Faust, e regge la responsabilità con meritevole aplomb, scendendo giusto dai tacchi all'occorrenza delle botte da orbi. Moderna Turandot, non ha più un pugnale per fermacapelli ma un rossetto Usb.
Quella della divisione netta tra una piccola fetta di popolazione ricca e dotata di qualsiasi privilegio, che mantiene uno stile di vita spensierato sfruttando il lavoro della massa di poveri, è una delle distopie cinematografiche più frequenti, una visione iperbolica del nostro presente proiettata in un futuro deteriore che ha contaminato tutto il cinema fin da Metropolis. E che proprio ad un regista come Neil Blomkamp sia stato affidato un film con una premessa così consueta è la pecca produttiva più grande del film. Nelle mani dell'autore di District 9 la storia è naturalmente sbilanciata verso il mondo dei poveri, ritratto con ammirabile dettaglio e mania per la creazione di meccanismi vessatori, scenari disperati e incubi operai, prelevati da un immaginario che poco ha a che vedere con la fantascienza ma pesca a piene mani dal cinema più realistico e sociale.
Purtroppo però Elysium nel portare avanti la sua storia di rivoluzione operaia e riconquista della giustizia a dispetto del progresso tecnologico non riesce a trovare il furore del film precedente, nè quell'equilibrio tra finzione e metafora del reale che avrebbe consentito di portare un passo più avanti l'usuale sottotesto sociale del cinema distopico. Solo le astronavi colme di disperati in cerca di salvezza che vengono abbattutte senza pietà prima di arrivare su Elysium, riescono ad essere un'immagine dotata della forza e dell'intelligenza che riconosciamo al regista sudafricano.
Semmai è più interessante la visione che Blomkamp ha della Los Angeles del 2154, totalmente bilingue (inglese-spagnolo), quasi uguale a quella contemporanea nelle tecnologie e nella moda (veicoli volanti a parte), colma di rifiuti come in Wall-E e non lontana per certi versi dalla fantascienza anni '60, quella dei robot ubiqui che sembrano pupazzoni inerti da fiera di paese. Andando a girare il suo antifuturo nelle vere baraccopoli del Messico, Elysium svela la vicinanza con l'oggi e come la parte più cara all'autore non sia la lotta per la conquista del benessere che i ricchi tengono per sè (ben rappresentato dalla possibilità di guarire da ogni malattia) o lo scontro fisico con i luogotenenti di Elysium presenti sulla Terra (che appare molto forzato nella sua lunghezza) ma sia invece lo sforzo disperato costituito dal sopravvivere e crescere nei ghetti o nelle periferie del pianeta, evitando come possibile l'ubiqua criminalità e inseguendo la vaga speranza di un domani migliore. L'epica di un futuro in cui tutto è andato male che è visivamente identico all'oggi.
Fra Praga, Londra, Langley (sede della CIA) vive l'intreccio misto fra James Bond, Die Hard e...il M.I. televisivo. Elettronica, Internet, elicotteri che entrano in gallerie. Insomma gli immancabili effetti speciali col valore aggiunto di un regista che ha sempre avuto qualcosa in più. Destinato a un grande successo già prima dell'approdo nelle sale. Gradevole anche se sopravvalutato. Tutto sommato Cruise non vale Connery. Registriamo il passaggio della Béart attraverso il film: a disagio come un fantasma al sole, monocorde e monoespressiva.
La seconda parte di Breaking Dawn chiude (per ora) una delle saghe cinematografiche più fortunate e famigerate di questi anni, responsabile di fenomeni di fanatismo e di interrogazioni sociologiche che sono andati ben oltre i confini del testo e del mezzo di partenza, a dimostrazione del fatto che i bestsellers di Stephenie Meyer, in primo luogo, e la cassa di risonanza fornita dai film, poi, hanno indovinato una domanda inconscia e un sotterraneo esprit du temps, che è emerso in superficie potente e contagioso.
Spogliato della sua dimensione storica, il mito del vampiro è riletto qui in chiave esclusivamente romantica e fornisce una dimensione concreta alla chimera amorosa per eccellenza, ovvero quella del "per sempre", in questa vita e nell'altra (concreta nella finzione, naturalmente, ma è un filtro che tende a cadere, se non altro per il tempo della lettura o della visione).
In anni in cui la parola d'ordine della politica americana è "sicurezza", il concept della Twilight saga sembra essere non a caso quello complementare di "protezione". Così, dopo aver protetto la loro prima amata da ogni male, reagendo ad ogni minimo sentore di pericolo, Edward e Jacob sono infine votati alla salvaguardia di Renesmee, ma non sono più soli. In questo finale di partita, il mondo umano è stato ormai completamente messo da parte, eppure ad attendere Bella non c'è la solitudine leggendaria del vampiro ma la famiglia unita e numerosa che in vita non ha mai avuto. Completata la trasformazione dell'eroina, e dunque la formazione della squadra dei Cullen, si lotta per la conservazione, nel corso di una battaglia sanguinosissima che assomma tutto l'orrore che finora era stato tenuto ai margini dei film, e che segna anche un interessante tradimento rispetto alle sacre carte.
Si respira l'aria della fine quasi esclusivamente per l'induzione dei ricordi obbligatori, ma il tono è tutto sommato asciutto e il capitolo si allinea sullo standard del suo precedente immediato (in realtà, come è noto, del tutto contemporaneo). Non mancano alla riunione di famiglia personaggi troppo esotici per non far sorridere, ma tanto ci pensano le allusioni visive a certe derive eugenitiche a far tornare i brividi.
Un ciclo si chiude. Noi siamo invecchiati e loro no.
Ci sono casi in cui cercare di analizzare un film e la sua riuscita o fallimento, prescindendo da un modello di riferimento ingombrante e palese, risulta ingeneroso tanto per il modello che per la sua filiazione. Quindi meglio fugare subito i dubbi: senza National Lampoon's Vacation e la sua immortale parodia della famiglia americana media alle prese con vicende tutt'altro che medie, We're the Millers (Come ti spaccio la famiglia l'orrendo titolo italiano) non esisterebbe nemmeno. Il feeling generale dell'opera di Thurber (già regista del cult Palle al balzo - Dodgeball) e persino alcune sequenze - il confronto padre-figlio, il furgone fermo in mezzo al nulla, diverse espressioni di Jason Sudeikis - riprendono in modo chiaro momenti analoghi del sempreverde di Harold Ramis. Effetto che solo in parte frena la vis comica di Thurber, suscitando al contrario un piacevole amarcord, come se il classico meritasse di essere riproposto, con un adeguamento a linguaggio e mode del terzo millennio, epoca ancor più cinica e disillusa degli Ottanta. Specie leggendo tra le righe (amare) di We're the Millers, benché seppellite da una coltre di risate. Perché la famiglia sghemba ma felice di Chevy Chase e soci era comunque, nel bene e nel male, la pietra basale della middle class americana, dove invece Sudeikis e Aniston devono mettere in scena il simulacro di quel modello famigliare per uno scopo infimo e legato al profitto.
Il nucleo famigliare tradizionalmente inteso non esiste più, neppure in forma fantozziana (come dimostra la "vera" famiglia dell'altro roulottista incontrato in viaggio, piagata da problemi segreti e insanabili): è solo un comodo specchietto per le allodole volto a non dare nell'occhio, più per un pregiudizio che per un'effettiva normalità intrinseca. Qualcosa che si osserva come modello in una coazione a ripetere, ma che nella sua sostanza non esiste più se non in forma contaminata e problematica. Riderci su non è semplice, ma con Thurber e i suoi Miller si può, e di gusto.
l ritorno di Vin Diesel nel ruolo di un appassionato di sport estremi che può diventare la più potente macchina da guerra, a patto di stare dalla parte giusta e di essere circondato di belle donne, è annunciato da una colonna sonora più che eloquente, sui titoli di testa: una specie di ininterrotto jingle, sparato a volume altissimo, che fa bum-bum-bum. È la xXx filosofia: forte, elementare, un po' ridicolo. Il protagonista fa dunque il suo ingresso in scena su uno skateboard lanciato a tutta velocità, braccato dalla polizia, dopo aver manomesso un'altissima torre delle comunicazioni per portare nelle baracche e nei poveri ritrovi del posto in cui si trova, la partita di pallone. È già un eroe: che di lì a poco salverà il mondo appare scontato.
Quindici anni dopo le scorazzate contro i russi e il finale in bikini avvinghiato ad Asia Argento, Vin Diesel arricchisce il suo personaggio di qualche ruga e di una sorta di aplomb per cui pare accettare la sfida quasi stancamente, salvo poi ammettere di vivere per quella roba lì, ovvero per trovarsi ad ogni momento sul filo della morte. Gli fa compagnia una squadra vincente, politicamente corretta nella varietà di gender e provenienza etnica: la bellezza di Bollywood, Deepika Padukone, la modella australiana Ruby Rose, quella bulgara Nina Dobrev, l'energumeno scozzese McCann, il "maestro" Donnie Yen, partner delle sequenze più mirabolanti. Ma la cifra del film e del personaggio è l'eccesso (non una X ma tre), dunque anche gli informatori, gli hacker più infallibili del pianeta, sono ragazze che sembrano uscite da un set pubblicitario e il prezzo che il nostro deve pagare, per ottenere ciò che vuole, gli impone di stare con tutte quante, tutte assieme.
Alla parodia involontaria dell'agente segreto, che faceva capolino in alcune scene del primo capitolo, si aggiunge ora quella degli Avengers, con Samuel L. Jackson nella medesima parte, e quella del recente remake di Point Break, film già di per sé notevolmente borderline. Ma Xander Cage non ha paura del ridicolo, ed eccolo allora politicizzarsi con la faciloneria che lo contraddistingue (né col governo né con i radicali, sempre e soltanto dalla parte di nessuno, o della compagna di turno), mentre combatte dentro un aereo militare in assenza di gravità per ottenere l'oggetto della discordia: un controller delle sorti globali grande come una vecchia videocassetta e costruito apparentemente dello stesso materiale, che si schiaccia sotto il piede come un grissino (ma dov'era finito l'addetto agli oggetti di scena?)
Un film così, anche se passa il suo tempo tra calci e bombe e pugni, non fa male a nessuno, né in scena né fuori. Il massimo che può, è fare simpatia.
Rivedere Ghostbusters a trent'anni dalla sua apparizione sugli schermi di tutto il mondo dove si trasformò (il gioco di parole è obbligato) in un assoluto blockbuster produce un effetto nostalgia in chi all'epoca era già uno spettatore attivo e ancora in gran parte 'cinematografico' (nel senso che le Vhs erano sul mercato da circa 8 anni e le sale erano ancora il luogo di fruizione privilegiato dei film). Perché non c'è dubbio che quegli effetti speciali oggi facciano un po' sorridere ma è altrettanto vero che il team di menti che aveva presieduto alla produzione era di un'eccellenza davvero fuori dal comune. Qualche esempio? John De Cuir, lo scenografo, aveva alle spalle 3 Oscar vinti e 11 nomination; Richard Edlund aveva curato gli effetti speciali di film come Poltergeist e Indiana Jones. I predatori dell'Arca perduta; Sheldon Kahn aveva montato Qualcuno volò sul nido del cuculo.Per non parlare di Elmer Bernstein al soundtrack e di Ray Parker jr. autore di una delle hits più famose della storia del cinema (una di quelle, per intenderci, che quando l'hai sentita una volta non la scordi più). Se la prima mezzora, nonostante l'inizio che a un giovane spettatore odierno potrebbe far venire in mente Harry Potter, scorre con lentezza a causa di qualche dialogo che oggi appare come decisamente troppo lungo, bisogna però pensare che la terminologia pseudoscientifica utilizzata all'epoca divenne un cult e molti appassionati ancora la ricordano senza dover ricorrere a un ripasso.
Ci sono poi gli attori: un Bill Murray che la fa da padrone con uno stralunamento controllato che non vuole e non può nascondere lo sguardo assassino dello sciupa femmine contrapposto a un Rick Moranis nerd a tutto tondo destinato a demoniache imprese. Con loro un Dan Aykroyd e un Harold Ramis (attori e sceneggiatori) che si ritagliano ruoli che non sono mai di spalla. Alcune scene (una in particolare: quella dell'omino dei Marshmallows trasformato in un colosso pericolosamente sorridente) sono diventate dei cult. Tutto ciò fa sì che Ghostbusters (in 28^ posizione nella classifica delle 100 migliori commedie americane) meriti una ri/scoperta.
La trilogia reboot iniziata con “L’alba del pianeta delle scimmie” e proseguita con “Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie”, si conclude ora con questo “The War”, diretto come il precedente da Matt Reeves, con coerenza di stile, contenuti, registro e atmosfere, in pieno rispetto filologico e emotivo, portando al cupo, maturo, atto finale lo scontro inevitabile tra esseri umani e scimmie geneticamente evolute. Il film rispetta sia l'esigenza di spettacolarità, sia la riflessione di un'opera autoriale ricca di tensione, intensità, citazioni e rimandi alla storia, all'attualità, al cinema. L’interesse per la pellicola è ancora una volta l’ottima caratterizzazione delle scimmie – metafora della condizione umana, e in particolar modo quella di Cesare – simbolo della dignità quale strumento di rivalsa degli oppressi dalle ingiustizie del mondo. Tecnicamente ed (est)eticamente ineccepibile.
Il film racconta dunque la scoperta più o meno contemporanea da parte di alcuni uomini della gigantesca "bolla" cresciuta in seno al mercato immobiliare e destinata a scoppiare un paio d'anni dopo con effetti disastrosi. Com'è possibile conciliare lo spettacolo cinematografico, e il tasso fisso d'intrattenimento che deve assicurare, con il racconto di un crack finanziario, dove i protagonisti hanno nomi quali CDO e AAA e la cosa si fa appassionante man mano che si complica? Beh, The Big Short (letteralmente: "il grande scoperto") dimostra che è possibile; scommette contro le regole date per marmoree del racconto filmico mainstream e vince. Anzi, dati il paradosso a monte e la sorpresa a valle, si può affermare che il film di Adam McKay stravinca, lasciando lo spettatore piacevolmente preso in contropiede.
Questo gioco al ribaltamento sulle aspettative di un pubblico ignaro e impreparato, che funziona bene ad una prima visione, non esaurisce però i meriti del film, che poggia invece su un'architettura narrativa solidissima, ispirata dal libro di Michael Lewis che sta alla base del copione, e su un potente e stratificato ritratto dei personaggi, dove la dimensione della star platealmente travestita e trasformata si assomma al personaggio socialmente eccentrico (ma, in fondo, più vero e all'opposto dello stereotipo) e ad un'avvisaglia di back-story, tutt'altro che leggera, nei casi di Christian Bale e Steve Carell, che li conferma protagonisti assoluti.
Verboso e nevrotico, il film di McKay è anche punteggiato di alcune riuscite trovate autoironiche, quali la scelta di lasciare le spiegazioni più tecniche a Margot Robbie o Selena Gomez, riprese in contesti vergognosamente deputati al lusso e al piacere, e interpellate col loro nome, "bucando" così la parete della mezza finzione per sconfinare comunque in un altro artificio.
Alla fine dei conti, però, l'affondo che porta il film alla vittoria, riporta il castello di carte ad un terreno di scontro umano e comune: alla scelta personale che Baum/Carell è obbligato a compiere al termine della sua crociata e all'epilogo storico e giuridico della grande truffa delle banche. Un epilogo onesto e amaro, in cui il tasso variabile che oscilla più spaventosamente non è quello del mutuo ma della morale.
Quali siano state le conseguenze della crisi finanziaria innescatasi nel 2008 non ci limitiamo a saperlo, ma ne sentiamo, chi più chi meno, ancora gli effetti: i motivi all’origine del crollo restano però per la maggior parte avvolti in una fitta nebbia creata spesso e volentieri dall’utilizzo di qualche involuta formula di comodo per celare le colpe di un capitalismo privo di freni. Proprio di fare chiarezza sulle responsabilità, specie se inconfessabili, si incarica il film di Adam McKay che, assieme a Charles Randolph, ne ha tratto la sceneggiatura da un libro di Michael Lewis raccontando di come le maggiori banche, d’affari e non, abbiano costruito l’abnorme bolla immobiliare facendo i soldi sul nulla di mutui concessi senza alcun controllo solo per alimentare i prodotto che li includevano. ‘La grande scommessa’ azzarda la scomoda incombenza di mettere chi guarda di fronte a una verità che dà fastidio e, per farlo, si sforza di portare alla luce del sole ciò che si nasconde dietro agli astrusi tecnicismi che gli apprendisti stregoni della finanza utilizzano per non far capire quel che stanno trafficando: impervia impresa affrontata tenendo altissimo il numero dei giri e giocando il registro della commedia, seppur acida, con una tale efficacia da riuscire a non annoiare in nemmeno per un minuto delle oltre due ore di durata. Il merito va innanzitutto a una scrittura serrata e a una serie di trovate che insaporiscono il piatto rendendolo estremamente gustoso: il racconto arguto fatto dalla voce sopra di Jared (Ryan Gosling), i personaggi che dialogano di tanto in tanto con lo spettatore, le excusationes non petitae dei ‘non è andata proprio così’ riguardo ai passaggi più romanzati, le figure reali ed esterne alla trama che chiariscono i concetti davvero ostici (la prima scelta era Scarlett Johanson, ma Margot Robbie immersa nella schiuma che spiega i CDO suggerisce l’inevitabile strizzata d’occhio a un altro film di cannibali come ‘The wolf of Wall Street’). Combinando le varie situazioni, l’opera viene ad avere un suo ben preciso ritmo interno, per il quale si dimostra fondamentale il brillante montaggio di Hank Corwin che aiuta non poco nell’intarsio dei tre o quattro filoni in cui si sviluppa la narrazione. Seguendo l’intuizione di Michael, un analista finanziario di un marginale fondo californiano (Christian Bale), alcuni suoi colleghi di piccolo o medio calibro decidono, senza essere in contatto gli uni con gli altri, che il castello di carte sta per crollare e vale la pena di scommetterci contro: paragonandoli all’ottusa avidità del sistema bancario, McKay riesce a far parteggiare per questi non-eroi per nulla specchiati prima di rimettere il tutto nella corretta prospettiva. Se il personaggio di Bale è al limite dell’autismo, tra matematica e batteria death metal, l’interesse di Jared è rivolto in esclusiva all’arricchimento laddove Charlie (John Magaro) e Jamie (Finn Wittrock) sono alla ricerca di un posto al sole: sul loro entusiasmo all’avverarsi delle previsioni getta acqua gelata Rickert (Brad Pitt) elencando le ripercussioni che devasteranno negli anni successivi l’economia reale dando in pratica il via al più cupo segmento finale. Se si considera che anche Mark (Steve Carell), la figura più tormentata e a suo modo idealistica, alla fine cede al guadagno, appare evidente che di buoni, in una vicenda simile, non ce ne sono (e neppure ce ne possono essere): del resto, se chi deve controllare è cieco (Standard & Poor’s rappresentata da Georgia Hale/Melissa Leo) o di facili costumi (la funzionaria della SEC), risulta fin troppo facile il compito di coloro che desiderano giocarebarando. Unito alle qualità prettamente cinematografiche, il sontuoso cast contribuisce a rendere appetibile la pellicola: al fianco dei nomi già citati – Gosling ha interrotto apposta il sabbatico mentre Pitt è tra i produttori – non vanno perlomeno dimenticati Marisa Tomei nei panni della moglie di Mark (molto bella l’idea del dialogo fuori fase tra i due) e Jeremy Strong in quella del suo esperto matematico. La brillantezza e i sorrisi, in prevalenza amari, non riescono peraltro a nascondere la profonda tristezza che il film sprigiona, accentuata dalla conclusiva consapevolezza che nessuno ha pagato davvero (a parte il contribuente) e, soprattutto, ben poco è cambiato: ripensare alla storia raccontata da McKay in giorni in cui a scricchiolare è il mercato petrolifero fa correre più di un brivido lungo la schiena.
Metafora di un mondo cinico e senza speranza o semplice divertissement, l'odissea di Shrek regala ancora, nonostante il terzo "compleanno", un'ora e mezza di spensierata ilarità, aggiungendo alla già vasta galleria di personaggi, altri memorabili soggetti. Dal Mago Merlino depresso e arteriosclerotico - complice di un incantesimo malriuscito che metterà a dura prova i due baldi aiutanti di Shrek - al cattivo Capitan Uncino passando per un nano baby sitter, la saga va avanti a suon di risate e immagini spettacolari. Una grafica sempre più accurata sotto il profilo estetico e una storia che regala anche in questo episodio qualche spunto di riflessione, rendono unico questo gioiellino della DreamWorks che continua a far crescere e maturare i suoi protagonisti mettendoli a dura prova con se stessi e col mondo circostante. Se Shrek entra in crisi per un'inaspettata paternità (urlata da Fiona sul molo del Porto, prima della partenza), non va meglio al povero signor Gatto, latin lover incallito "costretto" a corteggiare ogni femmina che incrocia il suo cammino. Fra citazioni e sberleffi, il regno delle favole è molto molto più reale di quanto pensiate.
McCall è un equalizer, ovvero uno che vuole riportare l'ordine ristabilendo l'equilibrio di giustizia laddove è stato violentemente alterato. Basato sulla serie televisiva anni Ottanta intitolata in Italia Un giustiziere a New York, The Equalizer (il cui sottotitolo Il vendicatore non rende giustizia alla natura equanime del personaggio) ha per protagonista un uomo di età prepensionabile dall'apparenza innocua (i colleghi giovani al supermercato del fai da te lo chiamano "nonno") e dalla sostanza assai pericolosa.
Denzel Washington assicura al ruolo il suo talento d'attore e la sua gravitas, evidente soprattutto nella profondità dello sguardo che diventa il centro visivo ed emozionale della storia, nonché il porto d'accesso per molti dei virtuosismi registici cui Fuqua, abilissimo dietro la cinepresa, si abbandona con gioioso entusiasmo. Purtroppo la sceneggiatura non è all'altezza delle abilità di Washington e Fuqua, team rodato dopo Training Day, né aiutano la resa del film gli eccessi di violenza grandguignolesca e di durata filmica.
Il risultato è dunque disomogeneo: da un lato grandi suggestioni visive e un protagonista fortemente carismatico, dall'altro una trama arzigogolata e ridondante e un'escalation di spargimenti di sangue ed esplosioni difficili da digerire in queste quantità industriali.
Approvato. Probabilmente il migliore dopo _Infinity War_ (4 anni e 7 film fa).
A tratti quasi horror, teste che volano, gente che esplode (un maestro **Sam Raimi** in questo) e personaggi che se devono fare una brutta fine (anche se buoni), la fanno.
Apprezzati alcuni richiami del regista a sue vecchie opere come il cameo di Bruce Campbell da "_La Casa_", o la più recente serie Netflix "_Ash vs. Evil Dead_" e il combattimento sul palazzo tra America Chavez e Octopus, chiaro tributo a probabilmente il suo miglior film: _Spider-Man 2_.
Il problema principale è la solita tendenza vista e rivista degli ultimi film Marvel: personaggio alla Tony Stark che aiuta il giovane Spiderman a mo' di padre.
Secondo i grandi esperti del web sembrava che per capire questo film fosse necessario e imprescindibile aver visto quattro film e 8 serie tv, quando probabilmente bastava solamente guardarsi _Wandavision_.
Forse si poteva aggiungere un qualcosa in più per aprire una nuova trama, un nuovo grande capitolo dell'universo Marvel (che ormai non si vede dal 2018).. invece anche questo, come tutti i precedenti è un film a se, con l'ennesima introduzione di un nuovo supereroe (eroina) e tutto il resto a tarallucci e vino.
Punto a favore: il prezzo del biglietto vale assolutamente per l'anteprima del trailer di Avatar 2 (spoiler, si rivelerà una copia del primo. E anche più brutto).
Perla del Film:
"_Tutte le notti faccio lo stesso sogno_".....
(e anche lo stesso film)
Dimenticate atmosfere espressioniste e terrori archetipici: qui spira un'aria di divertimento citazionista non spiacevole. Gli autori infatti si sono preoccupati di parodiare le scene più forti e lo hanno fatto con gusto e misura. Alla fine si ride anche. Montaggio frenetico e intrattenimento assicurato. Straordinari effetti visivi.
Ad Iron City vive il 99% che si arrangia tra lavori e miseria e ha come unico sfogo lo spettacolo gladiatoriale del motorball, mentre l'1% si presume viva in un paradiso irraggiungibile chiamato Zalem, ma a differenza di altre distopie dove i ceti sociali sono così marcatamente divisi, il mondo di Alita è solare e vitale. Iron City è infatti un luogo vasto, spesso dalle giornate assolate e con edifici colorati, in linea con la sua collocazione mesoamericana da cui vengono integrati anche frammenti dell'architettura guatemalteca.
La ricchezza e la varietà di scenografie e costumi rendono l'ambiente credibile e sfaccettato, dove oltre alla miseria della fatica e della povertà c'è spazio anche per il gioco, così come per il crimine notturno. Ad Iron City si aggira infatti una sorta di serial killer che ruba componenti meccaniche e che sarà uno degli avversari principali di Alita.
C'è poi il criminale che sta al di sopra di tutti, Vector, nero, elegante e carismatico, supervisiona sia le corse del motorball, sia i cacciatori di taglie, e sembra persino capace di fornire l'accesso a Zalem ai suoi favoriti. Per questo lavora con lui la bellissima Chiren, ex moglie di Ito e geniale scienziato che come il marito arriva proprio da Zalem, da cui si può cadere ma dove secondo Ito non si può tornare.
Uno dei casi più clamorosi in tempi recenti di divaricazione tra aspettative e resa finale, il Godzilla di Gareth Edwards spazza via, come solo la coda del lucertolone è in grado di fare, il ricordo di innumerevoli tentativi malriusciti di riportare sullo schermo il dinosauro di Honda Ishiro. Da molti kaiju eiga scaduti nel trash al Godzilla di Emmerich del 1998, ibrido tra Jurassic Park e un disaster movie, il cui ricordo è cancellato dalla nuova versione sotto ogni aspetto. Sotto il profilo contenutistico, grazie a un plot più articolato e vicino allo spirito originario della saga, con le radiazioni nucleari al centro della questione, insieme al ruolo della razza umana nell'equilibrio naturale del mondo. E sotto il profilo dell'azione pura, dal momento che Edwards concentra in un lasso relativamente breve ma assai intenso i money shots che vedono Godzilla (o Gojira) alle prese con i mostri M.U.T.O. (Organismi Terrestri Massivi Non Identificati), regalando sequenze di pura magnificenza 3D (ancor più incredibile, visto che il film non è stato girato direttamente in 3D) e gestendo al meglio la presenza scenica delle creature. Da questo punto di vista, per quanto paradossale possa sembrare, Edwards mostra di avere sviluppato un feeling superiore con i mostri (Monsters recita peraltro il titolo del suo lavoro precedente) che con gli umani. Dove questi ultimi, ad eccezione di Bryan Cranston, sono caratterizzati da un'inespressività dovuta a limiti invalicabili (Taylor-Johnson, Olsen) o a svogliatezza (Watanabe, Hawkins, Strathairn), la morfologia e perfino la personalità dei mostri è gestita alla perfezione in ogni frame.
Campi lunghissimi e primi piani, incursioni improvvise nell'inquadratura che sfruttano costantemente gli spazi messi a disposizione da una San Francisco trasformata in arena (e fotografata da Seamus McGarvey con gli stessi toni grigi utilizzati in The Avengers); fino a una temeraria soggettiva di Godzilla che scruta gli eroici, minuscoli e folli paracadutisti mentre si gettano nella mischia per disinnescare l'ordigno nucleare. Una sequenza, quest'ultima, avvolta in un nero pece che non lascia scampo e sottolineata dalle musiche di Ligeti (o meglio, da quelle musiche di Ligeti, la stessa "Atmospheres" di 2001: Odissea nello spazio) che sarebbe di per sé una testimonianza sufficiente tanto delle qualità di Edwards che della sua spavalda ambizione.
Remake in genere significa necessità, condizionata dall'avvento di un upgrade tecnologico e forse dal fatto che tutto è già stato raccontato. Eroi e villain delle infanzie di generazioni ritornano così, incessantemente, in un loop che sembra non avere fine, alimentato da Cgi e 3D. Ma Gareth Edwards ridà vita a Godzilla in un remake intelligente, oltre che astuto. Che riesce a sussumere il doppio ruolo di blockbuster perfetto ed enigmatico oggetto di studio, soddisfacendo il divoratore di pop corn e insieme il cinefilo, coccolato da una successione di citazioni irresistibili. Rivivono schegge di Incontri ravvicinati del terzo tipo - un Bryan Cranston visionario e irriducibile - di Alien - la sequenza nelle Filippine e la progenie dei M.U.T.O. - o de Lo squalo, in uno dei molti momenti thrilling, quando Gojira arriva sulla spiaggia di Honolulu, generando uno tsunami immane. Ma soprattutto emerge una riflessione non banale sul ruolo dell'uomo nella scala evolutiva, che vede in Gojira un correttore darwiniano più che un distruttore, un gigantesco sistema immunitario a cui la Terra fa ricorso quando non esistono altri modi per ristabilire l'equilibrio.
Vicino quasi ai dinosauri di Malick, o al Totoro di Miyazaki, in un ruolo inedito di custode delle imperscrutabili leggi della natura. Compiendo in fondo il discorso originario di Honda Ishiro, e del terrore post-atomico giapponese, proprio di chi aveva toccato con mano l'apocalisse auto-inflitta dalla specie umana. Un discorso drammaticamente tornato di attualità negli ultimi anni, che ribadisce ancora una volta l'inadeguatezza e lo sperpero del libero arbitrio di un'umanità gretta e incauta, a cui forse solo Godzilla può porre rimedio.
L'eterna lotta tra il bene ed il male è qui sorretta da una trama ricca di situazioni esilaranti e di dialoghi brillanti. Ottima la caratterizzazione dei personaggi, tanto che alla fine, durante i titoli di coda, vengono proposti i "ciak sbagliati", come se si fosse girato un film con attori veri. Sicuramente un film d'animazione ben riuscito, affascinante e divertente anche per un pubblico adulto.
Torna l'Olocausto, e per mano di un "autore". Pareva che Spielberg avesse detto l'ultima parola, invece ecco una storia sul ghetto di Varsavia. Siamo nel '38. Comincia a stringersi la tenaglia nazista che produrrà le prime limitazioni per gli Ebrei: prima leggere -la stella di Davide cucita sul braccio- poi pesanti, poi intollerabili, poi mortali. Fino alla decimazione. Wladyslaw, giovane, talentoso pianista, sta suonando Chopin per una registrazione radiofonica proprio mentre arriva la notizia dell'invasione nazista della Polonia. Il giovane assiste all'orribile spirale: tutta la famiglia deportata e poi le condizioni del ghetto: bambini che muoiono di fame, gente uccisa per nulla, e una piccola parte di ebrei che tradiscono per sopravvivere. Alla fine Wladyslaw è di nuovo al piano, proprio come all'inizio. Ma naturalmente l'esperienza lo ha devastato. Niente, neppure Chopin sarà più come prima. Il film ha vinto la Palma d'oro al festival di Cannes 2002. Molti hanno disapprovato.
Opera di carta dei britannici Alan Moore, alla scrittura, e Dave Gibbons, al disegno, il graphic novel Watchmen, al momento della sortita, riscrive le regole dell'universo di appartenenza, quello dei supereroi. I giustizieri che vivono nell'epoca della terza candidatura di Nixon e della vittoria americana in Vietnam non hanno superpoteri - con l'eccezione dell'iperbolico Manhattan - sono sporchi di malefatte, zavorrati dalle nevrosi e corteggiati dal delirio, sia esso di onnipotenza o di indifferenza. Si muovono dentro colori acidi, pagine di letteratura, echi di Shelley, Dylan, Giobbe, Einstein e Jung.
La trasposizione cinematografica di Zack Snyder, fedelissima là dove il concetto di tradimento non calcola l'omissione (necessaria), vibra di devota passione al modello, sboccia con dei titoli di testa che non possono non dirsi incantevoli e resta in fiore per una buona metà del tempo, senza mai veramente accasciarsi ma appassendo naturalmente verso l'epilogo, luogo della resa dei conti col fumetto.
Snyder non è regista di sottigliezze e basso profilo e non indossa guanti bianchi. La sua mano è pesante, non conosce astrazione; smargiasso, fa un frullato di alcuni delle migliori canzoni di fine millennio e le usa a commento, letterale didascalia; ringiovanisce, abbellisce, insomma ridisegna, pur conservando le immagini più eloquenti e in buona parte il piacere del testo. L'universo simbolico e l'aspirazione alla rottura evaporano e quel che resta è una buona pellicola superomistica.
Watchmen film è ciò che Snyder ha visto nelle tavole di Moore, la sua personale interpretazione delle macchie di Rorschach, giusta o ingiusta non è lecito dire; l'ultima parola, l'arma letale - avverte il film - è un telecomando. Certo il test è superato, il dogma dell'infattibilità smentito e gli "uomini straordinari" di leggendaria sfortuna cinematografica risarciti e sostituiti da una corte di ben più appassionati e appassionanti guardiani da guardare.
New Moon, il secondo capitolo della saga di Twilight, scosta le tende del sipario e la rivela per quel che realmente è, ovvero una rappresentazione dell'amore romantico, l'allestimento di una fiaba, dove Bella è l'eroina contesa e in pericolo costante, Edward il principe vittima di un crudele incantesimo e il "per sempre" è il finale scritto in partenza, non in uno ma in multipli modi. Passando per il richiamo esplicito a "Romeo e Giulietta" e approdando alla scenografia trionfale e al costume della sequenza presso i Volturi, all'interno della "ricostruzione" per la festa di S. Marco, Chris Weitz anziché abbigliarla di fatto spoglia la saga di Twilight delle sue coperture (il college-movie, il "mistery") e ne espone lo scheletro.
Resta l'idea di utilizzare la metafora del mostro per parlare di quei sentimenti umani la cui intensità supera la razionalità (l'utopia di un amore che possa proteggere dal male, per esempio) ma non è cosa nuova e meno che mai espressa in modo nuovo. A poco serve, dunque, ribaltare i ruoli e dipingere un Edward flemmatico e sacrificale, conciato da Cristo morto (e quanti riferimenti a inferno e paradiso...), e una Bella assetata di adrenalina che si cimenta a più riprese nella morte per finta, quasi fossero le prove generali (di nuovo: lo spettacolo) della trasformazione che le toglierà (forse) la vita ma le negherà ugualmente la morte.
Non sono certo i dialoghi, infine, a scongiurare la noia. Si ripetono in circolo (vizioso) i versi universalmente noti del sentimento amoroso, senza ricerca alcuna del particolare, dello scarto: Weitz si appoggia al lascito della Hardwicke per quel che concerne l'impianto visivo generale, alla fantasy(a) della Meyer per la sostanza del racconto, al puritanesimo che veglia sull'intera operazione narrativa e produttiva; poi, là dove non ha voce, stende un tappeto sonoro continuo e adotta un'estetica da videoclip che, però, è ripiego, scorciatoia evidente.
I Volturi puniscono i vampiri che danno spettacolo di sé, ma era quello che chiedevamo di vedere e ci è stato negato.
Per quanto nella prima metà il film sia inferiore alle aspettative, nella seconda parte offre trovate spettacolari e ironiche.
Tratto dal romanzo "L'uomo senza volto" di Robert Ludlum,The Bourne Identity convince a metà. L'idea alla base dell'operazione - resuscitare il film di spionaggio "adulto" in voga nei '70 - è intrigante. Purtroppo la resurrezione si limita alla confezione. La concitazione di regia e montaggio mette capo a una suspence piuttosto modesta, con qualche sequenza notevole (una per tutte, l'inseguimento automobilistico in Mini per le strade di Parigi) che non riesce però a costituirsi in racconto. Professionalmente ineccepibile, ma niente di più.
Più che un prequel de _"La carica dei 101"_, il nuovo film Disney è un reboot del personaggio di Crudelia De Mon (o Cruella De Vil) ripensato come una psicotica dark lady.
Le origini di una delle villain più celebri del cinema di animazione somigliano molto a quelle di una classica principessa. Bambina sfortunata ma brillante, rimasta orfana ad opera di una avida nobildonna, trattata male praticamente da tutti con amici solo un bastardino e delle piccole canaglie, avrà la sua rivalsa non con l'aiuto di un principe azzurro ma grazie al suo disturbo dissociativo che la porterà a compiere la sua vendetta. Non tanto crudele a dire il vero.
Interpretato dalle due Emma più famose di Hollywood (la **Stone** e la **Thompson**), "Crudelia" è un film Disney molto atipico.
Musicale quanto basta senza diventare un musical, con classici rock degli anni '70 e '80 in tutte le scene chiave, il film si aggiudica sin d'ora la nomination agli Oscar per i costumi che sono senz'altro l'elemento migliore.
Per il resto, trama, ritmo e recitazione, siamo a livelli buoni mentre gli effetti speciali non eccelsi lasciano un po' sgomenti visto che si tratta di un film Disney destinato alla proiezione in sala.
Disney riesce comunque ad uscire fuori dal cliché della favola meglio di quanto non sia stato fatto con _Maleficent _e sicuramente in maniera più interessante delle altre due umanizzazioni di Crudelia con **Gleen Close **(qui tra i produttori associati assieme alla Stone).
Molto ben caratterizzati i due "scagnozzi" della De Mon, Gaspare e Orazio, molto simili agli originali animati ma meno goffi e macchiettistici, interpretati da attori di livello come **Joel Fry** (visto in _Yesterday _di **Danny Boyle**) e **Paul Walter Hauser** (splendido protagonista di _Richard Jewell_ di **Clint Eastwood**).
Il film è ancora in programmazione nelle sale ma già disponibile per lo streaming su Disney+.
Una curiosità: nella distribuzione italiana il titolo è Crudelia, come nella versione a cartoni del 1961, ma nel film il personaggio è sempre chiamato con l'originale Cruella De Vil.
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Le licenze dell'adattamento sono tante ma sono necessarie semplificazioni di una trama che sulla carta si dipana da quasi 50 anni. Purtroppo la complessità e il fascino di un villain del calibro di Victor Von Doom ne risentono fortemente, ma a guadagnare sono la scorrevolezza e la coerenza interna, arabescate da uno spirito di fondo tutto sommato fedele all'originale e da un'ironia genuina che attraversa tutto il film. Come i fumetti di una volta.
De Il Codice da Vinci si è detto e scritto a dismisura tanto da costruire un'attesa per il film decisamente al di là delle sue qualità. Ron Howard è un regista che ci ha offerto film interessanti come A Beautiful mind e Cinderella Man, ma oggi si presenta nei panni di un narratore di cinema di genere che ritma la sua caccia al tesoro con qualche lampo di violenza di troppo. Avrebbe potuto lavorare su quello che il romanzo offriva di interessante, come ad esempio la tensione verso un ruolo maggiore della donna nella Chiesa, invece si limita a seguire il plot di base. Le falsificazioni storiche di Dan Brown vengono collocate in flashback virati e tremolanti che sanno molto di posticcio, mentre i due protagonisti procedono di casella in casella come nel gioco dell'oca.
I credenti avevano motivo di temere questo film perché nel romanzo la tensione narrativa è sostenuta con una scrittura da autore di best seller consumato e se è vero come è vero che il cinema raggiunge masse che non hanno mai letto un libro in vita loro le ansie sono giustificate. Ma, come è scritto a premessa del libro, la storia è opera di fantasia: personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sullo schermo tutto ciò diventa assolutamente evidente. Tra il caveau di una banca e la cripta di una chiesa antica, mentre si descrivono i prelati come avrebbe potuto farlo un anticlericale romagnolo del secolo scorso, si dipana un thriller di discreta fattura con influssi di road movie. Ma davvero nulla di più.
Arriva dalla Nuova Zelanda il film che riesce a fondere tutte le principali innovazioni portate nel linguaggio del cinema negli ultimi 10 anni e spingerle ancora un po' più avanti in un film dal rigore morale più che di ferro. E viene da un regista che prima di essere tale è un tecnico degli effetti visivi, uno che i ritocchi digitali li considera parte integrante di un film, un mezzo e non un punto d'arrivo.
District 9 si presenta con una metafora lineare: gli alieni come gli immigrati, le creature da un altro pianeta a Johannesburg sono come le creature da un altro paese nel resto del mondo. E per fare questo non esita a dare vita a personaggio digitali che siano il più rivoltante possibile che generino anche nello spettatore immediata repulsione. Ma questa metafora è solo un primo inganno poichè, a furia di spingerla in avanti e di arrivare alla estreme conseguenze in un film che è un documentario di fantascienza, l'esordiente Blomkamp rende chiaro ad un certo punto come, nell'ottica allegorica, noi (spettatori) non siamo gli umani del film ma gli alieni. L'immedesimazione è tutta con le creature immigrate, i ruoli positivi esistono solo tra quei personaggi mentre gli uomini sono in tutto e per tutto "il nemico". Ecco perchè le creature orrende e rivoltanti solo ad un certo punto rivelano degli occhi grandi, umani e colmi di tristezza.
Ma oltre ad un rigore politico e morale eccezionale Blomkamp (e l'entourage che con lui ha realizzato il film, quindi anche il produttore Peter Jackson) mostra di aver compreso fino in fondo che percorso abbia compiuto il cinema in questi anni e dove stia andando. District 9 fonde un finto documentario, riprese con camera a mano e frenetici cambi di ritmo come si trattasse di un combat film, allinea sequenze che mischiano senza una logica extra-filmica inquadrature tradizionali con punti di vista di videocamere a circuito chiuso o amatoriali fino a giungere ad uno stile che non si cura di dare una gerarchia tra le forme di produzione audiovisuali. Le videocamere amatoriali come quelle professionali, i telefonini come le videocamere di sicurezza, tutto già contribuisce al racconto della realtà moderna che il cinema se ne accorga o meno. In District 9 questo modo di vedere e far vedere le cose diventa stile e al tempo stesso accettazione del fatto che la macchina da presa classica non è più al centro del linguaggio audiovisuale.
A dimostrazione di quanto l'idea di parlare di un'umanità disumana di fronte agli alieni fosse un'esigenza di Neill Blomkamp c'è Alive in Joburg, cortometraggio realizzato dal regista nel 2005 che visto oggi sembra una prova generale per District 9.
Uno dei film più attesi degli ultimi anni dagli amanti del cinema di genere e dai curiosi o appassionati di cinema dell'Asia, Snowpiercer, il più costoso film mai prodotto in Corea, è il raro caso di un'opera d'autore di grandi ambizioni commerciali che non immola la visione del suo regista sull'altare del successo di botteghino. In tal senso, per Bong Joon-ho, regista d'immenso talento, funambolo capace di tenersi in equilibrio tra cinema popolare e rilettura critica, caustica o giocosa del genere, si tratta di una riuscita epocale. Quali che siano gli esiti del box office sul mercato internazionale, Bong ha portato sullo schermo il suo classico di fantascienza, che non è solo un'efficace opera di intrattenimento (seppure saldamente collocata all'estremo oscuro dello spettro dell'intrattenimento), ma anche una profonda riflessione filosofica sulla natura dell'uomo e le sorti dell'umanità, cupa e inquietante, disperata e appropriatamente raggelante, ma al contempo venata - come sempre in Bong - di sapida ironia e aperta, nel finale ad un abbacinante raggio di speranza.
Siamo insomma di fronte ad un cinema profetico che nell'immediato molti probabilmente rifiuteranno, ma che lascerà il segno, come negli ultimi decenni Blade Runner, Brazil, Strange Days o The Matrix. Nel treno-mondo di Bong, costruito in scenografie geniali (di Ondrei Nekvasil) e intriso di oscurità e luci cangianti (magistrale fotografia di Hong Kyung-pyo), s'incontra oltretutto un vero melting pot che riflette inevitabilmente (e sanamente) la prospettiva non-occidentale dell'autore.
E quindi, a fianco di un intensissimo Chris Evans, di un irrequieto Jamie Bell e un ineccepibile John Hurt, troviamo l'ineffabile Song Kang-ho e l'inattesa Go Ah-sung, nonché un'inarrestabile Octavia Spencer. Su tutti troneggia però Tilda Swinton, crudele, robotica e ironica; c'è da scommettere che il personaggio di Mason le rimarrà cucito nella memoria collettiva ad vitam. E c'è pure da sperare che Snowpiercer di Bong attraversi imperterrito gli esiti critici e commerciali presenti, lasciando la traccia imperitura dell'autentico capolavoro.
Into the wild è la libera trasposizione del libro di Jon Krakauer "Nelle terre estreme" diventato un classico della sottocultura urbana. Dalla lettura del libro, Sean Penn ha dovuto aspettare ben dieci anni prima di ottenere i diritti. Questa incredibile pazienza testimonia una testarda sensibilità che è unica nel panorama cinematografico di oggi.
Sono due gli elementi che hanno guidato Penn nel doppio binario della regia e della sceneggiatura. Il tema della fuga ma soprattutto quello dell'inseguimento di un qualcosa che faciliti la conoscenza di sé.
Pura celebrazione della libertà e della ricerca della libertà, la pellicola racconta la vera storia di Christopher McCandless, un giovane benestante che rinuncia a tutte le sue sicurezze materiali per immergersi all'interno della natura selvaggia. Il forte trasformismo di Emile Hirsh facilita per lo spettatore un'istantanea immedesimazione in una figura tormentata che non viene dipinta né come giovane avventuriero né come idealista ingenuo. La maestria con cui Penn miscela tematiche così diverse e complesse è unica. Il fascino della selvatichezza dell'ambiente, le difficoltà dei legami di sangue, l'individualismo contro il bisogno di amore e le contraddizioni dell'idealismo nelle sue spinte critiche ma anche arroganti.
Il film ha una valenza politica nonostante questo non sia l'intento di base. Alle volte, si trasforma in un vero e proprio atto di fede il cui credo fugge da tutto ciò che è religioso in senso stretto per trovare sfogo in una dimensione che è solo e unicamente personale. Tutti le persone che Chris incontrerà lungo il suo peregrinare oltre a colmare un vuoto familiare, fonte di profonde sofferenze, amplificano l'idea di un percorso a stadi funzionale a liberarsi da qualsiasi dipendenza da ogni tipo di comfort e privilegio. L'acquisizione della saggezza avviene quasi per osmosi attaverso la spontaneità e la profondità degli incontri fatti.
Ancora più maturo e disinvolto nel lavoro registico, Penn gioca di forti contrasti nell'alternare gli ampi spazi dei diversi paesaggi mostrati al costante senso di vuoto del ragazzo che risulta essere una pura estensione dell'enormità della natura.
Fedele al proprio titolo, Dragon Trainer 2 continua, sulle orme del primo, imbastendo un'altra storia di animalismo e superamento delle diffidenze come allegoria del superamento dei preconcetti verso gli esseri umani.
Questa volta con molta più enfasi e meno metafora sono infatti apertamente i ragazzi a guadagnare il rispetto (là dove nel primo film erano i draghi nei confronti delle persone e i figli sui padri). Sono i bambini e i più giovani gli unici in grado di salvare tutti e possono farlo proprio in virtù delle qualità precipue di disobbedienza e pensiero autonomo proprie della loro età.
Senza l'apporto fondamentale di Chris Sanders, rimane a dirigere e scrivere (o meglio adattare dalle storie di Cressida Cowell) il solo Dean DeBlois, da sempre sodale del maestro Sanders e con lui co-autore di piccoli capolavori di originalità prodotti tra le maglie del colosso dell'ordinario Disney come Lilo & Stitch, Mulan, nonchè del precedente Dragon Trainer. Il passaggio non è indolore però, Dragon Trainer 2 infatti è decisamente più convenzionale di quanto non fosse il primo (solo fintamente classico e decisamente più audace nelle sue scelte, non ultima la mutilazione del protagonista) ma riesce a centrare tutte le scene madre.
Come se si concentrasse unicamente nello sforzo di realizzare al meglio possibile lo svolgimento più tradizionale questo secondo Dragon Trainer non è un campione di pensiero divergente come i protagonisti che esalta ma più un buon soldato agli ordini del proprio padrone (come i villain che condanna). Esalta, quando gli eroi cavalcano verso la vittoria, e intimorisce nel metterli in difficoltà. Tuttavia, dal precedente film, eredita alcuni personaggi strani e peculiari come gli amici del protagonista ma li rende innocui, ammortizza la portata del fabbro-spalla comica e nella miglior tradizione entro la fine del film riesce ad accoppiare tutti i draghi ad un padrone (una delle più fastidiose leggi della buona forma a cui il cinema contemporaneo ha deciso di obbedire), in perfetto accordo con la legge di La carica dei 101, per la quale ad ogni padrone corrisponde un animale che gli somigli.
Anche la rinnovata presenza di Roger Deakins come consulente visivo, solo a tratti, sembra in grado di fare la differenza. Il geniale direttore della fotografia dei fratelli Coen (probabilmente il migliore in attività oggi ad Hollywood) aveva contribuito a dare a molti punti del primo film un impatto estetico solitamente sconosciuto all'animazione, sfruttando il bello per ottenere il sentimentale. In questo film accade (e a tratti) solo il primo effetto, tra le nuvole e nel fumo Dragon Trainer 2 conquista più di un'immagine affascinante (e debitrice a Miyazaki specie nella comparsa del nuovo personaggio), ma non c'è nessun lavoro di sponda con gli eventi o i personaggi. Bello e fine a se stesso.
Il vecchio, ma ancora funzionante, disco volante sarà lo strumento della riscossa. Il 4 luglio l'umanità celebra la vittoria. Gli spettacolari effetti speciali rimediano alle ingenuità di un soggetto che, nelle linee essenziali, è molto simile a quello di un film in bianco e nero del 1956, La Terra contro i dischi volanti. Le sequenze della smisurata astronave che invade il cielo e ricopre la città, e la distruzione della Casa Bianca annunciano fin dall'inizio un film ricco di emozioni visive, e il riferimento al "Dossier Roswell" - con un'implicita nota polemica alla politica dei segreti di Stato - conferiscono un tono di attualità alla storia. Concepito come un super-kolossal, il racconto sacrifica necessariamente i personaggi presentandoli come stereotipi di eroi che entrano ed escono di scena come pedine sacrificate o vincenti di una battaglia impostata al più acceso fervore patriottico. Tra gli interpreti oltre ai due divi Goldblum (Levinson) e Smith (il capitano Hiller), figurano attori con lunga frequentazione del genere: Pullman (il presidente), Loggia (il comandante Grey) e Brent Spiner (il dottor Okun) già celebre androide Data di Star Trek - Generazioni, solo per citarne alcuni. Costato 70 milioni di dollari, realizzato con più di 3.000 effetti speciali, applaudito da Bill Clinton in persona, Independence Day ha riscosso un grande successo di pubblico ...e suscitato non poche critiche: critiche rivolte non tanto all'aspetto formale della pellicola (che pure ha fatto la gioia di qualche instancabile cacciatore di errori) quanto ai possibili sottintesi messaggi politici che racchiuderebbe. Uscito a cavallo del cinquantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale e in occasione della ricorrenza del 4 luglio, il film, secondo alcuni, glorifica la coesione e la forza del popolo americano in un momento in cui l'America è impegnata, dopo la guerra del Golfo, nella missione di gendarme del mondo. L'attacco a Washington - non a caso eletta a capitale della Terra - configurerebbe in un'ottica liberatoria lo scotto per gli errori del passato, dall'onta dell'atomica sul Giappone alla guerra in Corea e in Vietnam. Ma l'equivalenza tra vittoria e spirito di iniziativa del singolo individuo (non importa se pilota o scienziato, ma meglio ancora se presidente) ribadirebbe la validità di una mitologia di frontiera sulla quale sono cresciute e crescono generazioni di americani.