C'è qualcosa di misterioso e affascinante nel primo terzo di Hancock: malinconia e stupore si allargano silenziosi nelle inquadrature a scoprire una Los Angeles assediata dalla malavita e un supereroe clochard abbandonato su una panchina. John Hancock, supereroe col vizio dell'alcol e dell'esagerazione, non ha il passato "narrativo" degli eroi (s)mascherati della cultura popolare americana (i comics). È il primo eroe di un fumetto che non uscirà mai. È la prima avventura di un supereroe che non ha mai praticato le strisce e non si è mai espresso in "nuvole". Hancock nasce al cinema. Eppure c'è qualcosa di comune, primordiale e riconoscibile tra l'unbreakable di Will Smith e gli altri supereroi. Sono uomini al di sopra di altri uomini, i cui eccezionali poteri diventano allo stesso tempo un dono e una maledizione, lo strumento di una missione divina e la fonte di un'angoscia infinita. Superman è un bambino abbandonato dai genitori su un pianeta sconosciuto, Spiderman acquisisce accidentalmente i suoi superpoteri senza potersene mai più liberare, gli X- Men vivono isolati a causa delle loro mutazioni, Hulk si trasforma in supereroe attraverso frequenti crisi "epilettiche" e Hancock nasce con un grande potere e due biglietti per il Frankenstein ammogliato di Boris Karloff.
Il sospetto del meraviglioso nello squallore della propria vita e l'evento straordinario in un contesto ordinario sono i temi più interessanti del melodrammasupereroico di Peter Berg, che nei rimanenti due terzi atterra rovinosamente come il supereroe sulla Città degli Angeli. Hancock diventa improvvisamente un altro film e poi un altro ancora, perdendo l'equilibrio narrativo fino a non riuscire più a rialzarsi. Tra agnizioni (la scoperta della sua vera identità) e patimenti "crepacuore" (l'amore ritrovato e perduto), la storia di Hancock si fa elementare e cede il passo ad uno stucchevole sentimentalismo: una "principessa" da salvare, che in virtù dei tempi che corrono non si limita a chiamare aiuto ma partecipa attivamente e (super)eroicamente all'azione. Un action minestrone dove il fracasso delle esplosioni e il contorno della vicenda (incarnato da Charlize Theron) diventano le sole cose fondamentali. E il super Hancock-Smith si adegua.
Rispetto al primo guadagna in ritmo, azione, aggressione visiva e sonora quel che perde in astrazione e interiorità. Il duello finale, giustamente famoso, dà nel mitico attraverso una grafica che rimanda ai cartoon giapponesi dell'horror. Oscar agli effetti speciali visivi (dovuto a 4 tecnici) e 3 nomine: S. Weaver, musica (James Horner) e montaggio (Ray Lovejoy, già collaboratore di S. Kubrick per 2001: Odissea nello spazio, 1968, e Shining, 1980).
Prodotto natalizio della stagione '98-99 della Walt Disney, è una miscela di avventura, azione, comicità e sentimento. Combina felicemente il disegno animato tradizionale con interventi di animazione computerizzata, per le scene più complesse. Una favola per tutte le età con un bel personaggio femminile, più moderno, più ricco di sfumature e meno legato ai cliché di mielosa femminilità di film precedenti.
Se il primo spin-off dedicato a Wolverine aveva puntato tutto su un concentrato d'azione e fisicità, cioè sulla storia di come ad un certo punto del suo oscuro passato il corpo di carne e adamantio dell'x-man sia diventato tale, questo secondo punta sulla sua anima e sul suo potere originale, quello che il gene mutante gli ha donato, ovvero il fattore rigenerante che rimargina le ferite, cura ogni male, previene l'insorgere delle rughe e impedisce di morire.
Dunque là dove la troupe capitanata da Gavin Hood aveva puntato sulla forza, quella al servizio di James Mangold punta sullo struggimento, forse sulla carta la chiave migliore per capire il personaggio di un uomo più vicino allo stadio animale che a quello dei sapiens, innamorato senza speranza del suo opposto, una donna dai modi angelici e dal cuore impegnato che è stato costretto ad uccidere (in X-Men - Conflitto finale).
Lontano dal branco Wolverine diventa sempre più Logan, si risveglia di continuo da incubi che paiono sogni idilliaci in cui la sua amatissima Jean lo ossessiona rinfacciandogli con grazia di averla uccisa e sembra voler andare a capire le origini di una vita violenta. Purtroppo questa è solo la prima parte del film, una serie di spunti che Wolverine - L'immortale lascia cadere uno dopo l'altro al proseguire della storia, sostituiti da un'azione né carne né pesce, mai audace perché attenta a non mostrare sangue per non perdere il divieto solo ai minori di 13 anni e mai davvero romantica, come la premessa lasciava intuire, ma anzi spesso derivativa (l'autochirurgia e il tema dell'anziano magnate in cerca di giovinezza ricordano Prometheus) grossolana (nemmeno l'idea di levargli temporaneamente il fattore rigenerante è sfruttata a fondo), spaccona e priva di gusto.
La pecca più grossa di questo adattamento del ciclo di storie ambientate in Giappone scritte e disegnate da Chris Claremont e Frank Miller è infatti la mancanza di scelte nette e decisioni audaci. Wolverine - L'immortale manca di polso, sembra voler essere innocuo e generico, buono per tutti e quindi speciale per nessuno, addirittura rifiuta pure di ricalcare lo stile visivo dei fumetti d'origine. In questa maniera la scelta del Giappone come location diventa una come un'altra, foriera solo di luoghi comuni (la sequenza sul bullet train suonerebbe stonata anche in una parodia) e non di quell'unione tra suggestioni pittoriche differenti. Pure il grande attacco finale nel villaggio, che sembra cercare geometrie da wuxia-pan attraverso un groviglio di cavi o anche solo un confronto filmico potenzialmente impressionante tra il corpo pesante e gigantesco (quindi occidentale per definizione) di Jackman e i mille fisici esili e scattanti dei ninja (orientali per definizione), si risolve in una sequenza incolore.
Solo la tangibile determinazione con cui Hugh Jackman veste i panni del protagonista (per la quarta volta), la profonda comprensione del personaggio e la caparbietà con la quale piega qualsiasi usuale banalità gli venga sottoposta fino a trovare anche solo una scintilla di coerenza, mantengono in piedi un film che sulle spalle di chiunque altro sarebbe crollato dopo mezz'ora.
In una serie che non è solo la messa in scena di imprese mirabolanti (vedi "I fantastici 4") ma che vuole anche provare a interrogarsi su un tema importante come quello della diversità dosare effetti e psicologie è fondamentale. Ratner e i suoi collaboratori ci sono riusciti. Con il rischio di deludere un po' i fanatici dell'azione per l'azione ma con la certezza di mettere in moto i neuroni di chi cerca l'entertainment intelligente."X-Men: Conflitto finale" lo è. Se poi volete vedere in faccia chi ha inventato questi e numerosi altri personaggi che dalle pagine dei fumetti sono poi passati sul grande schermo osservate con attenzione la sequenza iniziale. L'anziano signore con in mano la pompa dell'acqua è 'Mister Marvel' ovvero Stan Lee. Che ha l'aria di divertirsi ancora tantissimo.
Il diritto di contare mette in scena efficacemente il razzismo e il sessismo ordinario dei bianchi, concentrandosi sui drammi silenziosi che muovono la Storia in avanti. Suscettibile di incontrare il favore di un largo pubblico, Melfi sa bene quando spingere l'emotività dislocando lo sguardo sul romance di Katherine e James, Il diritto di contare segue la storia dell'esplorazione spaziale americana attraverso lo sguardo di tre eroine intelligenti e ostinate che hanno cambiato alla loro maniera il mondo. Hanno doppiato la 'linea del colore', inviato John Glenn in orbita e Neil Armstrong sulla Luna.
Ancora una volta il cinema di animazione ad alto livello infrange la regola del numero 2, che nei film con gli attori "veri" trova spesso una conferma. Il secondo episodio di L'Era glaciale è, se non addirittura superiore, certamente pari al primo. Per ritmo, per gag che sfiorano l'assurdo, anche per siparietti musicali (imperdibili in materia gli avvoltoi) mai leziosi e sempre al passo con la narrazione. Chi legge però si chiederà: che fine ha fatto Scrat in tutto questo? C'è, non preoccupatevi. Apre il film e ci accompagna con la sua caccia alla ghianda molto più presente che nell'episodio numero 1. Gli sceneggiatori e gli animatori non si sono risparmiati neppure sulle caratterizzazioni dei nuovi personaggi. Godibilissimi, tra gli altri, gli iperprotettivi "'fratelli" opossum di Ellie.
Il genio ha colpito ancora. Dopo più di vent'anni di carriera c'è veramente da togliersi il cappello davanti ad uomo, prima ancora che regista, capace come nessuno mai prima nel campo del cinema d'animazione (e non solo) di riuscire a centrare sempre e comunque l'obbiettivo che ogni cineasta dovrebbe avere come scopo unico: emozionare. E di emozioni, l'ultima opera di Hayao Miyazaki, ne offre veramente a bizzeffe. Howl's Moving Castle, è un ulteriore tassello, nel mosaico che il regista giapponese sta componendo col passare degli anni che mescola l'attenzione alle tematiche ambientali, all'utilizzo malsano della tecnologia, che propone esseri umani calati in universi fantastici ed immaginari, dove creature soprannaturali insegnano all'uomo come vivere e quali valori seguire e difendere.
Tra realtà dell'immagine e metafore, il film si dipana lentamente, offrendo la abituale ma sempre fenomenale panoramica sui paesaggi e personaggi da sogno (il film realizzato in maniera tradizionale è visivamente impressionante), nei quali la fantasia di Miyazaki e di Joe Hisashi, autore della colonna sonora, si sbizzarriscono raggiungendo vette se possibile ancora più elevate che nel premiato Spirited Away (La città incantata). Attuale e concettualmente scevro da contaminazioni ideologiche di qualsivoglia natura, Howl,riesce ad essere pellicola antimilitarista, raffinato melò sentimentale, grande spettacolo di intrattenimento per tutti ed, in ultimo, saggio ammonimento sull'importanza delle relazioni interpersonali tra gli esseri umani. Venezia s'inchina. E noi altrettanto.
Le serie televisive, come si sa, sono concepite in modo tale da poter passare di mano in mano (leggi: di regista in regista) senza che i non addetti ai lavori si accorgano di nulla. La standardizzazione è la regola di base a cui tutti si debbono attenere. Sul grande schermo fortunatamente le cose procedono diversamente. Siamo ormai alla quarta Mission Impossible e ogni volta abbiamo assistito a una conferma della continuità unita però a un'incessante variazione di stile. Brian De Palma, che aveva curato l'esordio, non aveva rinunciato al suo gusto per la ricerca stilistica e la citazione raffinata mentre John Woo aveva dato sfogo alla passione per l'esasperazione di ogni singolo dettaglio. J.J. Abrams aveva raccolto l'eredità cercando di portare alla storia il suo spiccato interesse per una costruzione narrativa in cui l'amato (e ampiamente sperimentato in Lost) flashback entrasse in gioco per strutturare un'emozione che non scaturisse solo dall'azione.È ora il turno di Brad Bird che, lasciati i supereroi in cerca di tranquillità de Gli Incredibili e i fornelli di Ratatouille, affronta attori in carne ed ossa che agiscono però in una dimensione in cui gli spettatori debbono essere disponibili a sospendere la famosa incredulità o disporsi a fare altre scelte. Perché Ethan Hunt sopravvive ancora a qualsiasi percossa e caduta (con un po' di dolore a una gamba e nulla più) come da contratto ma, pur aderendo a questa dimensione, Bird non rinuncia a percorrere la strada esplorata da Abrams.
Cerca cioè di umanizzare l'"incredibile" agente offrendogli delle occasioni per far emergere emozioni che vadano al di là della pura action in escalation (che ovviamente non manca). Se allo 007 di Daniel Craig si concedeva un 'passato' ora quello di Ethan Hunt viene letto sotto una nuova luce. Ma, al suo fianco, c'è un gruppo che consente di diversificare anche i diversi livelli dell'azione aggiungendo qualche punta di ironia in più grazie al personaggio interpretato da Simon Pegg. I cattivi? Non mancano e sono proprio cattivi e, come spiega Hunt offrendoci in due battute una lezione di sceneggiatura di genere: "Quando sparano non pensano. Tirano su tutto quello si muove."
The matrix revolutions dimostra una volta di più come un buon - anzi, ottimo -concept possa svilirsi a forza di ripetizioni non richieste, giustificate solo dalla voglia di guadagnare il proverbiale dollaro in più. Non che manchino meraviglie della visione (la seconda parte del film è un autentico trionfo degli effetti speciali), nè che la pellicola non scorra. Il problema è che la serie non ha davvero più nulla da dire, e si risolve in un mero susseguirsi di dialoghi filosofici imbarazzanti per pochezza (l'inizio è da drizzacapelli)e di sequenze d'azione mutuate da una qualunque puntata di Guerre Stellari. Tecnologicamente avanzatissima, certo. Ma anche i non fan si aspettavano senz'altro qualcosa di più. E la minaccia appena adombrata di un ulteriore seguito non lascia tranquilli.
Non dev'essere stato facile né divertente lavorare su questa terza trilogia, dov'è ormai evidente che fin dal principio è mancata una direzione chiara. Anzi si è assistito a tutto il contrario di un progetto organico, con un primo film, Il risveglio della Forza, che era praticamente un remake di Guerre Stellari; un secondo film, Gli ultimi Jedi, che risponde alle critiche di aver prodotto una fotocopia stravolgendo vari elementi della serie; e ora con un terzo capitolo, L'ascesa di Skywalker, che accoglie le ultime critiche dei fan indignati e fa i salti mortali per tornare indietro rispetto all'Episodio precedente.
La fiaba della Bella e della Bestia (riferimenti con la classicità latina a parte) viene per la prima volta stampata in Francia nel 1756 e già nell'anno successivo è tradotta in inglese. Da allora se ne sono moltiplicate le versioni a cui il cinema non è stato estraneo. La più famosa è quella di Jean Cocteau del 1945. La Disney coglie della vicenda tutte le potenzialità che consentono di inserirla in un percorso di eroine rinnovate che dalla Ariel de La sirenetta del 1989 ne avevano marcato la rinascita. Belle è la sorella cinematografica di Pocahontas, di Mulan e della stessa Jasmine di Aladdin. Tutte fanciulle naturalmente interessate a un 'principe' con cui convolare a giuste nozze ma decise e determinate a sfidare situazioni avverse grazie a un carattere ben definito.
La dolce Belle ama un padre che non ha troppo i piedi per terra ma sa dire di no con assoluta fermezza al muscoloso e volgare Gaston desiderato invece dalle altre ragazze del paese. A proposito di questo personaggio va poi rilevato come nei disegni preparatori iniziali del film fosse stato concepito come un cicisbeo pallido e allampanato finendo poi per trasformarsi nel violento e vigliacco razzista in azione nel film. Se la Bestia ha un corpo leonino (e teme più il disinfettante che le ferite) è nella complessità delle sue reazioni che risiede una delle attrattive di un film che continua nella tradizione di fare leva sulle canzoni (non a caso ne è stato tratto un musical di successo in ogni parte del mondo e non solo con un pubblico di bambini) e sui caratteri di contorno.
L'orologio, il candeliere, la teiera e il figlioletto tazzina sono personaggi che conquistano la scena e continuano a farla propria nella memoria degli spettatori di ogni età.
Invisibili o più leggeri dell'aria, dotati di una forza gigantesca o di una bocca vorace, pieni di fuoco o di api, i ragazzi letterari di Ransom Riggs forniscono a Tim Burton il soggetto ideale. Trasposizione del romanzo omonimo, Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali abita un mondo di infanzia eterna, affollato di ragazzini sensibili e lunari a cui mostri invisibili vorrebbero divorare gli occhi. Burton realizza un film ispirato e personale, risalendo il tempo col suo protagonista e pescando di nuovo eroi fuori dal comune e schiusi alla vita da adulti illuminati. Vecchi folli, mentori immortali, padri mitomani, nonni affabulatori che raccontano una vita sognata. Ma poi sognata lo è davvero? Interpretato da Terence Stamp, che come Vincent Price, Martin Landau e Albert Finney è attore di prestigio e portatore di un immaginario cinematografico fantasmagorico, Abraham Portman alimenta la fantasia del nipote lasciando emergere la poesia del diverso. E Jacob cresce diverso, pieno dell'unica luce che possiamo sperare di ricevere, il bagliore dello stupore e la volontà di crederci.
Jacob, alla maniera di Alice, è curioso fin dalla soglia e per questo viene precipitato in un loop temporale dove non si tratta più di riavvolgere il tempo per modificare un avvenimento e scampare le conseguenze. A questo giro di anello si agisce con qualcuno o contro qualcosa che arriva dall'esterno. Effetto speciale carico di affetti speciali, il loop è il dono segreto di Miss Peregrine, l'intervallo perpetuo in cui nasconde i suoi orfani e attraverso cui si spiega la favola di Burton, passando dalla nostra epoca a un'altra (situata in un giorno preciso del 1943). Una favola che scongiura il pessimismo storico e giura che la storia non si ripete mai uguale a se stessa, un'avventura che piega il tempo per trasformarlo e moltiplicarne gli esiti. In Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali il loop è un passaggio aperto nella linearità del tempo in cui provano a infilarsi forze malvagie invisibili e ghiotte di vita eterna che derivano il loro potere da un singolare regime alimentare: gli occhi dei bambini.
Tema ricorrente al cinema (Hitchcock, Buñuel, Pasolini), la mutilazione dell'occhio è un attacco diretto allo spettatore, alla sua natura, al posto che occupa e che esige occhi spalancatamente aperti sullo schermo. Burton riprende l'angoscia infantile di perdere gli occhi e come in un racconto di Hoffmann ("L'uomo della sabbia") ne mette in scena il trauma, convertendo la negazione brutale della visione in creazione poetica. Una battaglia finale tra mostri gentili e giganti tentacolari, bersagliati con palle di neve, coriandoli e zucchero filato, che rende finalmente visibili al mondo i cattivi. Cattivi carnivori e senza occhi, invisibili per tutti ad eccezione di Jacob e di Abraham, ragazzo speciale tra ragazzi speciali promessi alla morte durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma il film di Burton non è la metafora edulcorata di quella guerra e del suo olocausto. I ragazzi del titolo, invisibili, leggeri, 'affamati', infiammabili, erculei, vivono un tempo parallelo ancora accessibile dai mostri, che hanno smesso le divise e dissimulato la ferocia dietro la disposizione a cambiare sembianza. Con Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali, Burton ritrova il cammino dell'infanzia dell'arte, dirigendo uno scontro tra scheletri col cuore e creature senza cuore che omaggia Ray Harryhausen, maestro degli effetti speciali à l'ancienne.
L'immaginario artigianale e poetico dell'autore riprende respiro e disegna un nuovo eroe in viaggio dentro un espediente narrativo, che permette a Jacob di scoprire se stesso e il dono che ignorava e rilancia senza fine la stessa minaccia (una bomba nazista o un hollow famelico), arrestandola quando il peggio sta per arrivare. Serbatoio delle sue ossessioni, l'orfanotrofio di Miss Peregrine è un rifugio, uno spazio in cui condensare il suo stile, un museo espressionista in cui ogni bambino richiama e replica i marginali della sua filmografia. E di nuovo l'accesso è consentito soltanto a persone speciali, quelle che credono che un'altra umanità e un altro mondo siano possibili. "Non c'è più niente da esplorare", osserva il padre di Jacob, ornitologo disincantato ma Jacob scoprirà che ci sono ancora mondi paralleli da esplorare (i loop), dove un uccello può nascondere una paladina intrepida.
Incarnata da Eva Green, bellezza gotica e perturbante, Miss Peregrine è la guardiana del tempo e del tempio, signorina con orologio da tasca e pipa che avrà bisogno di un giovane eroe per trionfare sul male. Un adolescente persuaso di essere normale, che a forza di risalire e discendere il tempo troverà l'amore e una delle dichiarazioni più belle della storia del cinema. Perché come il ladro di Robert Bresson, Jacob ha dovuto fare un giro lunghissimo per raggiungere la sua Emma. Nel Diario di un ladro, il protagonista si rivolgeva a Marika Green, che (sorpresa) è la zia di Eva Green. Un rompicapo temporale misterioso e sospeso quello di Tim Burton, che pratica l'eterno ritorno, inizia alla vita e incontra l'attrice dei suoi sogni nel migliore dei mondi possibili.
Non c’è niente da fare, Tim Burton continua a procedere a strappi. Negli ultimi dieci anni, ovvero da ‘La sposa cadavere’ in poi e con l’eccezione di ‘Frankenweenie’, i suoi film sono diventati colorati, dispendiosi, ma anche – quale più, quale meno – non del tutto riusciti. I risultati meno validi sono venuti dai titoli rivolti espressamente al pubblico più giovane, non si sa se per eccesso di attenzione agli stilemi del genere o per qualche richiesta che non si può rifiutare da parte dei produttori, e perciò poco predisponeva all’ottimismo questo riadattamento (la sceneggiatura di Jane Goldman si prende molte libertà, specie nella seconda parte) del best-seller di Ransom Riggs. Il risultanto è soddisfacente a metà, perché in queste due ore abbondanti, che potevano essere tranquillamente limate, c’è molto Tim Burton, ma poi si svolta all’improvviso verso una conclusione da blockbuster qualsiasi mettendo in scena una lotta tra buoni e cattivi noiosa se non risibile. Il regista di Burbank si vede invece innanzitutto dalla scelta del tema, ovvero quello dell’escluso: il giovane Jake (dai tempi di ‘Hugo Cabret’ Asa Butterfield è cresciuto parecchio) si trova spaesato nella sua Florida, con la mente agitata dalle immagini scaturite dalle inquietanti storie della buonanotte di nonno Abe (Terence Stamp). Quando una psicologa suggerisce ai genitori di far ripercorrere al ragazzo le orme dell’avo, egli finisce in Galles dove ritrova la casa di cui al titolo che vive in una dimensione temporale tutta sua. In essa abitano ragazzini con proprietà straordinarie e Jake, che si ritiene normale, si sente un’altra volta escluso finchè non capirà che la sua presenza è fondamentale per sconfiggere un pericoloso nemico facente parte della categoria ‘traditori della specie’. Nella costruzione di un simile universo, Burton si trova a suo agio con il confronto che stacca il reale dall’immaginario, ma, al contempo, con la separazione fra i due mondi che si rivela estremamente labile, per non parlare poi dell’affettuosa rappresentazione dei ‘ragazzi speciali’ (ma il ‘peculiar’ dell’originale ha un significato più composito) come dei teneri fraks pronti a scherzare con e delle loro stranezze per i quali non si può non simpatizzare. Se nella realtà i colori sono sovente opachi, quelli dell’eterno 1944 in cui vive la casa sono brillanti e ravvivati da un gioioso sole (la forografia è di Bruno Delbonnel): il tono della narrazione resta lieve e le invenzioni visive non mancano – davvero efficaci le scene ambientate nella nave affondata – mentre le citazioni proprie e altrui spuntano qua e là a partire dalla lotta fra gli ‘automi’ di Enoch filmata a passo uno. I riferimenti esterni non spariscono con la l’avvento di Barron e della sua congrega di cattivi (in dirittura d’arrivo c’è pure una scena che fa tanto Titanic’), ma la magia se ne va e lo spettatore segue con un interesse relativo le alterne vicende fra i due schieramenti, con un unico sussulto nella sequenza della ‘resurrezione’ della nave citata poco sopra. Il bilancio altalenante si riflette anche nel cast: se Butterfield è convincente e gli altri ragazzi non sono da meno a partire da Ella Purnell che lo affianca nei panni della volante Emma, gli adulti, con l’eccezione di Stamp nonché, soprattutto, di Eva Green che disegna una Miss Pregrine voltiva e affasciante, lasciano alquanto a desiderare. Se per Judi Dench e Rupert Everett si tratta di piccoli camei, il secondo quasi caricaturale, Samuel L. Jackson risulta sprecato in un ruolo monodimensionale come quello di Barron che altro non gli lascia se non giogioneggiare al limite dell’istrionismo.
La celebre inchiesta di Hercule Poirot, tradotta per lo schermo da Michael Green, costituisce un materiale drammatico irresistibile e insolito per l'autore inglese che sceglie per sé il ruolo principale. Armato di un cast pletorico, Branagh stacca il biglietto e si gioca la corsa. Prendere l'Orient Express, (soprattutto) per lui è come stare a teatro, assistere a un'epoca di formidabili promesse di progresso e di libertà. Quando il treno raccordava luoghi lontani, comprimeva il tempo, dilatava lo spazio, riconfigurava le città e avvicinava gli uomini. Ma l'Orient Express non assunse mai veramente quel ruolo.
Macchina per produrre miti, dove l'Occidente trovava il suo altrove e il suo doppio esotico, fu un treno antimoderno alla ricerca di un Oriente mitico e immaginario. La destinazione era importante ma la prima tappa del viaggio e la sua quintessenza erano il treno stesso. L'anima dell'avventura, la sua ragione d'essere. Sorgente d'ispirazione infinita e luogo propizio alla seduzione, allo spionaggio e naturalmente all'omicidio, il treno blu e oro di Branagh deraglia nella neve, giocando con le possibilità e la poca libertà che può prendersi. Ribadendo ma insieme aggirando la costrizione che impone un treno coi suoi scompartimenti e i suoi corridoi stretti, l'autore scommette sul fuori campo, filmando dall'alto, dal basso, dall'esterno. Il piano sequenza in stazione ad esempio mostra Hercule Poirot attraversare il vagone senza interruzione fino alla sua cabina, rivelando col suo movimento e la sua durata la contiguità dello spazio.
Point Break, dieci anni dopo. I giovani californiani ribelli danno espressione alla loro volontà di potenza non più sulle tavole da surf e tramite rapine a mano armata, ma a bordo di macchine da corsa truccate con cui disputano gare illegali e compiono saccheggi lanciati a tutta velocità. Per il resto, poco è cambiato, o meglio tutto. La storia del giovane poliziotto infiltrato che subisce il fascino del carismatico fuorilegge libertario, mostra come anche quando la partitura resta la stessa possa cambiare la musica. Sullo stesso scheletro narrativo di Point Break, Fast & Furious mostra nuova pelle e nuovi muscoli, molto più abbronzati e anabolizzati per assecondare le tendenze estetiche e i bioritmi adrenalinici dell'action negli anni Duemila. Rispetto al film della Bigelow, l'involuzione è evidente: svanisce completamente l'istinto di vita audace e temerario del personaggio di Patrick Swayze, così come la profondità del rapporto di fascinazione che lo lega a Keanu Reeves, a tutto vantaggio delle pulsioni ormonali, del desiderio primario di frenesia e concitazione delle sequenze d'azione. Al suo film-modello, Fast & Furious riserva lo stesso trattamento di restauro e modernizzazione che applica alle auto esibite: esemplari di macchine sportive più o meno recenti sottoposti al fulgore delle vernici metallizzate che tutto riflettono e alimentate da esplosioni di Nos che coprono ogni altro suono possibile. All'interno di questo regime del riciclo, quel che va perduto in attrazione superomistica dei surfisti-filosofi, viene compensato da qualche nozione di meccanica, un gergo di strada e continui movimenti di macchina che scivolano agili fra automobili in corsa e pugni sferrati. Così, più veloce che furioso, ed emanando più odore di gas che di gomma bruciata, il film scorre rapido e spedito senza prendere né rischi né curve troppo strette, come pilotato da un abile stuntman quale dimostra di essere il regista Rob Cohen, esperto in B-movie di riciclaggio estremo (Dragonheart; Daylight).
Con Fast & Furious ha la prontezza di cogliere un momento in cui la personalizzazione di motori e carenature diviene una pratica di esibizione di forza, al pari di muscoli e tatuaggi, e di saperne valorizzare l'aspetto spettacolare, adrenalinico, fracassone. Ci sono dentro tutti gli elementi di una cultura hip hop, che per quanto esteticamente rozza ed eticamente discutibile, possiede un suo ritmo e un certo spirito gaudente. D'altronde, come cantano gli Articolo 31, "il tamarro è sempre in voga perché non è di moda mai".
Il secondo film tratto dalla serie di romanzi di Veronica Roth cambia buona parte della troupe inclusi regista e sceneggiatori e ripete molto di quanto già visto in Divergent, ovvero lo scontro tra una società che divide in gruppi gli individui in base alle propensioni individuali, contrapposta all'unicità di una piccola percentuale di persone che non sono predisposte a nulla in particolare e a tutto insieme. La nuova aggiunta è l'arrivo di una fazione ribelle dotata di un suo capo e una sua agenda che non stupisce scoprire (fin da subito) non appartenere ai "buoni" ma essere un'altra faccia della stessa medaglia del governo tirannico, opposti a loro eppure ugualmente intenzionati ad imporre un ordine dall'alto con la violenza. Fuori dai giochi si collocano i protagonisti.
Se Hunger Games porta avanti un discorso molto complesso sul desiderio e l'attenzione intorno al corpo della donna in una società in cui l'immagine individuale è continuamente negoziata attraverso diverse tipologie di media, Divergent che di quella serie continua ad essere una copia quasi pedissequa, opta per un modello più classico di modernità e decisamente più semplice, in cui regnano amore e famiglia e nel quale l'unico elemento di "ribellione" sta nell'affermazione della propria individualità (un blando aggiornamento rispetto ai classici film di fantascienza anni '50 e '60). Prima ancora che sul piano delle idee è però su quello della forma che Insurgent crolla. Incapace di immaginare un futuro accattivante, affianca tutine aderenti ai resti della nostra civiltà, mette i suoi personaggi in una Chicago distrutta ma li dota di armi dal design futuristico grottesco (somigliano a grossi fucili ad acqua) e, in un'accozzaglia molto poco coerente di ribellismo e sentimentalismo (in cui il primo contemporaneamente giustifica e ostacola il secondo), perde credibilità ogni minuto che passa.
Molta della responsabilità della mancanza di sapore di questo secondo film sta sulle spalle degli attori. Se le consuete star-villain (Kate Winslet e Naomi Watts) fanno quello per il quale vengono pagate, cioè portare un po' di carisma e autorevolezza, i protagonisti sembrano costantemente fuori parte. Nessuno dei volti che sono inquadrati per la maggior parte del tempo ha la forza di donare credibilità alle proprie battute o a situazioni che ne avrebbero molto bisogno. Da Miles Teller (decisamente più convincente in Whiplash) a Shailene Woodley (a disagio in un ruolo d'azione, implausibile con un'arma in mano e figuriamoci nelle scene di violenza) fino a Theo James e Ansel Elgort (rispettivamente l'amato Quattro e il fratello Caleb), tutti sembrano provenire da altri film, recitare secondo registri propri e in stanze separate gli uni dagli altri.
Diciamolo subito: di esordi di questa qualità, nel genere 'commedia romantica', ce ne vorrebbero di più. Marc Webb, che ha alle spalle numerosi videoclip musicali, dirige con mano sicura e forte senso dell'humor che nasce dall'osservazione (un po' amara ma veridica) del comportamento umano. Il punto di vista è quello di Tom (così non mancherà chi accuserà il film di posizioni maschiliste) e già da questa scelta prende l'avvio il ribaltamento di alcuni stereotipi. Il romantico è lui, quello che sogna il matrimonio è sempre lui, quello che soffre di più è ancora lui. Intendiamoci: Summer non è affatto una cinica distruggiuomini. È semmai una giovane donna dei nostri giorni con barriere difensive che dovrebbero proteggerla dal dolore e con una contraddittorietà che fa parte del suo stesso essere e di cui finisce con il divenire consapevole.
Lo stile narrativo di Webb ci mette in situazione a partire dalla fine del rapporto (la prima risata la ottiene da subito con la scritta che compare sullo schermo in apertura di film) per poi farci surfare tra le onde di dinamiche di coppia in cui più d'uno potrà riconoscersi. Lo fa omaggiando il cinema che ama (da Il laureato a Il settimo sigillo) e regalandosi anche un'incursione nel musical con tanto di animazione incorporata. Senza mai perdere di vista il fil rouge che attraversa tutti i 500 giorni: è difficile (oggi forse più che mai) non fare confusione tra ciò che si vorrebbe che fosse e ciò che è nella realtà. In particolare nel rapporto di coppia perché, come cantava Eugenio Finardi, "l'amore è vivere insieme, l'amore è sì volersi bene ma l'amore è fatto di gioia ma anche di noia". Webb riesce a comunicare il concetto senza mai annoiare il suo pubblico. Neppure per un minuto. E non è poco.
E' ovvio, avere Nolan in mente mentre si fa una recensione di un'altro Batman non aiuta, ma sarò il più oggettivo possibile.
La partenza del film è delle migliori, Gotham è gotica, oscura, corrotta, il nostro eroe è silenzioso e sembra anche abbastanza dannato.
Poi il film procede in maniera decente, ha una parte investigativa molto bella, un batman che condanna il cattivone di turno per un omicidio, un batman che non uccide, un commissario che aiuta il navigare nella città corrotta.
Mentre il cattivo di turno acquisisce carattere e spessore tramite la trama, aiutato anche dai soliti scagnozzi noti, batman si rivela purtroppo una sorta di emo vecchio stile, con sguardo basso e perennemente laterale, senza un vera e propria base per tutta questa depressione.
Tralasciamo per un attimo anche il fatto che l'attore non ha abbastanza muscoli per il ruolo, e quando batman usa la tuta, fa l'effetto delle tute da wrestling che ci mettiamo per far gli stupidi ad Halloween.
Quello che fa più pietà è **uno dei buchi di storia più spalmati in faccia di sempre**. Il regista ha voluto creare una bellissima scena (e lo è davvero), quella che avete visto nel trailer, dove batman, inseguendo uno scagnozzo del cattivone di turno, schiva un mega incidente catastrofico (causato dallo scagnozzo) saltando con la sua muscle car sopra la palla di fuoco per arrivare finalmente a catturare il cattivo.
L'incidente con annessa enorme palla di fuoco genera non so.... una trentina di morti statisticamente? Bene, nella scena IMMEDIATAMENTE successiva a tutto questo, estrapolate fin troppo facilmente le informazioni dallo scagnozzo, batman e il suo amico partono in cerca del cattivo principale lasciando lo scagnozzo li dov'è, in piena libertà...
Cioè fammi capire un attimo... un intero film e un inseguimento da giù di testa per sapere dove sta il cattivo principale che ha ucciso una persona, ma un altro cattivo che ne uccide a freddo più di venti lo lasciamo libero?
Problemi di sceneggiatura eclatanti a parte, il terzo atto del film è inutilmente lungo, tantè che il film pare che finisca ben 4 volte prima del suo vero finale, dove per la prima volta dopo un intero film di noncuranza, per mettere in pericolo batman, esso subisce l'effetto cinetico dei proiettili che lo fa indietreggiare. Ripeto, per la prima volta in tutto il film.
**Verdetto** : Ne ho parlato fin troppo di questo film, davvero orribile. La fotografia e gotham però sono impeccabili. Il cattivo principale merita un'elogio in ogni caso, bravissimo.
**Ottimo per** : Ridere del protagonista megatriste e dei buchi di trama degni di un film di serie B
Forse non è un caso che le gesta leggendarie del condottiero scozzese William Wallace risultino tramandate da un menestrello non vedente del XV secolo, Harry il Cieco. Come i poemi di Omero sulla guerra di Troia e il ritorno a casa di Ulisse, anche il racconto di questo ribelle dal cuore impavido è pura epica, mito laico che attorno al fatto storico costruisce quell'epopea narrativa necessaria ad incidere nell'immortalità della leggenda. Perché, ovviamente, la leggenda non è la Storia e, come tale, richiede un altro tipo di rievocazione che non è quella della ricerca delle fonti e dell'esercizio storiografico ma quella della retorica celebrativa e trionfalistica. Il linguaggio dell'esaltazione e del tripudio, dell'enfasi e dell'ardore, mirato a creare solo emblemi e icone e non personaggi di un romanzo psicologico. Braveheart nasce da qui: da uno sceneggiatore che per un puro caso di omonimia (si chiama Randall Wallace) si interessa alla figura rappresentata da una statua ad Aberdeen e decide di rievocarne la leggenda e dalla personalità di Mel Gibson, divo australiano che per l'occasione è pronto a farsi regista, produttore e fomentato cantore di un eroe dell'indipendenza scozzese.
Il resto è storia. O meglio, è leggenda, in ogni senso. Gibson realizza un kolossal costosissimo in linea con la Hollywood più aurea e più ingenuamente enfatica, dove un'elegia del culto superomistico e un'apologia della vendetta avvampano gridando in nome della libertà. In questa audace impresa, Gibson consacra completamente se stesso, esaltando il potere della mitopoiesi su quello della verosimiglianza storica attraverso un racconto di tre ore dal grandissimo respiro che assomma senza vergogna una personale interpretazione dello spirito della mitologia celtica a momenti superficiali come i dettagli dell'infanzia di William o di pura naïveté come il rapporto sensuale fra il condottiero del popolo e la regina Isabella. Eppure, nella sua prolissità grondante sangue e retorica militare, Mel Gibson si dimostra capace di realizzare scene di battaglia e coreografie di combattimento corpo a corpo di straordinaria spettacolarità. Il loro impatto visivo e il loro brutale realismo fanno sì che Braveheart, nell'evoluzione che va da Aleksandr Nevskij a Ran, da Il gladiatore a Il signore degli anelli, prenda saldamente la sua posizione. Dimostrando come anche la storia del cinema passi attraverso la leggenda.
La nuova generazione di X-Men cresce sotto la guida di Bryan Singer per assumere il ruolo di protagonista nel sequel del film ispirato all'omonima serie di fumetti della Marvel Comics. E il sequel inaugura la saga, lasciando intravedere potenziali sviluppo e successivi episodi. La ricetta di Bryan Singer migliora con la pratica; la "seconda portata" prevede meno fumetto e più sceneggiatura. La spettacolarizzazione dei contenuti, filtrati attraverso la fiction, l'azione e l'avventura, è una operazione che raramente riesce anche al rodatissimo cinema americano di genere. Merito anche di "maschere" eccellenti come Ian McKellen e Patrick Stewart prese a prestito da "caratteri" shakespeariani, affiancati ai sex symbol del momento o, più semplicemente ad attori di buon mestiere.
Quentin Tarantino ha di recente collocato Looper nel ristretto elenco dei film del 2012 che considera veramente validi. Non gli si può dare torto perché il film di Rian Johnson si colloca su un livello decisamente elevato nell'ambito della sci-fiction. La sceneggiatura di cui è autore non si limita a contestualizzare una parte della vicenda in una città vagamente simile alla Los Angeles di Blade Runner e a 'giocare' (come altri hanno fatto) con l'idea del viaggio, in questo caso all'indietro, negli anni.. Johnson va oltre e, senza dimenticare mai l'azione, ci spinge a riflettere non solo su quella convenzione che chiamiamo 'tempo' ma sull'uso che possiamo farne. È un film sul libero arbitrio Looper, cioè sulla possibilità o meno di modificare il corso degli eventi futuri. A livello di macrostoria forse più d'uno si è posto la domanda di cosa avrebbe fatto se avesse avuto la possibilità di trovare davanti a sé un Hitler, uno Stalin bambini con la consapevolezza di ciò che sarebbero divenuti una volta adulti. Il quesito non è di quelli di poco conto così come non lo è la risposta. Nella seconda parte della vicenda è su questo piano che si debbono confrontare i due Joe. Appunto: 'i due'. Qui scatta un ulteriore quesito che va al di là dell'essere coinvolti in una crime story futuribile. Cosa accadrebbe se potessimo trovarci dinanzi a un 'noi stessi' con qualche decennio in più disposto a raccontarci il nostro futuro e intenzionato ad espungerne la parte più dolorosa? Adamo ed Eva, nel paradiso terrestre, non conoscevano il Bene e il Male prima del peccato. Anche noi però, loro discendenti, abbiamo conservato un angolo di paradiso non avendo cognizione del nostro futuro. Ciò ci offre il grosso vantaggio di non vivere sotto l'oppressiva cappa di un destino noto ed ineluttabile. Ci impone però di scegliere in ogni giorno ed in ogni singolo minuto della nostra vita. Liberamente ma consapevolmente perché il futuro (nostro e altrui) si costruisce così: ad ogni tic delle lancette sull'orologio della vita. Rian Johnson ci invita a ricordarlo.
È proprio capace di tutto l'australiano Russell Crowe. E dicono che si è ormai collocato saldamente nella parte alta della top list delle star hollywoodiane per merito distinto. Perché l'ombroso attore con aspirazioni di musicista rock (sempre a Berlino è stato presentato il documentario Texas in cui si esibisce con la sua band come già fece a Sanremo) è in grado di interpretare i personaggi più diversi con grande abilità trasformistica infondendo loro quelle doti di umanità che sembrerebbero un po' difettare al Russell divo. Che è passato dallo scardinatore di multinazionali del tabacco di The Insider al "generale che divenne schiavo" de Il gladiatore mostrando anche come fosse possibile sostenere un film medio come Rapimento e riscatto grazie a un'interpretazione volutamente sottotono che non poteva non ricordare il grande Bogart.
Ora è di nuovo in corsa con A Beautiful Mind, il film che lo vede di nuovo sugli schermi di tutto il mondo nei panni del matematico John Forbes Nash. L'azione ha inizio all'Università di Princeton nel 1947 in cui Nash si distingue come studente introverso ma intellettualmente brillante. Una serata in un locale e una sfida in relazione a una ragazza bionda (che lo vede soccombere) gli danno l'idea per un saggio sui principi matematici di competizione che annullerà tutti gli studi precedenti. Accolto con tutti gli onori al prestigioso MIT John si vede anche offrire il delicato incarico di decodificatore di codici segreti in un periodo delicato come quello più teso della Guerra Fredda tra Usa e Urss. Sposato con una bella e intelligente studentessa, Alicia, lo scienziato cade progressivamente in uno stato ossessivo che verrà diagnosticato come schizofrenia paranoide.
Il regista Ron Howard (Apollo 13, Il Grinch) lavora con grande abilità sulle allucinazioni del protagonista e quindi è meglio non rivelare troppo sugli sviluppi della vicenda. Ciò che invece non va taciuto è che John Forbes Nash ricevette nel 1994 il Premio Nobel e che tutti i pettegolezzi su una sua presunta omosessualità, che il film non menzionerebbe, nulla tolgono alla straordinarietà di un'interpretazione che vede Crowe compiere un'operazione di mimesi progressiva che lo vede passare da una normalità un po' chiusa in se stessa ai gesti che rivelano il disturbo psichico ma non cancellano l'intelligenza e l'acume di battute talvolta fulminanti. È vero che lo scienziato pazzo gode di numerose presenza nei film horror o di fantascienza ma i matematici (a meno che siano giovani come Will Hunting) hanno l'handicap di occuparsi di una materia poco 'emotiva'. Il camaleontico Russell riesce però, con la sua voce profonda che speriamo rispettata dal doppiaggio, a farci commuovere anche sui logaritmi. Scusate se è poco.
Campione d'incasso come film natalizio negli States giunge da noi con quel tanto di ritardo che può rischiare di togliergli quegli spettatori a cui per Natale sono stati offerti draghi inadeguati e animazioni non entusiasmanti. Ci riferiamo a quel pubblico familiare che non si è ancora piegato all'ineluttabilità del cinema di Parenti e affini e cerca un'occasione di svago valida per grandi e piccoli. E' quella che offre il film di Shawn Levy il quale non lesina effetti speciali, li inserisce in una vicenda ormai un po' abusata che vede un padre (un Ben Stiller ipercinetico) bisognoso di ricostruire la propria immagine positiva ad uso di un figlio, ma poi sa come divertire. Perché si prendono prestiti un po' ovunque in Una notte al museo (da "I viaggi di Gulliver" a Jumanji) ma lo si fa con gusto e ironia. Non è necessario conoscere la storia americana per apprezzare la bonomia del presidente Roosevelt (Teddy, non Franklin D.) interpretato da un Robin Williams sotto controllo o per intenerirsi dinanzi alla graziosa guida indiana Sacajawea. Anche perché ci pensano i due minuscoli rivali/amici, il cowboy Jedediah e l'imperatore romano Ottavio a mescolare epoche e stili di vita mentre Attila e i suoi si scatenano e gli uomini preistorici si aggirano per i corridoi. Ma soprattutto non perdetevi la divertente rilettura del T-Rex (qui solo scheletro) di spielberghiana memoria. Da sola vale il prezzo del biglietto. Per gli appassionati di cinema c'è poi il piacere di ritrovare vecchie glorie come Dick Van Dyke, Mickey Rooney e Bill Cobbs. Come? Sono ancora vivi?! si chiederà più d'uno. Certo e anche 'cattivi' al punto giusto.
Cosa ci fa Johnny Depp (non accreditato) in un film che al primo sguardo sembrerebbe l'ennesima commedia buddy/buddy con un vincente e un nerd fianco a fianco con l'aggiunta di qualche cascame di scuola di polizia? Ha il motivo per esserci e questo risiede nel fatto che la serie televisiva 21 Jump Street che andò in onda dal 1987 al 1991 per un totale di 103 episodi è quella a cui deve il formarsi della sua fama iniziale come idolo delle teenagers. Il plot di base prevedeva la presenza di una squadra speciale formata da agenti dall'aspetto così adolescenziale da poter agire sotto copertura in comunità giovanili, scolastiche e non.
È evidente che questa rivisitazione parodistica ha avuto una notevole presa su un pubblico che, un tempo adolescente, aveva apprezzato la serie facendo sì che il risultato al box office negli States sia stato decisamente considerevole. Ciò che eleva 21 Jump Street rispetto ad altre parodie sta in gran parte nella professionalità degli sceneggiatori (tra cui Michael Bacall che aveva lavorato a Project X - Una festa che spacca), dei registi (passati da Piovono polpette al loro primo film con attori) e dalla coppia di protagonisti. Se Hill ha ormai una grossa esperienza nella commedia, Tatum diventa una sorta di rivelazione. Insieme riescono a superare gli scogli che in altre produzioni hanno fatto naufragare i film. Si possono permettere di essere volgari (basti pensare al cognome del Capitano per comprendere quante opportunità in materia vengono loro offerte) riuscendo però a fare qualcosa di più e di meglio (vedi la scena del vomito).
Lavorano su una molteplicità di 'luoghi' che vanno al di là della parodia della serie tanto da potersi permettere una scena che rinvia direttamente a Donnie Brasco in cui il protagonista era, vedi caso, un certo Johnny Depp.
Non a caso da corsa di strada che era si avvicina sempre più a 007 o alle sue filiazioni, tra terroristi sovranazionali (tra Spectre e Cypher il passo è breve) e agenzie di controspionaggio, con tanto di MI5 in prima linea. Ma si sente il bisogno di un altro 007? Per di più costellato di battutine da pausa caffè e caratterizzazioni sub-caricaturali di eroi e cattivi (una Charlize Theron nei panni dell'infallibile, ma assai poco credibile, hacker)? Persino il più adrenalinico, testosteronico e privo di pretese artistiche tra i franchise ha bisogno di stabilire una complicità con lo spettatore, che permetta a quest'ultimo di spegnere l'allarme legato alla soglia del verosimile e accettare di stare al gioco. In Fast & Furious 8 questo (fondamentale) passaggio non accade.
Il proseguimento dell'avventura della spia Eggsy è stata infatti decisamente smussata quanto a esplosioni splatter e anche il poco pulp (letterale) rimasto su schermo è poco più che fumettistico. Non è una novità per il regista, che già con Kick-Ass 2 aveva decisamente tirato il freno a mano, se confrontato con il capostipite. Si tratta di mutamenti verosimilmente discussi e ideati con la produzione, allo scopo di allargare il bacino e diversificare il posizionamento di pubblico. La cosa interessante è che proprio nel suo essere un film medio, senza particolari punte di innovazione, totalmente dedito all'action e al divertimento dello spettatore, Kingsman - Il cerchio d'oro sembra un concentrato degli approcci contemporanei.
Ora che non deve più preoccuparsi di presentare i personaggi, o meglio di illustrare la loro rilettura, Guy Ritchie ha la possibilità di divertirsi e - questa è la buona notizia - lo fa senza scrupoli. Se è vero che sostanzialmente non cambia squadra, smuove però le fondamenta, chiamando alla sceneggiatura i coniugi Mulroney, che sono quanto di più interessante in giro. Così, messe al bando le lungaggini e le complicazioni gratuite, la soluzione del caso non è più accessoria, la noia non si presenta, mentre si affaccia una maggior considerazione dei sentimenti, che scalda a puntino il film. Accade ciò che era accaduto, per esempio, con Hellboy (più o meno per le stesse ragioni), ovvero che la seconda avventura, sapendo superare i problemi della prima, raggiunge un livello più alto, decisamente buono. Numerose sono le invenzioni visive del film, al punto che i flashforward sincopati che precedono le mosse d'azione di Holmes, per quanto giustificati dal metodo e dalle caratteristiche del personaggio (e, a questo punto, anche dalla continuità dovuta al capitolo uno), sono in fondo la trovata più banale e scontata. Preziosissima, invece, per rendere la miscela più frizzante, è l'introduzione del fratello maggiore di Sherlock, Mycroft Holmes, interpretato dal grande Stephen Fry. Giocato per lo più sull'elemento del travestimento, con una puntata speciale nel travestitismo esplicito (Watson trascorre la prima notte di nozze con Holmes e l'amplesso c'è eccome, travestito da colluttazione) e una nella chirurgia plastica, il film non dimentica che spesso non c'è costume più efficace del nudo integrale, specie se indossato da un gentleman della comicità britannica come Fry.
L'intesa attoriale tra Robert Downey Jr. (il cui Holmes è tra le migliori figure postmoderne del cinema recente) e la spalla Jude Law è evidente e fortunata e i dialoghi la servono bene e con misura, senza bisogno di salire sopra le righe. L'ambientazione storica esplosiva e la varietà di ambienti suggestivi, dal camerino della cartomante al castello vampiresco sull'orlo del precipizio, forniscono uno sfondo opportunamente avventuroso, ma le sorprese più belle si nascondo nel tranquillo e borghese domicilio di Londra. Perché, parola di Conan Doyle, "Non c'è nulla di più innaturale dell'ovvio".
Delle molte saghe adolescenziali che attraverso la lente della fantascienza e del futuro distopico raccontano la società in cui i ragazzi (ma soprattutto le ragazze) si stanno per immettere, Maze Runner è quella che cerca una strada più originale. Indirizzato ad un pubblico maschile più che femminile, e per questo dotato di un cast protagonista quasi unicamente composto da attori e con due sole attrici, la sua storia si fonda tutta sulla creazione di buchi narrativi.
Maze Runner - Il Labirinto riusciva a rilasciare le informazioni basilari sul contesto e sulla storia con una lentezza esemplare, riuscendo addirittura ad arrivare al termine senza aver spiegato tutto. Quelli che purtroppo nel secondo film si rivelano una storia e uno scenario abbastanza banali, in precedenza godevano infatti di un fascino unico, specie per i grandi film contemporanei ampiamente "raccontati" già dalla promozione e dal marketing. Si capisce che anche in Maze Runner - La Fuga l'idea sarebbe quella di non svelare ogni cosa al pubblico immediatamente, tuttavia l'effetto non è il medesimo e a mano a mano che si scoprono i tasselli è più lo sconforto per la mancanza di originalità che la sete di saperne di più.
Dall'altra parte anche lo specifico spazio in cui questo franchise intende muoversi è diretto verso la ripetizione di altre storie. La novità di pensare per un target maschile quelle storie che da Hunger Games in poi sono rivolte più che altro alle ragazze, fallisce. Non solo la trama che già fa parte dei romanzi di James Dashner, nella sua versione cinematografica ha pochissimo da dire al suo pubblico d'elezione ma quel poco che gli dice ricalca le idee dei film che l'hanno preceduto.
Di nuovo troviamo il doppio interesse amoroso, ovvero una ragazza che sembra quella convenzionalmente deputata a diventare l'interesse romantico e un'altra di tono e carattere opposto che si contende il protagonista, e di nuovo troviamo un sistema militarizzato al quale si contrappongono dei ribelli ugualmente ottusi. Tutto è narrato premendo moltissimo l'acceleratore sull'azione ma senza averne un'idea dura e radicale, capace di elevarsi sopra un generico correre e sparare o senza riuscire a trovare un proprio linguaggio dei corpi e del movimento. La maniera in cui il film è virato verso il pubblico maschile, insomma, non accentua l'importanza del confronto fisico, del movimento e del corpo in attività ma aumenta solo la confusione.
Maze Runner - Il Labirinto con tutta la sua reticenza a svelare le sue carte aveva mostrato di avere un carattere, questo seguito nei suoi 130 minuti lavora per riportarlo nei confini del clichè e del noto, come se ci fosse bisogno di assicurare al pubblico che le sorprese sono finite e da ora in poi gli saranno fornite solo conferme.
La sostanza del romanzo onirico di Kesey, scritto in prima persona, è depurata e trasformata in allegoria nell'adattamento scenico che ne fece Dale Wasserman e che forma la base della sceneggiatura. (Fu portato in scena nel 1963 da Kirk Douglas che spinse il figlio Michael a produrre il film.) Ottima squadra di attori che comprende anche il pellerossa W. Sampson.