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Movie lists

Latest reviews:

Sapori e dissapori - No Reservations (2007) Sapori e dissapori (2007)
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Leggero, vivace, senza sbavature né eccessivi scivoloni nel romanticismo: un remake che entra nella cornice delle commedie romantiche classiche, forse un po' anni 90, senza dover dimostrare nulla di più di quello che la trama e la locandina lasciano già intendere allo spettatore: un paio d'ore di totale relax in piacevole compagnia delle prevedibili disavventure romantiche di Catherine Zeta-Jones.
Le luci spesso impietose del direttore della fotografia ci danno un'immagine della maliarda attrice che difficilmente era stata vista prima: occhiaie e segni d'espressione non vengono nascosti nemmeno dal trucco, eppure appare quasi più bella, in questa sua umanità ritrovata, e più simpatica, probabilmente anche grazie ai dialoghi, leggeri ma non stucchevoli, con la giusta dose d'ironia e ben bilanciati dalla presenza del coprotagonista Aaron Eckhart.
Qualche parola a parte va spesa per la giovane Abigail Breslin, spigliata e simpatica "terzo incomodo", ormai affermata seppur giovane attrice, forse limitata un po' nella riuscita dal doppiaggio italiano.
Deludente, invece, la presentazione del ristorante, che viola i canoni più classici della cucina internazionale di lusso, finendo per assomigliare più a un pittoresco locale di stile europeo.

5 anni di fidanzamento - The Five-Year Engagement (2012) 5 anni di fidanzamento (2012)
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Qualche decennio fa Fabrizio De André, traducendo Brassens, scrisse una canzone in cui si diceva "Andarono a sposarsi dopo un fidanzamento/durato tanti anni da chiamarlo ormai d'argento". Il film di Stoller affronta l'argomento nell'America di oggi mescolando aspirazioni sociali e tradizioni familiari (lei cattolica/lui ebreo) evidenziando al contempo pregi e limiti delle sue sceneggiature. Perché nella prima parte la storia ha tutte le caratteristiche dell'analisi di una sindrome diffusa in questo nostro mondo in crisi economica. Nonostante tutte le dichiarazioni d'amore una coppia che convive finisce con il non sentirsi mai pronta per il 'grande passo'.C'è sempre un motivo per rinviare. La situazione si fa poi più complicata quando è uno dei due partner a dover sacrificare le proprie aspirazioni per favorire l'altro e Segel e Blunt aderiscono con efficacia, pur nei limiti imposti dalla romantic comedy, a queste tematiche.
Stoller ha però un problema che si era evidenziato già nelle sue opere precedenti (Non mi scaricare, In viaggio con una rockstar): ha un bisogno ineludibile di alzare il tiro cercando comprimari che, in qualche misura, esasperino le situazioni. Si tratta di una strada percorribile quando si ha a disposizione un attore come Russell Brand. Quando non è così si finisce con l'inanellare una sequela di personaggi minori (il cuoco, i genitori di lui, la bambina con balestra, la giovane costantemente arrapata) che dovrebbero far ridere ed ottengono invece il risultato di spegnere buona parte delle micce accese nella prima parte.

Pomodori verdi fritti alla fermata del treno - Fried Green Tomatoes (1991) Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (1991)
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Buono il cast, in evidenza soprattutto le due vincitrici di Oscar, Jessica Tandy e Kathy Bathes. Il film però non convince del tutto per la sua natura poco equilibrata di commedia-dramma-giallo. Negli Stati Uniti ha raggiunto un incasso di 100 miliardi di lire.

Storia d'inverno - Winter's Tale (2014) Storia d'inverno (2014)
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A volte basta una ragione per sopportare un film ingenuo e non propriamente riuscito e molto spesso quella ragione risiede in un attore e in un ruolo. Russell Crowe, 'cattivissimo' co-protagonista di Storia d'inverno, incarna da solo la malia di una favola che parla di miracoli senza riuscire a farne uno che confermi col suo potere lo spettatore nella fede-cinema. Se l'intercessione di Crowe non basta a risollevare le sorti di una storia d'amore consumata tra ombre e luci, tra ragioni artistiche e logiche di marketing, nondimeno l'attore sollecita con la sua performance un'interessante riflessione intorno al Male e alla sua resistenza al Male. Perché Russell Crowe è da sempre eroe di impeccabile fattura, interprete di personaggi verticalmente positivi, talmente formidabili e scomodi da non poter più scendere al livello dell'uomo comune. Di questa eccezionalità il corpo di Crowe porta i segni e rivela il carisma, la statuarietà, l'inamovibilità e la centralità anche quando è chiamato a essere un villain con gli occhi gonfi di braci dentro impasti coloristici, fra notti che non sono notti e giorni resi incerti dalla luce.
La prima regia di Akiva Goldsman, celebre sceneggiatore di A Beautiful Mind, Cinderella Man, Io sono leggenda, Il Codice da Vinci, lo arruola nella fila dei cattivi, provando a corrompere la sua straordinarietà. Punctum della visione, Crowe catalizza sguardo e interesse del pubblico, di cui imprigiona il libero arbitrio, conquista gli occhi e ruba l'anima. Pearly Soames è insomma l'ardente 'luogo' della dannazione che aspettiamo di (ri)vedere spuntare di nuovo, a cavallo o (sol)levato in faccia al nemico, che ha il volto e la irishness di Colin Farrell. In fuga dal Soames di Crowe, Farrell interpreta l'innamorato letteralmente imperituro che non verrà mai meno alle sue promesse e alla sua amata. Storia d'inverno è un dramma sentimentale che si serve della fantasia e degli effetti speciali per arrestare il tempo e riscrivere il destino dei suoi protagonisti. Peter e Pearly, cristallizzati e impermeabili al decadimento, rivendicano l'eternità della propria bellezza e della propria dannazione, cullando ciascuno l'illusione di vendetta o di remissione. Il loro fisico sfida le leggi della natura e produce una storia che fluttua tra passato e presente, che dice di una passione mai tragicamente romantica.
A mancare all'opera prima di Goldsman è l'idea di una forma visiva e narrativa capace di resuscitare l'incanto di un sentimento declinato attraverso 'gli oceani del tempo'. All'inesplorato, il regista preferisce il concetto esplicito, la parafrasi e personaggi che si comportano come ci si aspetta faccia il cliché del buono, del mediocre, del saggio, dell'innocente. Il digitale non accomoda poi l'assenza di struggimento e il culto della superficie, 'congelando' un paesaggio narrativo senza via di uscita e gelando (ahimè e ahinoi) quel 'diavolo' di un Crowe. Adattamento del romanzo omonimo di Mark Helprin, Storia d'inverno è intrattenimento monocorde senza crepitio se non quello del ghiaccio che affonda i bad guys di Soames. Meglio allora inquadrarlo come inedita faccia dell'epica filmografia di Russell Crowe, forma assiderata del male in look rasato che 'umilia' a colpi di cranio quello sempre ricercato di Farrell. Proiettato nel futuro e pettinato all'indietro.

Sex Movie in 4D - Sex Drive (2008) Sex Movie in 4D (2008)
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Sex drive in inglese indica ciò che internazionalmente chiamiamo libido, l'impulso sessuale che (dis)orienta l'inconscio dell'uomo. Al di là di ogni possibile speculazione psicanalitica, Sex Drive è anche il titolo originale di questo film che gioca sul doppio senso di "drive" per trasformare letteralmente l'impulso sessuale nel motore di un road movie alla ricerca del principio del (primo) piacere.
Ma, a differenza di altri tipici racconti goliardici sull'iniziazione sessuale di giovani loser, Sex Movie pare essere scritto meno sotto dettatura ormonale che da una qualche intelligenza cinematografica. In questo nuovo, ennesimo tassello di un filone assieme greve e leggero, spregiudicato e conservatore, c'è da notare la volontà di trattenere le redini e dispensare l'ordinaria dose di turpiloquio, imbarazzi e prurigine mantenendoli entro i limiti dell'umana sensibilità. Il che costituisce senza dubbio un pregio, considerando il più recente panorama del genere e il fondo nel quale continua da tempo a scavare, ma anche un limite, se si considera che le ambizioni di Sex Movie sono un po' più alte della media del teen movie americano.
Man mano che il film persegue la sua strada e le tappe del suo viaggio, l'iniziazione sessuale del giovane Ian diviene un quadro abbastanza complesso di situazioni paradossali e personaggi bizzarri, che finiscono col diventare un patchwork di sequenze vivaci ma risapute.
Ovviamente, l'ossessione della perdita della verginità pre-college e il mito del road trip hanno dei referenti precisi, ma anche il furto di una macchina d'epoca, gli incontri con autostoppisti pazzi, le famiglie zotiche, gli amish libertini e i gruppi pro-astinenza sessuale, stimolano svariate reminiscenze legate al genere.
Un viaggio, come detto, entro i limiti di velocità, e accompagnato da una sottotrama sentimentale che alla fine fa apparire il film poco più di una commedia romantica adolescenziale sotto cura ormonale.

La regina dei castelli di carta - The Girl Who Kicked the Hornet's Nest (2009) La regina dei castelli di carta (2009)
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Terzo e ultimo capitolo della trilogia cinematografica tratta da uno dei casi editoriali più straordinari degli ultimi anni, "Millennium" di Stieg Larsson, La regina dei castelli di carta riprende la storia del giornalista scomodo e dell'hacker cyberpunk da dove l'avevamo lasciata (La ragazza che giocava col fuoco), conducendola al suo scioglimento. Confermato il regista, Daniel Alfredson, e il cast protagonista, Noomi Rapace e Michael Nyqvist, l'epilogo è certamente il più debole dei tre atti e replica lo schema della ragazza vessata dal tutore maniaco e del giornalista superstar minacciato dai cattivi di turno.
Tra intoppi e deficienze di strutture, La regina dei castelli di carta come La ragazza che giocava col fuoco non accampa alcuno stile e si limita a una trasposizione elementare delle pagine di Larsson, che accontenterà unicamente gli appassionati consumatori di trame, scontentando al contrario lo spettatore interessato allo specifico del linguaggio cinematografico.
Se Uomini che odiano le donne, diretto dal danese Niels Arden Oplev, denunciava il retaggio dei traumi non pacificati della socialdemocrazia svedese, in questo terzo capitolo la cornice storico-politica si riduce fino a dissolversi dentro un universo irrimediabilmente misogino e fino a invalidare il valore aggiunto dei romanzi di Larsson: l'ambientazione nordeuropea e la vastità di un paesaggio indifferente. Un adattamento trascurato e trascurabile che offre un servizio scadente all'immaginazione dei lettori e a chi non aveva mai avvicinato l'universo narrativo dello scrittore svedese.

Dead Man Walking - Condannato a morte - Dead Man Walking (1995) Dead Man Walking - Condannato a morte (1995)
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Argomento importante, drammatico e coinvolgente per un film che non ha mai impennate, ma che esprime con chiarezza ciò che vuole esprimere. Rispetto alle molte storie proposte su questo tema, il film di Tim Robbins ha il valore aggiunto della verità rispetto al sentimento (il protagonista è proprio cattivo, anche se alla fine si "dispiace"). La tesi è quella, conosciuta, della pena di morte, ingiusta comunque, anche per chi la meriterebbe. Bravi gli attori. Oscar, dopo quattro "nomination", alla Sarandon.

The Raven (2012) The Raven (2012)
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Prima ancora di instillarsi come un potente veleno in tutti i thriller e gli horror della storia del cinema, Edgar Allan Poe ha dato vita al romanzo giallo così come ancora oggi lo conosciamo. Dando un'interpretazione macabra e fantasiosa a quegli ultimi giorni avvolti nel mistero che ne hanno preceduto la morte, The Raven utilizza un espediente metaletterario non dissimile da quello messo in gioco da Shakespeare in Love: trasformare uno scrittore realmente esistito in un personaggio delle sue opere. Ma più che essere un raffinato esercizio stilistico di cultura letteraria, The Raven è un "serial thriller" che gioca con la fantasia di Poe unicamente come pretesto per realizzare una catena di sanguinosi delitti e costruirci attorno un racconto del mistero. Niente a che vedere, quindi, né con Roger Corman, né con Vincent Price; piuttosto il film è un tentativo di calcare il successo del moderno Sherlock Holmes di Guy Ritchie e di fare del fervido scrittore un detective d'azione, meno incline al decadentismo bohémien che alle corse contro il tempo e alla logica abduttiva.
Se il regista di V per Vendetta fa il copycat fra le atmosfere neogotiche di From Hell, gli omicidi efferati di Saw e i titoli di testa arty di David Fincher, gli sceneggiatori compiono un lavoro simile creando un'opera di cartapesta in cui scampoli dei delitti di Poe vengono applicati sui canoni più obsoleti e le soluzioni più pedestri del mystery.
In questo "ritratto ovale" senza una vera anima, né orrorifica, né d'azione, John Cusack è chiamato a posare un po' come Monsieur Dupin e un po' come uno degli scrittori dei romanzi di Stephen King, ma senza riuscire a trasmettere né l'ironica arguzia del primo né le ossessioni suggestive dei secondi. Così, orfana del proprio lirismo immaginifico e intrappolata in una storia senza spunti accattivanti o seducenti, alla figura di Poe non restano che le uniche parole pronunciate dal suo Corvo: "Mai più".

The American (2010) The American (2010)
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Ci sono sfide che al cinema sono estremamente rischiose. Ad esempio quella di voler raccontare (ancora una volta) il desiderio di vita provato da un uomo che ha sempre procurato la morte. Per farlo, appoggiandosi a un libro pubblicato 20 anni fa ("A Very Private Gentleman" di Martin Booth). Il confronto, inevitabile, con film che sono divenuti dei classici può essere vinto solo se alla regia c'è un regista dallo sguardo particolarmente sensibile e davanti alla macchina da presa un attore capace di rendere credibile e 'moderno' il suo personaggio. L'accoppiata vincente è data da Anton Corbijn e George Clooney a cui si aggiunge un paesaggio capace di offrire non solo sfondi suggestivi ma vicoli, pietre direi quasi 'aria' estremamente originali. Corbijn decide di 'violare' visivamente l'isolamento di Jack scrutandone però con meticolosità da voyeurista dell'animo ogni singolo gesto che conduce alla preparazione di uno strumento di morte sicura. Non sarà Jack a dover schiacciare quel grilletto ma sarà stato lui a garantirne la precisione mortifera.
Per un ruolo del genere occorre un attore che sappia dare ai dettagli dei gesti, alle inflessioni dei non frequenti dialoghi, all'aggrottarsi di un sopracciglio l'intensità necessaria senza forzature. Clooney ci riesce ed anche se va incontro ad un finale ad alto tasso di retorica (l'unica di tutto il film) lo fa con la classe che gli è usuale. Paolo Bonacelli e Violante Placido si cuciono addosso due personaggi che consentono loro di sfruttare doti già mostrate in passato contribuendo all'esito finale. Che superficialmente può essere classificato come un 'deja vu'. Quello che invece non è.

Il traditore (2019) Il traditore (2019)
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Ottimo drama / thriller che propone un'immersione accativante nel cuore della guerra tra le mafie. Interpretazione di Favino superlativa. Uno dei migliori film italiani del 2019. Imperdibile.

120 battiti al minuto - BPM (Beats per Minute) (2017) 120 battiti al minuto (2017)
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Tratto da una storia vera, è il terzo lungometraggio del francese Robin Campillo ed è ambientato nella Parigi degli anni Novanta.
La storia prende spunto da un gruppo di giovani attivisti Dell'Act up, associazione nata all’interno della comunità omosessuale per difendere i diritti di chiunque abbia l’AIDS, che tentano disperatamente di rivolgersi ai laboratori farmaceutici per cercare una possibile cura a questa malattia letale sconosciuta, con la speranza di salvare la loro vita e quella delle generazioni future.
Robin Campillo, che ha fatto parte di Act up e che ha sceneggiato il film con Philippe Mangeot, un altro attivista dell’associazione, è riuscito a restituire con naturalezza i dibattiti, la passione e la vita in essi presente.

Syriana (2005) Syriana (2005)
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Al suo secondo lungometraggio, Stephen Gaghan (regista di Abandon e autore di Traffic, diretto da Steven Soderbergh) firma Syriana, un thriller politico incentrato sul rapporto tra terrorismo internazionale, politica estera americana e industrie petrolifere e basato sulle memorie di Robert Baer, ex agente della Cia impegnato nella lotta al terrorismo. Il film si apre con un attentato a Teheran, alternando, successivamente, la scena statunitense a quella mediorientale. Ben girato e ben diretto, Syriana ha il pregio - anche se inizialmente la presentazione dei personaggi e delle situazioni rischia di confondere lo spettatore - di trattare un tema quanto mai attuale, senza voler a tutti i costi sostenere una tesi o dare gia la propria versione dei fatti. Non esistono buoni o cattivi, non esistono vincitori o vinti, ma soltanto una condizione di perenne conflitto determinata da interessi economico-politici. Mentre la trama si dipana, sembrerebbe, nel pieno rispetto del genere - seguendo le vicende del protagonista, l'agente della CIA Bob Barnes (magnificamente interpretato da George Clooney, che conferma ancora una volta il proprio interesse verso un cinema socialmente impegnato), caduto improvvisamente in disgrazia e divenuto scomodo testimone - in realtà il film ne sovverte le regole. L'eroe solitario che lotta contro il sistema, non riuscirà a sconfiggerlo, ma ne sarà totalmente sopraffatto; diversamente, invece, dall'operazione "riuscita" dei due giovani kamikaze, che per necessita e disperazione, per guadagnarsi un posto in Paradiso e in nome della religione, decidono di sacrificare la loro stessa vita.

Oggi sposi... niente sesso! - Just Married (2003) Oggi sposi... niente sesso! (2003)
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Che la screwball comedy americana - salvo sporadiche eccezioni - sia in piena decadenza è cosa ben nota e testimoniata da più di un brutto titolo nelle ultime stagioni. Ma qui si raggiunge davvero un livello di guardia, tra battute volgarissime (ovviamente incentrate su ventre, escrezioni e organi sessuali) e situazioni che sfigurerebbero anche in campioni dell'humour all'inglese come American Pie o il nostrano Pierino. Ridere non si ride mai: ma capita qua e là di vergognarsi per il cast, il regista e lo sceneggiatore. Da evitare accuratamente.

La spia - A Most Wanted Man - A Most Wanted Man (2014) La spia - A Most Wanted Man (2014)
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Tre degli attentatori dell'undici settembre erano di base ad Amburgo. Da quel giorno la città portuale tedesca divenne un sito ad alto rischio, sorvegliato dai servizi segreti tedeschi e americani, compresi nel tentativo di anticipare un'eventuale minaccia terroristica. È in questo contesto geopolitico che si muove il romanzo di John le Carré, thriller politico tradotto per lo schermo da Anton Corbijn. Fattura classica e raffinata tessitura dei procedimenti narrativi, La spia - A Most Wanted Man è un film trattenuto, introverso e ossessionato dai dilemmi morali e dall'ingerenza degli americani negli affari mondiali. Nel mondo evocato da Corbijn per dare corpo alla complessa indagine pensata da le Carrè, si trascina il protagonista greve e stropicciato di Philip Seymour Hoffman.
Corpo informe e sguardo dolente, il suo Günther Bachmann è finito in una sorta di 'ritiro coatto' dopo il repulisti successivo all'undici settembre. In un garage anonimo di Amburgo sconta adesso il rimorso per qualcosa che avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Eppure Günther Bachmann il suo lavoro lo fa e lo sa fare bene dentro un quotidiano privo di cromie e passioni. L'agente americano di Robin Wright e l'avvocato sociale di Rachel McAdams sono le uniche sfumature di rosa tollerate e ostinate che finiranno per impattare violentemente la figura screpolata e depressa di Bachmann, senza entusiasmi e difficilmente riconducibile all'immaginario spionistico abituale. Ma proprio lì sta (tutta) la bellezza della letteratura e dei personaggi le carreriani, lontani dagli agenti segreti charmant e ipersessuati con un Martini in mano e una Walther PPK nell'altra.
Costruito come La talpa di Tomas Alfredson con grande consapevolezza contro un sistema di attese sedimentate dentro il genere, La spia - A Most Wanted Man gioca la sua partita a un livello più profondo. È una spy story anomala, che all'azione preferisce l'introspezione, al dinamismo il gioco intellettuale. Abile nel comprimere nei tempi e nei modi cinematografici il romanzo intricato e ricco di sfumature di le Carré, il regista (e fotografo) olandese affida a Philip Seymour Hoffman, nella sua ultima interpretazione, il peso nascosto nell'anima del suo personaggio, un dolore senza condivisione e senza lacrime sprofondato nell'alcol e nelle poltrone. Poltrone di uffici e edifici verticali in cui si lavora per la sicurezza nazionale ma si è incapaci di provvedere alla propria. Perché Günther Bachmann non trova sbocchi al lutto indefinito che lo agita e lo isola dalla sua squadra e dentro un epilogo di insolita malinconia.
Come Alfredson con Gary Oldman, così Corbijn beneficia del talento enorme di Seymour Hoffman che ci lascia per sempre. La sua ultima replica è un grido di rabbia, il suo ultimo piano un perfetto epitaffio. Disilluso, solo e smisurato, esce di scena e dalla sua Mercedes. Perché i veri attori non sono quelli che godono all'accendersi delle luci ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere.

Il truffacuori - Heartbreaker (2010) Il truffacuori (2010)
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Commedia fresca, vivace, danzante. Il trio addetto al fallimento delle love story è una macchina di precisione infallibile che calibra a perfezione ogni possibile incastro e innesca reazioni di causa e effetto nella vittima sacrificale che, puntualmente, cade ai piedi del fascinoso Alex. Tutto cronometrato alla frazione di secondo; paesaggi romantici come dune sabbiose sorvolate da uccelli rarissimi (appena liberati da una voliera), una frase opportuna del tipo 'tu meriti di più', un ricordo passato legato ad un pianto scrosciante e il successo è assicurato.
Insolita interpretazione di Romain Duris che con un look latino americano (capelli lunghi e folti e barba incolta) e battute di spirito, diventa irriconoscibile a chi l'aveva visto smunto, pallido e rasato in Parigi o dilaniato dai dilemmi in Tutti i battiti del mio cuore. Eccolo adesso: camaleontico, caleidoscopico, bluffatore credibilissimo, crudele rovistatore della psicologia femminile alla ricerca del lato debole che farà cedere le donne alle sue finte avances. Eccolo a flambare dietro i fornelli di un jap fusion, alle prese col curling in una pista di ghiaccio, a cantare a squarciagola uno spiritual in perfetto stile Sister Act. Gli resiste Juliette, interpretata da una languida e tozza Vanessa Paradis che non ne vuol sapere di avere una guardia del corpo alle calcagna, soprattutto se sembra un grissino. I tentativi di seduzione inizieranno con un roquefort trangugiato al mattino e alterneranno valzer di Chopin al leggendario pezzo degli Wham 'Wake me up before you go go'.

Asterix e il regno degli Dei - Asterix: The Mansions of the Gods (2014) Asterix e il regno degli Dei (2014)
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Potete preferire Le 12 fatiche di Asterix o Asterix e Cleopatra, ormai classici intoccabili, ma di certo non rimarrete delusi da questo nuovo adattamento di un album del 1971, ancora attualissimo. D'altronde, lo firmano due veri appassionati dei fumetti gallici, uno dei quali (Clichy) ha fatto esperienza nel tempio degli dei dell'animazione statunitense - la Pixar- e l'altro (Astier) è il celebrato creatore di Kaamelott, serie cult sui cavalieri della tavola rotonda.
Il passaggio alla computer grafica non tradisce il segno di Uderzo, ma la riuscita del lungometraggio si deve soprattutto al rispetto dello spirito del fumetto, a quella combinazione di comicità e intelligenza che prende di mira le mode e le idisioncrasie della società francese contemporanea e che il film di Astier e Clichy amplifica con una serie di esilaranti ribaltamenti.
Il conflitto tra natura e cultura, che parte dal luogo comune - i Galli che pensano solo a menarsi e i Romani a "civilizzare" i barbari- lascia pian piano il posto ad un discorso più complesso, che prende in considerazione le divisioni interne a ciascun popolo, scherza sui pregiudizi legati agli stranieri e illumina al momento giusto l'importanza della fedeltà alla propria identità. Insomma tra Galli e Romani ci può essere una tregua, persino una fascinazione reciproca, ma poi è necessario che ognuno torni dalla sua parte del campo di battaglia, perché lo spettacolo possa continuare.
Se Asterix è il simbolo di questa resistenza, l'unico che non si fa abbindolare dai sesterzi di Roma, è Obelix il vero protagonista del film, colui che fa l'esperienza più ravvicinata degli invasori, grazie al rapporto di amicizia che stringe con una famiglia spedita in Armorica a far da far cavia alla migrazione di massa. La sua proverbiale golosità, le sue battute ("Mi dici a cosa servono i romani se non ci si può picchiare sopra"?), la sua tenera esageratezza sono responsabili delle risate e delle soluzioni narrative, almeno nella metà dei casi. L'altra metà del divertimento è assicurata dai romani e da Plusquamursus in particolare: centurione assegnato alla trasferta, vittima di un manipolo di schiavi ultra sindacalizzati e di un altro fronte di legionari gelosi degli schiavi, rassegnato nello spirito e furbescamente diplomatico nei modi, Plusquamursus è un personaggio che sembra uscito da una commedia all'italiana dell'epoca d'oro del genere.

Acque profonde - Deep Water (2022) Acque profonde (2022)
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Per quanto la bravura di Ben Affleck e di Ana de Armas sia conclamata, il film non riesce a mettere in luce al meglio il loro potenziale.
Seppur definito da molti siti come un film psicologico (come lo sono ad esempio Inception o Shutter Island), qui di psicologico c'è ben poco; una moglie fedifraga ed un marito possessivo.
Bello nel completo ma definibile come "film lento".

Knockout - Resa dei conti - Haywire (2011) Knockout - Resa dei conti (2011)
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Dopo la tenacia jeans e camicetta di Erin Brockovich e il sesso d'alto bordo raccontato attraverso la vera pornostar Sasha Grey (in The girlfriend experience, inedito in Italia), Knockout, pur non regalando sorprese dal punto di vista della trama, colma un gap finora mai considerato (almeno dal cinema di serie A statunitense) proprio grazie alla scelta del corpo da ritrarre.
A menare senza sosta Michael Fassbender, Ewan McGregor (in una scazzottata controluce sul bagnasciuga che ricorda l'inizio di Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà), Channing Tatum e, fuoricampo, Antonio Banderas è infatti Gina Carano, campionessa di Muay Thai e poi di Arti Marziali Miste prestata al cinema. Di lottatori autentici diventati attori ce ne sono infatti decine, di donne lottatrici, dotate di sguardo intrigante, volto da star e presenza scenica degna di un film di primo piano nessuna, solitamente quella è materia da B movie. Gina Carano è la prima a fare quello che nel cinema asiatico è la regola, ovvero portare anche il corpo della donna ai confini atletici, esplorandone la plasticità in una dimensione che non è quella del ballo ma quella (cinematograficamente attigua) della violenza.
Se la girandola di tradimenti e voltafaccia che porta avanti la trama di Knockout non pare essere stata frutto di grande perizia in fase di scrittura, lo è invece la Mallory Kane interpretata dalla Carano, contractor destinata alla morte che si ribella al destino che i superiori hanno deciso per lei partendo alla caccia del suo boss (coincidentalmente anche ex ragazzo). La donna in fuga è dotata di un dinamismo e un furore che non la farebbero sfigurare in qualsiasi pellicola d'azione pura, riempie le scene pensate per lei da Sodebergh e dimostra con i fatti e non con le parole (anche in originale è stata doppiata) come il corpo femminile sullo schermo possa essere piegato e declinato in molti modi diversi dal monotono fuggi-e-fatti-catturare che Hollywood predilige o dal machismo/maschilismo dei film (americani) con Cynthia Rothrock.
Quindi si perdona a Sodebergh il ritmo blando del film, il montaggio non impeccabile delle sequenze più complesse (limitare ancora di più gli stacchi e dare più spazio alle performance reali di Gina Carano sarebbe stato opportuno), l'inesperienza nell'action movie e il suo stile invadente, qui più fuori luogo che mai, davanti alla messa in scena di uno dei più lampanti esempi di ripensamento della donna al cinema, a partire da quel suo corpo che spesso è il pretesto per uno sminuimento.

I padroni della notte - We Own the Night (2007) I padroni della notte (2007)
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James Gray aveva interessato la critica e il pubblico internazionali con Little Odessa. Peccato che poi i suoi temi siano rimasti sempre quelli (la mafia dell'Est, la polizia) inseriti in film d'azione che, nonostante i proclami di riferimento a modelli alti come Visconti e il Neorealismo, risultano estremamente stereotipati. Senza anticipare nulla sul finale non si può mancare di dire che, oltre a tutto, un'azione decisamente illegale compiuta da un appartenente al corpo della polizia di New York sotto gli occhi dei colleghi non solo viene consentita ma addirittura premiata. Assomiglia un po' troppo a una soluzione da western della decadenza per divenire accettabile in un film poliziesco metropolitano. Anche nell'era Bush. (2 stelle perchè Duvall, qualsiasi ruolo ricopra, è sempre un grande attore).

Solomon Kane (2009) Solomon Kane (2009)
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Alla base dello script c'è un personaggio creato dallo stesso autore che ha inventato Conan il Barbaro: Robert E. Howard. Di tempo ne è passato sugli schermi e la tecnologia disponibile oggi non è quella di un passato pur recente ma che resta comunque passato. Rimane però intatta la voglia di fare spettacolo quasi allo stato puro. Michael J.Bassett trova in James Purefoy (da ricordare come Marco Antonio nella serie Roma) il giusto physique du role. La vicenda non brilla di particolare originalità riproponendo le Forze del Male in modo potremmo dire quasi classico. Cosa distingue allora questo personaggio alla ricerca di se stesso da tanti altri visti nei fantasy di qualità più o meno alta? La differenza sta non tanto negli effetti speciali quanto piuttosto nella descrizione di un'epoca dominata (notiamo bene: in Inghilterra non nella tradizionalmente e iconograficamente cupa Europa del Nord continentale). Neve e pioggia si contendono volti e anime così come è quasi tangibile la sensazione di un secolo pervaso da invasioni e da un senso della morte e dell'occulto che va oltre le facili soluzioni. Costumista e scenografo hanno negli occhi la pittura di quel tempo che a volte citano esplicitamente e in altri casi inseriscono a costruire un clima in cui il senso di colpa domina l'umanità e il terrore (originato dagli uomini così come dalle forze sovrannaturali) pervade le fibre di chi ancora è capace di distinguere e deve decidere da quale parte stare.

La mia Africa - Out of Africa (1985) La mia Africa (1985)
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Film capolavoro capace sempre di emozionare.Le ambientazioni, i paesaggi, i colori della natura africana sono semplicemente magnifici ed in perfetta armonia con le musiche, a cui sicuramente il film deve parte della sua fortuna.La storia, straordinariamente interpretata dagli attori, affascina perchè consente di vivere, o meglio di rivivere insieme ai personaggi, quelle vicende in cui si intrecciano amore, passione, tradimenti, gelosia.Il film rappresenta la volontà di continuare a vivere, e non sopravvivere, nonostante tutto.La protagonista interpreta il desiderio di liberarsi dall' ipocrisia, dall' umiliazione, da un matrimonio di convenienza utile solo all' apparenza ed alla rispettabilità sociale.E'propio il personaggio femminile che guida il corso della vicenda, e sono propio i suoi sentimenti e la sua forte personalità a guidarla verso l'amore e la felicità.La storia è fortemente realistica e non astratta propio perchè si rivivono in tutto film le stesse emozioni provate dai protagonisti.Si ha propio la sensazione di essere quelle persone, in quei luoghi, sotto quel cielo ad ascoltare i suoni di quella straordinaria Africa.Il film è una scelta di vita, in cui si sceglie di lasciare tutto per vivere in un nuovo mondo che si scopre essere il propio mondo, cioè quello che realmente senti come tuo e senza il quale senti mancare ogni cosa.La protagonista trova in Africa la sua casa, dove finalmente è libera di vivere la sua vita, o meglio una vita da lei scelta che è capace di condurla alla libertà, alla felicità, ma soprattutto all' amore.Ma come nella vita reale, a volte la felicità è legata alla sofferenza.La tragica morte dell'uomo di cui la protagonista s'innamora, mette fine ad una vera e magnifica storia d'amore che va al di là del tempo. La fine del film non è segnato solo dal dolore, ma anche dal coraggio, dalla forza, e soprattutto dalla speranza di continuare a vivere perchè adesso la protagonista ne è capace, perchè adesso sa cosa vuol dire vivere la propria vita.

Lady in the Water (2006) Lady in the Water (2006)
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Il film di Shyamalan pretende un atto di fede. Se non credete alle fiabe, se siete cinici prima ancora che scettici o se credete, come Mr. Farber, il critico letterario e cinematografico del condominio, che tutto sia stato già raccontato e nel mondo non ci sia spazio per l'originalità e l'incanto, lasciate stare. Se invece avete bisogno di credere in fatti inverosimili, in creature fantastiche e siete disposti ad aiutarle nella loro nobile impresa di salvare il mondo, allora tuffatevi nella piscina del Cove, perché Lady in the water è una fiaba straordinaria. Il film del regista, congedato dalla Disney e accolto dalla Warner, è un'opera metalinguistica. Story, la protagonista, è la storia che si rivela mentre si racconta. Fuori dall'acqua S/story annuncia il suo scopo e i meccanismi narrativi da mettere in atto per raggiungerlo, i personaggi e i ruoli funzionali alla riuscita dell'impresa, al ristabilimento della situazione di equilibrio iniziale e alla sconfitta dell'antagonista che in una fiaba è sempre cattivo. Se la comunità di The village si nascondeva al mondo contemporaneo creando un nemico esterno per proteggere la propria sorte, bloccata sul finire dell'Ottocento, in Lady in the water la comunità, americana e multietnica, esce allo scoperto per combattere un nemico reale e garantire la propria emancipazione. Il mondo rappresentato nel cinema di questo autore è sempre diviso in due: vi persiste un confine che separa un intero ed è la paura la chiave d'accesso alla parte interdetta. L'aiutante, colui che secondo lo schema proppiano aiuta l'eroe, qui eroina, a compiere l'impresa è Cleveland, che come il prete di Mel Gibson (Signs) ha perso la fede. Ma nel cinema di Mr. Shyamalan è consigliabile ritrovarla subito, non credere potrebbe costarvi qualcosa di più del prezzo del biglietto.

Il mio ragazzo è un bastardo - John Tucker Must Die (2006) Il mio ragazzo è un bastardo (2006)
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C'è chi decide di vendicarsi. Direttamente dall'America, con le sue scuole in pompa magna, le sue ammiccanti cheerleader e i suoi sogni di gloria, un vanesio rubacuori fa strage di adoranti ragazzine come un giovane Zelig vecchia maniera, meno colto e più spartano, pronto ad ascoltare dischi di Elvis Costello o a battersi contro le brutali uccisioni di poveri animali, per il solo gusto di compiacere la compagna di turno.
Uscito in Italia col titolo di Il mio ragazzo è un bastardo, le avventure di John Tucker si distinguono, sommato il tutto, da tante pellicole simili grazie al buon gusto della sceneggiatura, a una sensata comicità e all'assenza di volgarità gratuite, cosa non da poco visti i precedenti del genere. L'altra faccia dei college americani - nel filone iniziato con Animal House e proseguito con la saga di American Pie - si inserisce bene in una programmazione estiva senza troppe pretese, consigliato per una serata all'insegna della leggerezza e di quattro risate in compagnia. Buone le interpretazioni del cast, fra cui un Jesse Metclalf, al suo esordio cinematografico, ma già famoso per essere il caliente giardiniere delle casalinghe disperate.

Come può uno scoglio (2023) Come può uno scoglio (2023)
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"Come può uno scoglio" si propone come una commedia che, pur cercando di strappare risate, finisce per offrire un umorismo che risulta **troppo sciocco e artificiale**.
La comicità, anziché scaturire da un genuino spirito di osservazione, sembra essere il risultato di tentativi goffi e prevedibili, che non riescono a mascherare la loro mancanza di autenticità. Le battute, piuttosto che fluire naturalmente, appaiono come inserite con forza, lasciando lo spettatore con la sensazione di un divertimento **troppo costruito e poco sincero**.
In questo contesto, sorprendentemente, sono gli _attori secondari_ a brillare, superando i protagonisti in termini di presenza scenica e capacità interpretativa. Questi talenti dovrebbero essere (da come il regista li mostra) minori e di contesto ,invece, _a mio avviso_, portano **una ventata di freschezza e autenticità** che contrasta con la performance a volte **troppo caricaturale** e meno convincente di Pio e Amedeo. La loro abilità nel dare vita ai personaggi secondari, spesso con poche battute o scene, dimostra che a volte _meno è più_, e che la qualità dell'interpretazione non dipende dal tempo di schermo o **dalla fama**.
> **In definitiva**
"Come può uno scoglio" è un film che, nonostante alcune premesse promettenti, delude per la sua incapacità di offrire una comicità di sostanza e per la mancanza di equilibrio tra i membri del cast.
Il risultato è una commedia che, pur avendo l'ambizione di far ridere, si perde in un mare di tentativi falliti e di opportunità mancate.

Land of Mine - Sotto la sabbia - Land of Mine (2015) Land of Mine - Sotto la sabbia (2015)
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Il film percorre le tappe di una storia carica di tensione emotiva, che costringe lo spettatore all'apnea dei primissimi piani di fronte al cuore di un esercito di bombe pronte ad esplodere. I volti puliti dei giovani prigionieri sono i caratteri di un intero popolo che, dopo aver messo l'Europa a ferro e fuoco, è stato costretto a richiamare alla leva ragazzini di tredici anni. Vediamo quindi il leader naturale Sebastian, il cinico insofferente Helmut o i dolcissimi gemelli Ernst e Werner strappati ai sogni infantili per riscoprirsi affamati e impauriti in un tratto di mondo che desidera solo vederli morire.
La fotografia fredda di un'ambientazione incantevole stride con i caratteri infernali di cui è imperniata la vicenda, in cui l'aridità degli animi si contrappone ai panorami mozzafiato di un deserto in riva al mare. Lo spettatore è in balìa di una narrazione ben costruita che genera una tensione costante, con una regia che predilige il più delle volte l'omissione alle immagini esplicite. La scelta di silenzi carichi d'intensità, rafforza l'efficacia delle lunghe sequenze del film, con le musiche a fare da contrappunto con brevi sonorità, subito interrotte da una rinnovata quiete apparente - e devastante.
Ne esce un'immagine di desolazione e impotenza, addolcita solo dal sergente Rasmussen che riporta tutto ad un senso di rettitudine ammirevole grazie a una rinnovata empatia con i ragazzi. Il bagliore alla fine del tunnel, il confine con la Germania a poche centinaia di metri, risulterà però pretenzioso e un po' poco credibile laddove il cambio di tendenza sentimentale del capitano per i suoi prigionieri è un pretesto debole per il disgelo totale delle relazioni che conducono alla liberazione. Per un film che è riuscito a mantenere una linea lucida e realistica, il rischio era quello di scadere nella retorica, ma Zandvliet riesce a sublimare l'importanza degli sguardi dei ragazzi scomparsi a scapito delle parole dei superstiti, relegando la salvezza solo a un'anomalia.

Io, Daniel Blake - I, Daniel Blake (2016) Io, Daniel Blake (2016)
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Quando racconta l’Inghilterra proletaria della contemporaneità, Ken Loach raggiunge sovente le vette della sua arte cinematografica, riuscendo a mettere in immagini il districarsi nell’apparente banalità quotidiana in modo da comunicare un impatto emotivo a tratti sconvolgente. L’equazione si ripresenta anche in questa nuova pellicola – a dispetto del ‘ritiro’ annunciato qualche tempo fa – ma il meccanismo si inceppa da qualche parte: il film è bello e regala momenti di scomoda partecipazione eppure l’impressione di fondo è che il regista inglese sia stato più efficace in altri lavori. Quando si riaccendono le luci, non si può negare che faccia capolino il dubbio che il premio a Cannes sia stato più alla carriera (e/o forse alla tematica) che legato alle qualità cinematografiche di un’opera che resta esplicita (e manichea) come le precedenti, ma senza le sfumature che in queste facevano la differenza. Daniel è un carpentiere vedovo che un infarto ha messo in una situazione di stallo: per il medico non può lavorare, per la società a cui lo Stato ha appaltato la gestione dell’assistenza ai lavoratori sì. Perciò, non riesce a percepire né il sussidio per la malattia, nè quello di disoccupazione, perché dovrebbe dimostrare di cercare un lavoro che comunque non potrebbe svolgere. Mentre combatte contro la burocrazia (e la sua cronica incapacità con i computer) per giungere a una revisione della sua posizione, incrocia la sua strada con quella di Katie (Hayley Squires), disoccupata con due figli a carico: tra i due si instaura una sorta di solidarietà tra gli ultimi che consente a entrambi di trovare la forza per continuare a lottare. Attraverso le loro storie in un certo modo speculari, Loach mette (ancora una volta) nel mirino il capitalismo dal volto disumano che tratta gli esseri umani come numeri e li scarta senza pietà quando non sono più produttivi e/o utili: Dan batte di continuo sul tasto del suo essere un cittadino con dei diritti e una dignità da difendere, aspetti che una società impietosa non sembra più disposta a prendere in considerazione. Il regista ambienta la vicenda negli case disadorne (anche perché i mobili bisogna venderli per campare) della periferia di una Newcastle fotografata con i colori spenti da Robbie Ryan e calibra con perizia i momenti duri – che raggiungono l’apice nella scena alla Banca del Cibo – con tocchi di commedia che vanno dalle difficoltà informatiche ai piccoli capitalisti vicini di casa (Kema Sikawze) per finire con la plateale protesta di Dan all’ufficio di collocamento. L’efficacia dei singoli passaggi viene però ridotta dallo svolgimento complessivo che patisce una certa debolezza negli snodi del racconto per la quale le maggiori responsabilità vanno ascritte alla sceneggiatura di Paul Laverty: malgrado l’empatia dei ragazzini, in particolar modo della maggiore Daisy (Briana Shann), il rapporto tra Dan e la famiglia di Katie fa a volte pensare più a una sovrapposizione che a una vera dinamica narrativa. Uno dei punti di forza è invece la prova degli attori, ulteriore dimostrazione della capacità di Loach di scegliere visi comuni eppure sempre significativi: Dave Johns viene dalla televisione, ma riesce a restituire con notevole bravura lo spaesamento di Daniel di fronte a una realtà che sembra sempre di più un tragico teatro dell’assurdo. E’ davvero impossibile non immedesimarsi nelle tribolazioni di questo ruvido dal cuor d’oro, disposto a scendere a compromessi ma sempre alla condizione di tenere la testa alta: una sensazione che permane a film abbondantemente concluso, dimostrando che, al dilà dei difetti contingenti, Ken il Rosso sa alla perfezione come rendere potente l’impatto del suo cinema.

È complicato - It's Complicated (2009) È complicato (2009)
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Nancy Meyers sa "quello che le donne vogliono", sa che non smettono mai di volerlo, che l'età non conta, e non si chiede se dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna, ma sa bene che dietro ad una buona commedia occorre ci siano tanto l'uno quanto l'altra. Dopo Nick Nolte e Julia Roberts, Mel Gibson e Helen Hunt, dopo Jack Nicholson e Diane Keaton, Kate Winslet e Jack Black, è la volta della strana coppia Meryl Streep - Alec Baldwin.
C'è qualcosa di bello e di vero anche in questo film della Meyers, che posiziona il dolore nell'antefatto, e dunque nel silenzio, ma senza negarlo, e consuma la commedia come un esorcismo, indubbiamente una delle sue funzioni primarie e primogenite. Perché tutto questo debba venire (regolarmente) infarcito con dosi king size di crema, sia essa all'uovo, di limone o antirughe, permane un mistero e un inconveniente.
Sceneggiatrice esperta, produttrice sagace e regista ormai comprovata, la Meyers sembra sempre e comunque più attratta dal mondo dell'interior design che da qualsiasi altro. La casa è al centro del suo universo cinematografico, una casa che tutto possiede e tutto fagocita e che sia sempre e comunque ampliabile, architettonicamente (a giustificare la figura di Adam e il suo possibile inserimento nel nucleo famigliare) o metaforicamente ("Casa dolce casa" sospira Baldwin post coitum).
Nel novero delle debolezze del film va segnalata anche la brevità della miccia, per cui la prima mezz'ora imposta lo spasso e poi è solo un andare a ruota, e la stanchezza di alcune scenette di repertorio, come quella che vede l'ex marito della protagonista sbilanciarsi per spiare dalla finestra e finire gambe all'aria. Ma va reso merito a È complicato di possedere anche una scena dal riso (alterato e) davvero contagioso e un grandissimo John Krasinski nei panni del fidanzato della figlia maggiore degli Adler.

Piacere, sono un po' incinta - The Back-Up Plan (2010) Piacere, sono un po' incinta (2010)
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La tempistica non è il suo forte, ma Jennifer Lopez ha dalla sua una gran "fortuna", si sa. Il film ci scherza su, complici le dimensioni e le licenze che la gravidanza richiede e permette, e in questo lato un poco trash ma anche veritiero c'è tutto il carattere del film, il suo bene e il suo male. Si gioca di accumulazione - a partire dal numero dei neonati - e di esagerazione - la nonna ottuagenaria che si fa corteggiare per ventidue anni da un fidanzato più vecchio di lei - per raccontare una piccola parabola sull'accettazione, apparentemente insofferente ai comandamenti estetico-morali della commedia rosa ma in ultima istanza fedelissima e non priva di ambiguità.
Smontando e rimontando la sequenza della fiaba sentimenale per movimentare il ritmo interno del copione e stare al passo con quello del mondo esterno, Piacere, sono un po' incinta non narra tanto la difficoltà dell'uomo di accogliere una paternità non naturale ma quella della donna di veder saltare il suo piano, per quanto di riserva (The Back-Up Plan è il titolo originale) e di fidarsi di qualcosa che appare troppo bello per essere vero. Il film le dà man forte, facendosi bello degli aspetti sgradevoli ma realistici che mostra: principia, perciò, con l'eroina semicapovolta sul prosaico letto di ferro di un ginecologo, le riserva una prima notte d'amore in una cantina piena di formaggi messi a stagionare e si compiace di un climax che maschera un parto naturale domestico da sequenza di un horror psichiatrico.
Quel che accadrà, a questo punto, a Zoe, non può che essere più soft e più romantico del reale, ma resta curiosamente fuori scena, quasi fosse poco interessante, perché quel che preme, nel finale, è giungere al matrimonio, rassicurare, riparare. Jennifer ci casca, noi no.

Killer Joe (2012) Killer Joe (2012)
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Dopo aver firmato almeno una pietra miliare per ogni decennio di attività, William Friedkin arriva alle porte del secondo decennio del nuovo millennio con un film in pieno stile pulp, che lui (e non solo) sembra considerare l'aggiornamento del noir (la doppia indennità della trama fa subito pensare a La fiamma del peccato). Prendendo le mosse dall'omonima opera teatrale di Tracy Letts (riscritta per lo schermo da lei stessa), Killer Joe si assesta dalle parti dello stile tarantiniano, per quanto riguarda l'appeal, l'umorismo e la spiazzante stravaganza dei personaggi, e a quello dei fratelli Coen sul versante dei risvolti di trama e di una più generale visione nichilista del mondo.
Sotto una superficie aliena però batte forte il cuore del regista di Vivere e morire a Los Angeles, che calza i panni di un genere nuovo (per lui) non come un travestimento ma come un buon abito. Lo si vede nel rigore dello stile (estraneo ai registi precedentemente citati), nella sapida asciuttezza dei momenti più determinanti, nella ferma chiarezza d'intenti di un film che corre come un treno verso i suoi cinque minuti finali e soprattutto nel modo in cui, ancora una volta, Friedkin lavora con i suoi attori.
Matthew McCounaghey in un ruolo tra il comico e il terrificante, bello, rassicurante e pronto a diventare disturbante in un attimo, è il capolavoro del regista. Con l'abilità che gli è riconosciuta nel caratterizzare scene e personaggi attraverso i movimenti e l'uso di tutto il loro corpo, spesso con inquadrature a figura intera, spesso con lunghi piani sequenza, Friedkin riesce a trasformare uno degli attori finora meno malleabili. La sorpresa dei protagonisti nel trovarsi preda di quello che doveva essere un loro dipendente è la stessa che lo spettatore prova nel vedere il lento mutamento di un attore che ha la commedia romantica marchiata sui pettorali.
Da quel corpo pulito da bravo ragazzo Friedkin parte e attorno a lui fa ruotare Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Juno Temple e Gina Gershon, i quali, di volta in volta, sembrano guadagnarsi il ruolo da protagonisti. Eppure alla fine sarà McCounaghey a incarnare il senso ultimo di un viaggio nell'America violenta e spietata, una piccola parte di un mondo dominato dal caos.

Proposta indecente - Indecent Proposal (1993) Proposta indecente (1993)
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Film di grande successo proprio a causa dell'ipocrisia che dispensa sapientemente al pubblico. Una trama invereconda che solo per la presenza discreta di Redford appare meno insulsa di quanto non sia. Incredibile la supposizione che il laido Woody Harrelson possa competere con il pur attempato divo. Una barzelletta dilatata ad arte per la pruderie di un pubblico in vena di finte trasgressioni.