Il titolo inganna (e quello italiano è campato in aria): benchè immerso in un’atmosfera di latente violenza (sotto questo punto di vista il 1981 fu l’anno peggiore per New York), siamo di fronte a uno studio di caratteri con al centro un ‘uomo d’onore’ che vuol davvero mantenere il suo ‘onore’ in un mondo (degli affari e politico) che è corrotto.
La corruzione viene dal denaro ed è un’illusione tenere le mani pulite: se Abel (Oscar Isaac) può in qualche modo pensare di esserlo è grazie al lavoro sporco dell’avvocato (Albert Brooks) e soprattutto della moglie Anna (Jessica Chastain) che qua e laà pare lady Macbeth. Il ‘sogno americano’ è fatto anche di questo e Abel, immigrato che sta facendo fortuna nella distribuzione dei carburanti scontrandosi così con una serie di piccoli potentati più o meno mafiosi, per difenderlo ha bisogno di un mucchio di dollari che necessitano compromessi (e se compare una pistola. prima o poi sparerà).
Essendo un film incentrato sui personaggi, il ritmo è compassato, ma sa immergere nella storia quasi senza sbavature, la fotografia invernale di Bradley Young è perfetta e Isaac regala un’interpretazione notevole all’altezza di un giovane Al Pacino.
Un colosso della pirotecnica condito di suspense con agganci un po' pretestuosi di critica verso i politici che riducono i finanziamenti pubblici ai vigili del fuoco. De Niro e Sutherland offrono due caratterizzazioni che lasciano il segno. Howard rimane un regista indecifrabile e inclassificabile che lascia incerti nel giudizio. Il titolo originale, Backdraft, significa in gergo "fiammata di ritorno".
Brian De Palma, il maestro del manierismo cinematografico, colto e spettacolare insieme, questa volta ha mancato l'obiettivo per metà. Se infatti ha realizzato un film che 'tiene' sul piano degli effetti speciali, non altrettanto è riuscito a fare per quanto riguarda la storia.
Scritto da Nicholas Kazan, è un poliziesco che ha radici nella melma metafisica-mistica-esoterica del soprannaturale, con ambizioni allegoriche più che metaforiche. Il tocco del Maligno, come l'Aids e le altre paure da fine secolo? Nonostante i bravi attori (Goodman, Davidtz e Joy in particolare), una regia efficace e la musica del cinese Tan Dun, il meccanismo dell'azione prevarica sul disegno dei personaggi.
Steven Brill non è un nome nuovo nell'ambito della commedia. Ha infatti scritto e diretto per Adam Sandler Little Nicky - Un diavolo a Manhattan (2000)e Mr. Deeds (2002). La sceneggiatura che si trova a disposizione gli consentirebbe di inserirsi nel filone di film come Adam Sandler: Otto notti di follie o di Una notte da leoni oppure di fare addirittura di più. Perché l'appassionato di cinema ricorda come due veri autori abbiano saputo trattare con feroce ironia l'incubo notturno dei loro protagonisti. Martin Scorsese in After Hours e John Landis in Tutto in una notte hanno saputo offrire un risvolto di riflessione esistenziale alla concatenazione di eventi messi in scena. Brill si limita ad inanellarli senza fare molto d'altro.
Ciò che lo riscatta dalla caduta nella più scontata mediocrità è la scelta della protagonista (un'Elizabeth Banks che riesce a reggere qualsiasi situazione ivi compreso il corrivo finale) e di alcuni caratteristi. Su tutti spiccano i 3 spacciatori di crack (capaci di regalare un'occasione di divertimento nel breve tempo in cui restano sullo schermo) e un temibile gatto.
Ci sono fasi della storia del cattolicesimo che sono rimaste nell'ombra e sicuramente quella della presa di potere da parte dei cristiani di Alessandria, guidati da un vescovo autoritario e violento salito anche all'onore degli altari, appartiene al versante di cui non è il caso di andare fieri e neppure di cercare alibi in una diversa sensibilità rispetto al passato remoto. Il cinema, quando gliene viene offerta l'opportunità, fa bene a fare luce anche su questi aspetti. Se si prende delle licenze narrative può anche essere giustificato da esigenze di trasposizione. Quella che però non può essere in alcun modo apprezzata è la scelta linguistica adottata in questa occasione da un pur apprezzato regista quale è Alejandro Amenabar.
Dinanzi a una tematica così complessa il regista spagnolo sceglie la via del "peplum post litteram" in cui tutto è palesemente finto e si finisce con l'attendere il Maciste di turno che faccia crollare le colonne di gommapiuma del lontano passato di Cinecittà. L'eroina è proprio bella (e muore nuda), i cattivi sono cattivi che più non si può (e sono tutti dalla parte dei cristiani) e non c'è costume a cui manchi il cartellino della tintoria. Se ci si aggiunge qualche lezioncina sull'astronomia del tempo e qualche scontro armato dilatato per fare metraggio si raggiunge la durata giusta per un passaggio televisivo in due parti. Ma ci sono miniserie tv come Empire che hanno meno pretese e una resa perlomeno uguale.
Alla base del FILM c'è la sua autobiografia del 2014.
Non è probabilmente perfetto l'ultimo thriller politico di Sydney Pollack, sospeso tra New York e i corridoi delle Nazioni Unite, eppure resta addosso come il dolore indicibile dei due protagonisti: Silvia, una Kidman dalla bellezza esagerata anche quando costretta in abbigliamenti rigorosi e senza eccessi, e Tobin, un Sean Penn impareggiabile e livido dentro la normalità della divisa federale. La sobrietà ricercata che indossano non riesce comunque a contenere la loro eccezionalità, dentro e fuori lo schermo. Silvia e Tobin nel clima "armato" di terrorismo internazionale cercano e trovano un mondo diplomatico dell'anima, un territorio oggettivo in cui comunicare e raggiungersi. Un luogo che Pollack esplora e traduce visivamente con l'edificio ONU, situato nell'East Side di Manhattan, che per la prima volta mette a disposizione della macchina da presa le sue stanze e i suoi corridoi, concedendo a Pollack ciò che negò ad Hitchcock. Il regista inglese per girare alcune scene di Intrigo internazionale fu costretto a ricostruire in studio la "sala dei visitatori".
Come i suoi protagonisti, Sydney Pollack crede nel potere della parola in grado di negoziare l'accesso all'ONU come la pace.
La pace pubblica e privata, quella del mondo e quella della coscienza.
Che a Lasse Hallstrôm venisse prima o poi la tentazione di replicare il successo ottenuto con Chocolat sembrava a molti quasi inevitabile ma che ne realizzasse addirittura una copia conforme a 14 anni di distanza forse pochi se lo aspettavano. Perché questo film ha esattamente la stessa struttura del modello di riferimento innestandovi qualche variante che però non ne modifica sostanzialmente la ripetitività. Hallstrôm conta evidentemente su un'audience che non abbia memoria della vicenda che vedeva in azione la chocolatier Binoche oppure spera che il ripercorrere una strada un tempo battuta con successo crei un piacevole effetto deja vu. L'apertura lascia ben sperare con il dibattito tra il doganiere ed Hassan sull'essere cuochi, sull'amore per il cibo (che il regista si premura di mostrare in dettagli che sollecitano la produzione di succhi gastrici). Anche perché dalla sua Hallstrôm ha quell' Om Puri che molti in Occidente impararono ad apprezzare quando apparve nell'indimenticabile East is East. Padre attento quanto testardo e legato al proprio passato e alle tradizioni culinarie indiane, il personaggio da lui interpretato costituisce l'anima comica del film. Il quale però rispetta con cura tutti i ruoli che Propp seppe individuare in "Morfologia della fiaba". L'eroe, l'antagonista, l'aiutante ecc... sono tutti presenti. Quella che latita è l'originalità.
Garbata commedia romantica molto francese basata sul ribaltamento delle convenzioni sociali e delle aspettative di genere e generazionali, 20 anni di meno fa leva tanto sull’interazione fra i personaggi quanto sulla cornice che li incastona e li incasella: la messa in scena della Parigi delle mostre d’arte e delle sfilate di moda, la redazione glamour in cui lavora Alice e la location surreale in cui viene allestito un servizio di moda sono quadri di contemporanea vacuità, gabbie luccicanti di conformismo edificate in celebrazione del culto dell’apparenza.
Alice e Balthazar giocano contro ogni possibile stereotipo, sfuggendo alle sbarre strette dei rispettivi ambienti (giacché i corridoi universitari e le feste sballate cui partecipa Balthazar sono altrettanto limitanti) e si scoprono più simili di quanto le loro età e le loro esistenze lasciassero immaginare. Il personaggio che meglio sfugge allo stereotipo resta però il padre di Balthazar, Pierre, interpretato dal bravo attore drammatico Charles Berning, che rivela qui una bella vis comica nel disegnare il ritratto di un eterno adolescente solo apparentemente superficiale e in realtà capace di intuizioni e attenzioni inaspettate.
La commedia scorre come acqua fresca, complici i movimenti di macchina fluidi e le frequenti trovate creative (il cartone dei traslochi che “chiude” lo schermo, oscurando la visuale del pubblico) lasciando però pochi sedimenti, a parte alcune battute riuscite (come la definizione metacinematografica di Balthazar: “Un Dujardin rimpicciolito”) e certe ricostruzioni di giungle professionali impietosamente esatte pur nella loro esagerazione surreale. Mancano il guizzo comico e il graffio satirico, solo in parte compensati dall’assenza di volgarità, che è sempre dietro l’angolo quando si parla di una coppia generazionalmente disassortita, e dalla cura quasi maniacale dell’insieme.
Una nuova versione di Cenerentola. Non più remissiva ma forte e aggressiva, addirittura femminista. L'operazione, condotta dal regista attore Tennant vuole essere un'originale contaminazione fra le versioni nelle varie stagioni. Bravi gli attori, a cominciare dalla cattiva matrigna (Huston).
Se, come in questo caso, in fase di lancio si punta soprattutto sui nomi degli attori, o magari dei produttori, scrivendo in piccolo o addirittura tralasciando quello del regista, qualche sospetto si insinua. Una diffidenza che si somma alla constatazione che alla tragedia scespiriana si sono ispirati in millanta, da Verdi a Kurosawa, e che sul grande schermo i risultati sono stati spesso egregi a partire dal maestro giapponese e proseguendo con artisti del calibro di Welles e Polanski. Tutti presupposti che portano ad avvicinarsi con fare dubbioso al film del giovane australiano Kurzel che invece, seppur solo al suo secondo lungometraggio, riesce a vincere la sfida dando al racconto una ben precisa impronta visiva tanto da ripagare appieno la scommessa fatta su di lui da SeeSaw (‘Il discorso del re’, ‘Shame’). Lavorando sulla base della sceneggiatura che Jakob Koskoff, Todd Louiso e Michael Lesslie hanno tratto dalla tragedia asciugando parecchio, ma mantenendo l’essenziale (anche se forse nella seconda parte si salta in modo un po’ troppo secco da una situazione alla successiva), Kurzel firma un dramma cupo e violento, pieno sì di clamore e di furia, ma che sa farsi ricordare pure per altri motivi. Innanzitutto per i piccoli, ma decisivi scarti dall’opera originaria – le streghe trasfigurate in quattro donne simboleggianti le età della vita, i figli dei protagonisti interpretati da bambini, la conclusione riambientata accennandone la drammaticità – e poi, con importanza decisiva, per il mirabile lavoro sulle immagini riguardo al quale è doveroso elogiare lo splendido contributo della fotografia di Adam Arkapaw, capace di rendere nitidi gli interni alla luce delle candele o dell’architettura gotica (seppur il gotico, ai tempi di Macbeth, dovessero ancora pensarlo) in contrasto a una natura non certo benigna. Gli esterni scozzesi appaiono gelidi e quasi senza vita – ma in che postaccio viveva il barone di Glamis? – sottolineati come sono da colori di smorta freddezza: una scelta cromatica che si ribalta quando il bosco di Birnam decide di andare a Dunsinane in un finale di notevole pessimismo in cui, morto Macbeth e sfinito Macduff (Sean Harris), gli eserciti continuano a marciare prefigurando il destino delle generazioni a venire. Si chiude così un cerchio, visto che la vicenda comincia con una sorta di battaglia dei giovanissimi conto il traditore Macdonwald, confuso e brutale scontro nella brughiera durante il quale, grazie a un efficace uso del rallentatore, viene messo in risalto il ruolo di Macbeth che fa giustizia, ma incontra per la prima volta le streghe che ne segneranno la condotta successiva. Il personaggio principale è l’immagine di quanto la brama di potere possa travolgere un uomo, in fondo leale e buono, in una spirale di perversione ai limiti della follia e oltre, laddove la moglie, che all’inizio è solletica l’ambizione del marito, ha almeno la forza e la disperazione, di ritrarsi dall’orrore: è forse per riavvicinarsi a lei dopo aver perso l’unico figlio che Macbeth (‘lui non ha figli!’ grida Macduff nel momento del massimo dolore) stabilisce di avverare la profezia, ma una volta oltrepassata la soglia del tradimento risulta impossibile tornare indietro, si tratti di colpire alle spalle l’amicizia (Banquo, interpretato da Paddy Considine) o la pietà (la famiglia di Macduff). L’apertura del funerale del piccolo erede di Glamis è l’unica aggiunta che convince poco, assieme forse alla realizzazione di alcune scene, come quella che precede il regicidio (nei panni di Duncan c’è David Thewlis) in cui le movenze teatrali di Macbeth contrastano con l’ambientazione naturale: sull’altro piatto della bilancia stanno però numerosi i momenti emozionanti, dalla preghiera finale di Lady Macbeth all’annuncio della sventura a Macduff per finire con il (celeberrimo) compianto del protagonista sul letto di morte della consorte. Tutto il cast si dimostra all’altezza del compito, con la parziale eccezione di Jack Reynor come Malcolm, ma è indiscutibile che l’attenzione sia tutta per l’interpretazione dei ruoli principali che, in effetti, non tradiscono le attese: Fassbender dà un’altra prova di sentirsi a suo agio con un personaggio tutto meno che simpatico cercando di farne brillare l’umanità, ma forse si fa preferire Cotillard nell’esprimere la nascosta fragilità di Lady Macbeth. In originale, il suo accento francese ha fatto storcere il naso a qualcuno, come del resto la babele di inflessioni dei vari attori, ma pare polemica inconsistente considerando il valore universale dell’opera che va ben al dilà dello ‘scottish play’: questione che non tocca lo spettatore italiano che non si può comunque lamentarsi di un buon doppiaggio.
C'è un proverbio inglese che dice: "The darkest hour is just before dawn" ("L'ora più nera è quella che precede l'alba"). È un modo poetico per dire che c'è sempre un barlume di speranza anche nelle situazioni peggiori. Ma è anche una buona sintesi per comprendere il tipo di intrattenimento che offre L'ora nera: classico b-movie che, in fondo al buio pesto della sua trivialità, rivela qualche scintilla d'ironia e qualche guizzo di intelligenza. E che chiede ben presto di non fermarsi alla sua superficie grossolana e ai suoi personaggi ai limiti del sopportabile, ma di cogliere dietro a quell'ingenuità catastrofica un insieme di riferimenti godibili alla fantascienza del passato e alla cultura giovanile del presente.
Non è certamente un caso, infatti, se uno dei generi che ha catalizzato per anni le paure anti-sovietiche nella cultura popolare americana decida di sbarcare proprio in Russia. Così come pare un curioso contrappasso che "le cose" venute dallo spazio attacchino una capitale dominata da marchi e loghi di multinazionali in variante cirillica, o che a garantire la sopravvivenza della specie siano alla fine dei vecchi sottomarini della Guerra Fredda. Il fatto è che in questa sorta di Blob dell'era digitale e post-comunista, gli alieni non sono neanche più interessati agli umani. Niente masse gelatinose e antropofaghe, né forze extra-terrestri decise a sostituirsi a noi mentre dormiamo. Solo una serie di fasci invisibili sensibili ai conduttori elettromagnetici e interessati a nutrirsi di tutti quegli elementi che alimentano la nostra tecnologia.
Per questo la tecnologia è ovunque ne L'ora nera: dalle application per gli smartphone fino a un campo di battaglia finale delimitato da dei telefoni cellulari. Perché solo nel buio della fantascienza per adolescenti più dozzinale si può realizzare un tale nuovo corto circuito fra vecchi immaginari. Lo sa bene Timur Bekmambetov (Wanted, I guardiani della notte) che, dopo aver riscritto in ipotetica versione orrorifica l'impresa dell'Apollo 18, si conferma produttore di sottogeneri retrospettivi che guardano alla competizione fra sovietici e americani come a un lungo b-movie da drive-in.
In questo nuovo contesto, i mostri diventano quelli che cercano di espropriarci delle nuove tecnologie, contro i quali l'unico rimedio per proteggersi è schermarsi dietro una teca di vetro. O, ancora meglio, dentro un Apple Store.
spirato a delitti realmente accaduti questo film torna a mettere l'uno di fronte all'altro Nicholas Cage e John Cusack che non si incontravano dai tempi di Con Air. Questa volta il confronto è a distanza con l'eccezione dell'ultima parte del film e la bilancia pende a favore di un maggiore spazio offerto alla psicologia del detective (Cage) rispetto a quella del killer (Cusack). Se infatti di Jack comprendiamo le motivazioni (spora a tutte un senso di protezione paterna) che lo spingono a cercare di risolvere il caso, Robert viene soprattutto mostrato in azione e i motivi (se così si possono chiamare) per cui uccide vengono più detti degli altri che non fatti emergere dalla sua presenza sulla scena. In realtà però il film (che ripercorre luoghi ormai più che comuni del genere) ha il pregio di centrare l'attenzione sulla fragilità di Cyndy Paulsen interpretata con grande adesione da Vanessa Hudgens.
Non è facile rendere le variazioni di umore, le paure, le insofferenze, le ricadute di una ragazzina finita nel giro della prostituzione soprattutto quando la vera Cyndy è tuttora vivente. In proposito va segnalata una nota stonata nei titoli di coda. Le immagini che vi appaiono (che si spera siano state autorizzate) contrastano con la musica che le accompagna. Quello che avrebbe dovuto essere un omaggio si trasforma in un macabro elenco.
Sono ormai decenni che Meryl Streep è riconosciuta come un’attrice brava e duttile, la migliore della sua generazione e probabilmente pure di quelle venute poi. Malgrado i rapporti non idilliaci con il sistema cinematografico (vedi la battaglia per la paritù di salario fra uomini e donne), la sua classe le ha sempre consentito di trovare ruoli da protagonista sebbene gli anni scorrano per lei come per tutti: parecchi si sono rivelati sfide non del tutto riuscite, ma in questo caso – grazie anche alla direzione di Stephen Frears, uno che ha il senso del tempo sia per la commedia, sia per il dramma – l’operazione ha successo sfociando in un’opera di stampo classico che sa regalare risate ed emozioni in egual misura. Meryl si infila negli opulenti panni di Florence Foster Jenkins, patrona della musica a New York nella prima metà del Novecento (ad esempio era amica dell’esule Toscanini, qui interpretato da John Kavanagh) con la fissa di saper cantare pur essendone totalmente incapace. Spalleggiata dal marito St. Clair, che ne fa di ogni a colpi di bigliettoni perché lei non rimanga delusa ma la tradisce con una ragazza assai più giovane, l’attempata signora arriva fino alla Carnegie Hall per un concerto che è al contempo il suo apice e la sua caduta quando infine qualcuno ha il coraggio di dire che il re è nudo. Il film racconta soprattutto la smisurata passione della protagonista per la musica, tanto che mai viene da compatirla per le sue penose esibizioni vocali (peraltro ancora ascoltatissime su internet): Streep, ingrossata da una certa quantità di cuscini, fa rivivere con delicatezza una donna ricca ma dalla vita difficile che trova nelle sette note la forza per un’esistenza entusiasta. La personalità dell’interprete e l’attenzione che vi pongono regia e sceneggiatura di Nicholas Martin fanno sì che il tema conquisti lo spettatore, facendo un po’ passare in secondo piano la denuncia dell’ipocrisia della buona società niuiorchese nonché dell’ambiente musicale nel suo complesso, quest’ultima ben simboleggiata dal venale maestro di canto Carlo Edwards. E’ inevitabile che una vicenda così al limite dell’assurdo generi un’infinita serie di situazioni divertenti che qui vengono costruite con un sicuro senso del ritmo e attraverso la notevole coloritura delle figure minori: in un buon numero di esse, spicca Simon Helberg nella parte del pianista McMoon che prima scettico, poi in qualche modo affascinato, accompagna i vocalizzi di Florence, interpretati dalla stessa Streep con un sovrabbondante uso di mimica facciale. A fare da contrappeso c’è il personaggio di St. Clair, attore fallito combattuto tra l’affetto per la moglie e il desiderio di evadere, nei cui panni Hugh Grant regala una prova insolitamente misurata e perciò per una volta davvero convincente. Attorno a loro opera un discreto gruppo di validi comprimari, fra i quali si fa notare la stellina di Broadway Nina Arianda nel ruolo della finta svampita Agnes, i destini dei cui personaggi si intrecciano in una Manhattan ricostruita di peso tra Inghilterra e Scozia (il set è a cura di Caroline Smith mentre i costumi sono della fida, per il regista, Consolata Boyle) e ripresa da Danny Cohen con colori in prevalenza caldi che ben si confanno a quello che è un ‘feel good movie’, sebbene accompagnato da una sottile vena di malinconia che diventa protagonista nella conclusione. L’addio di Florence alla vita è difatti una scena madre regalata da Frears alla sua primattrice per mezzo di un lungo primo piano che ne restituisce la bella performance in un pallore che riecheggia nella fredda tinta celeste che la circonda.
La sproporzione tra la qualità delle performances attoriali in gioco e quella del copione salta agli occhi e inficia il film nella sua interezza. Come se i due contributi funzionassero a velocità diverse: mature e sofisticate le prove di Mark Wahlberg e Russell Crowe, potenzialmente perfette per dar vita ad uno scattante e imperdibile incontro sul ring, ma ingenua e perennemente in ritardo sullo spettatore la sceneggiatura. E purtroppo la dose d'ingenuità che si può attribuire al personaggio di Wahlberg, accecato da qualche pregiudizio iniziale di troppo, non è sufficiente a giustificare il gap, che permane troppo esteso e inverosimile.
L'intento, chiaro e apprezzabile, è quello di inscrivere su uno sfondo alla Ellroy (il ritratto di Billy corrisponde perfettamente all'autoritratto dello scrittore, americano religioso eterosessuale di destra) una vicenda di redenzione, o meglio ancora di coscienza, e può venire alla mente, per affinità tematica, il capolavoro di Spike Lee, La 25° ora, ma è un paragone che è meglio accantonare, perché schiaccia inutilmente e senza pietà il film di Hughes.
L'aspetto più interessante di Broken City è però sicuramente quello, ovvero l'arco di trasformazione del personaggio principale, perfettamente aderente al modello del detective hardboiled e dunque ai margini rispetto alla polizia ufficiale ma al centro del bersaglio quando si tratta di ammaccature dell'automobile e dell'arcata sopraccigliare, che muta da duro fuori a duro dentro, da giustiziere fai da te -incline all'abuso di potere quando serve- ad essere umano che riconosce il valore di una legge uguale per tutti e va coraggiosamente incontro al destino. È questa anche l'unica linea narrativa credibile: lo stesso non si può dire dell'affresco sulla corruzione cittadina né dei rapporti o delle dinamiche che legano le pedine dello scacchiere sociale tra loro.
Bello, dolce , con una trama triste ma , sarà che amo i cani, quello che ha rapprentato nel film. ENZO, non fa che arricchirlo
Il volo United 93 l'11 settembre 2001 non penetrò nelle Twin Towers. Non distrusse un'ala del Pentagono. Precipitò vicino a Shanksville in Pennsylavania. Se volessimo trovare un altro titolo al film potremmo parlare de "Il volo dimenticato". Quello cioè che non provocò danni 'se non' ai passeggeri e al personale di bordo. Provvede a riportarlo alla superficie della nostra memoria il film di Paul Greengrass, realizzato con la collaborazione di molti parenti delle vittime. Lo fa con uno stile assolutamente antihollywoodiano ma non dimenticando la lezione di Oliver Stone. Per due terzi del tempo assistiamo alle operazioni di imbarco e al volo di crociera dell'aereo mentre a terra la tensione progredisce verso il suo apice. Le due Torri stanno già fumando e si ritiene che altri velivoli siano in pericolo. Mentre la sceneggiatura evita di farci appassionare alle caratteristiche psicologiche dei passeggeri il montaggio molto ritmato costruisce il climax a terra. Quando i terroristi, identificati come tali dallo spettatore sin dall'inizio, mettono in atto il loro piano resta poco tempo. Per loro e per lo spettatore. Ma questo è un bene perché così le retoriche vengono evitate e si lascia parlare non la 'verità' (perché è impossibile ricostruirla) ma una plausibile versione dei fatti.
Sidney Lumet torna a mettere in scena la violenza, contestualizzandola all'interno della psiche umana e della famiglia. Onora il padre e la madre è un thriller che si addentra nella mente (e nel cuore) dell'uomo, esplorandone i conflitti e le reazioni più contorte. Con una tecnica di flashback mai fine a se stessa il regista statunitense presenta la visione individuale dei personaggi - gli interrogativi, le frustrazioni, i vizi e le virtù - offrendo un quadro saturo di disperazione.
La sceneggiatura potrebbe limitarsi a un linguaggio fatto di gesti e sguardi più che di parole, tanto sono efficienti le prove recitative dei protagonisti e l'utilizzo della macchina da presa. Il teatro d'azione - che sia una gioielleria, un bar o un appartamento radical chic - sembra vorticare su se stesso conducendo gli attori in labirinti senza uscita che esemplificano la loro condizione esistenziale. Andy (il superlativo Philip Seymour Hoffman) è all'apparenza un uomo di successo, con una bella moglie e un lavoro prestigioso. Vive in un ordine "claustrofobico" per mettere a tacere il disordine interiore. La sua incapacità di amare (e ancor meno di manifestare le proprie emozioni) è raffigurata da un unico gesto compiuto di fronte all'ammissione di tradimento: un moto d'ira - tanto spontaneo da suggerire l'improvvisazione - che lo porta a buttare per aria oggetti senza romperne nessuno, fino a rovesciare una coppa di pietre levigate per meglio osservare il suo io, un io frammentato.
Ethan Hawke, che interpreta il fratello minore di Hoffman, annulla il suo volto d'attore per entrare anima e corpo nei panni di Hank, regalandogli immaturità, angoscia e senso di colpa. Interprete e personaggio diventano tutt'uno di fronte alla macchina da presa e le pause e i silenzi, oltre che gli sguardi, servono a fissarlo nell'universalità della trama. Onora il padre e la madre è un'opera drammatica e assoluta, che affronta con estrema sensibilità e senza nessun tipo di sconto o didascalismo la natura distorta, imperfetta e complessa dell'uomo.
Da Frankenstein in poi la creazione artificiale della vita è spesso stata al centro dell'horror (o del fantahorror, come in questo caso). E anche senza scomodare Frankenstein (che però resta all'origine, in modo indiscusso), il tema richiama da vicino esempi recenti (Splice di Vincenzo Natali) o più remoti (Embryo di Ralph Nelson), dai quali il film riprende diversi spunti. Cruciale è sempre stata l'inconsapevolezza del "mostro" o, più ancora, la sua "innocenza" rispetto alla venuta al mondo, in una riflessione sull'essenza della natura umana e sulla sua replicabilità artificiale. Il lungo colloquio tra lo psicologo interpretato da Paul Giamatti e Morgan che si colloca nella fase centrale del film mette in evidenza questi aspetti, ponendo a confronto la fragilità ferita e letale di Morgan con il sin troppo umano senso di superiorità e di manipolazione dello psicologo.
Le questioni filosofiche alla base del film sono presentate con accuratezza, ma, al momento del redde rationem drammatico tendono a scolorire di fronte al susseguirsi degli eventi e alle diverse motivazioni dei personaggi, che dipendono non tanto da ragionamenti quanto dalla loro psicologia. In fondo, quindi, dalla loro maggiore o minore "umanità". Ed è proprio quella stessa "umanità", in qualche modo scivolata dentro Morgan, a renderla così pericolosa. Dopo i primi due terzi di preparazione, nell'ultimo terzo il film passa quindi all'azione disperdendo un po' l'atmosfera plumbea e opprimente attentamente edificata (e gli interrogativi morali sollevati) per mettere in scena lotte e inseguimenti ben realizzati, che conducono peraltro a un efficace colpo di scena finale.
Convincente esordio alla regia per Luke Scott, figlio di Ridley: non batte strade nuove e non fornisce variazioni innovative, ma affronta l'argomento con solide capacità narrative e buon occhio per soluzioni visuali suggestive (il finale nella foresta ne è valido esempio). In un cast apprezzabile si rivede con piacere la mitica Michelle Yeoh di tanti film di arti marziali (e non solo). In piccoli ruoli anche Jennifer Jason Leigh e Brian Cox (il primo Hannibal Lecter cinematografico). Anya Taylor-Joy, recente ottima protagonista di The Witch, replica la convincente prova con un ritratto sensibile e sfaccettato di un essere predestinato alla sofferenza. Da segnalare la musica pervasiva e suggestiva di Mark Patten, che contribuisce a generare un'atmosfera sospesa e inquietante.
L'avventura è l'avventura, una locuzione che sembra non voler dire nulla, in realtà l'avventura caratterizza il cammino dell'uomo e soprattutto esalta le capacità dell'individuo. Con la scomparsa dell'individualismo positivo e l'affermarsi dell'espressione di massa, l'avventura è stata accantonata per fare largo a crisi esistenziali, al terrore, alla politica, al fantasy, alla depressione. L'avventura è terapeutica, insegna a superare gli ostacoli, rafforza la fiducia in se stessi e la solidarietà. Tutte belle cose di cui si parla molto ma che non vengono attuate. Ma Hollywood sembra essersi accorta che qualcosa non funzionava e l'ultimo paladino dell'avventura è stato Indiana Jones, mentre James Bond prosegue la sua corsa che dura da 40 anni, il resto sono malinconiche visioni di una società minimalista, che detesta l'avventura, specie i giovani, perchè una delle componenti essenziali è proprio la solitudine che è uno dei caratteri distintivi dell'eroe.
Diamo allora il benvenuto a Sahara, che non è un capolavoro, ma che nelle sue due ore circa diverte e rassicura.
Il protagonista Dirk Pitt (Matthew McConaughey), è al centro di numerose avventure raccontate dallo scrittore Clive Cussler, che ha un largo seguito di estimatori non necessariamente giovani. Cussler racconta con fantasiose variazioni, spostando il suo eroe Pitt nei luoghi della Terra più impervi, avventure impossibili ma energetiche, tecnologicamente attendibili, facendo del suo eroe una sorta di Indiana Jones, Topolino e James Bond, mentre il ruolo di Paperino è delegato al personaggio di Al Giordino (Steve Zahn).
Sahara, diretto dall'esordiente Breck Eisner, racconta del ritrovamento di una moneta d'oro da parte di Pitt, che seguendo le indicazioni di una leggenda si mette alla caccia di un tesoro che dovrebbe condurlo alla "nave della morte", una nave da guerra della Guerra Civile che nasconde un tesoro inestimabile. Assieme al suo compagno d'avventure Al ed alla dottoressa Eva Rojas (Penelope Cruz), si ritrova in pieno deserto del Sahara con un programma di avventure che per un tipo come Pitt è ordinaria amministrazione. Spettacolarità, allegria, sfacciataggine e azione a tutto campo distinguono Sahara da altri prodotti sussiegosi pur trattandosi di film di genere. Non ci sono false filosofie, vedi Il signore degli Anelli, né fanciulli dai poteri magici, ma solo una spettacolare avventura fisica che l'aitante e sottovalutato Matthews McConaughey trascina con spavalderia, oscurando il prezzemolo Penelope Cruz, che ancora una volta si trova alle prese con partner attratti inspiegabilmente dal suo ipotetico fascino. E Steve Zahn per una volta riesce ad essere sopportabile.
Palma d'Oro, ex aequo, al Festival di Cannes. L'originale regista di Sweetie e Un angelo alla mia tavola debutta nel grande cinema ufficiale. Ciò comporta co-produzioni, grandi nomi, capitali cospicui e una storia di buona presa per il pubblico. Ma la Campion mantiene intatta la sua personalità di autrice. Purtroppo la bravura tecnica questa volta sfiora il manierismo.
A due anni di distanza da Starbuck Ken Scott rifà il suo film francocanadese del 2011 scena per scena, con un cast americano e per il mercato statunitense. Il risultato è un film che segue pedissequamente la traccia dell'originale senza cercare in nessuna maniera di mutare il corso della storia, le relazioni umane e (sembra) nemmeno il contesto in cui agiscono.
Influisce non poco il fatto che già l'originale fosse una commedia molto modellata sugli standard americani, con un protagonista bambinone mai cresciuto costretto da una fatalità a prendersi le proprie responsabilità.
In questa doppia prova speculare si nota come lo stile della commedia di Ken Scott passi per un sentimentalismo molto basilare che via via, al procedere della trama e al complicarsi della situazione acquista in complessità e ampiezza di sguardo. Il pregio maggiore di Delivery man infatti è di partire da presupposti elementari e nel suo percorso accumulare bagaglio espressivo con fare melodrammatico.
Anche se non si sposta dalla sua città il protagonista David compie un viaggio, uno di tipo cinematografico, che non necessariamente implica un diverso luogo d'arrivo ma di certo passa per diversi incontri. La trovata di trama che costringe l'uomo ad entrare in contatto con moltissime persone diverse ne espone molti lati differenti, lo pone accanto a situazioni, espedienti e decisioni molto diverse fra loro come raramente capita in una commedia (solitamente legata ai presupposti e ai temi di partenza). Così pur non lasciando mai i sicuri lidi di un generico buonismo e attaccamento agli affetti incrollabili, Delivery man riesce a centrare un po' di sentimentalismo e a farlo con le caratteristiche più divertenti del cinema ovvero montaggio, musica e recitazione.
Vince Vaughn è il perno e una folta schiera di comprimari lo usano per fare un giro. Ci sono l'amico avvocato, la ragazza, la famiglia e poi ovviamente i figli nei confronti dei quali il protagonista è ogni volta qualcosa di diverso pur rimanendo lo stesso. Sembra poco invece è molto, così tanto che anche i più banali tramonti e i più ricattatori finali all'acqua di rose diventano perdonabili.
Si direbbe che Behind esca in una contingenza fortunata. Molto della nostra vita si riferisce al "dopo 11 settembre", figuriamoci un film di guerra. Dunque un riflusso di patriottismo che sembrerebbe aderire in generale alle storie di guerra americane. In questo caso c'è persino la location che, volendo, sarebbe a sua volta "favorevole", nel senso che la guerra dei Balcani ospitava etnie musulmane estremiste buone per tutti i terrorismi e tutte le guerre. Solo che Chris Burnett, il protagonista, è un militare ironico e tormentato, molto lontano dal concetto "patria e obbedienza" che è la bandiera dell'esercito USA, e non solo di quello. Comunque vorrebbe combattere sul serio, perché il suo comandante (Hackman) gli ha sempre affidato ordinaria amministrazione. Volando per provare una nuova macchina fotografica, viene abbattuto dalla contraerea serba. Rimasto solo nei boschi e nel freddo, sperimentata la crudeltà del nemico che gli ha ucciso un compagno, Chris lotta per la sopravvivenza. Nel frattempo il comandante ha organizzato il soccorso. Il film prende spunto dalla storia vera di Scott O' Grady, un ufficiale dell'aviazione che visse, appunto, una vicenda simile. Il regista Moore è una new entry con matrice (ma guarda) pubblicitaria che salta all'occhio. Dunque eccesso di montaggio e anche di "espressione" che però a volte giova, come nella scena madre dove Chris si salva fingendosi un cadavere in una fossa comune.
Se avete già visto coppie di poliziotti buddy-buddy (cioè uno che più diverso dall'altro non si può) e sicuramente le avete già viste, sappiate che qui la storia si ripete. Con un'aggravante. Se pensavate che il tempo delle Scuole di polizia fosse ormai definitivamente trascorso Hollywood, in crisi di idee e con un regista che cerca di guardare al proprio passato soffrendo però di una sorta di strabismo, ve ne ripropone una riedizione stringendo sulla ormai narrativamente usurata coppia di sbirri.
Perché qui il prologo e l'epilogo finiscono con l'essere emblemi di un modo di pensare al cinema come uno spazio pronto a contenere l'arguzia e l'ovvietà purché il tutto si atteggi a narrazione sopra le righe. Ecco allora l'apertura in cui, nel corso dell'interrogatorio condotto da Paul, vengono snocciolate frasi tratte da numerosi film (divertitevi a riconoscerle) e il finale sui titoli di coda in cui si ricorre al demenziale ospedaliero.
Il problema è che la somma di gag, in qualche caso anche divertenti, non produce un totale né originale né tantomeno complessivamente esilarante. Ivi compreso il bambino che calcia il poliziotto (quello nero ovviamente perché fa più ridere (!?)) nelle parti basse.
Terribile, non riesco a capire i voti positivi che ha ricevuto.
Tornano i fratelli Coen con una commedia feroce a camminare lungo i marciapiedi assolati "degli angeli";a raccontare,questa volta, co-sceneggiati e all'ombra di ville iperboliche, della classe alto-borghese, quella annoiata intorno ad asettiche piscine "depurate" da poco opportuni amanti. Si avviano così le pratiche di divorzio,si organizzano cinicamente strategie post-matrimoniali dove gli avvocati drammatizzano, proprio come in un film dei Coen, persone e azioni con l'unico scopo di vincere, vincere e vincere. Massey, allora, costruisce davvero la sua perfettissima storia, anticipando successi e sconfitte del cuore,il suo, fino al romanticissimo epilogo sulle labbra Marilyn. Incredibile macchina spettacolare, quella dei Coen, governata dall'armonia totale degli elementi che dentro al loro cinema si corrispondono come una melodia. Una melodia che si avvia dalla "parola", quella scritta,autoriale e definitiva dei Coen, quella che gli attori, pure superlativi, devono solo "dire" perchè al pubblico della prima come dell'ultima fila,arrivi nella sua "intollerabile" perfezione.
Il buongiorno del mattino, ottima commedia, firmata dalla sceneggiatrice del Diavolo veste Prada e dal regista di Notting Hill, regala a Harrison Ford uno dei ruoli (e delle interpretazioni) più belli che gli sia capitato di coprire negli ultimi anni e non solo, ma è a Rachel McAdams (e a chi l'ha voluta) che il film è più che mai debitore.
Se il ruolo di Becky fosse stato affidato ad un'attrice più nota, a una star da prima pagina, non gli avremmo mai creduto come crediamo a lei, e Harrison Ford e Diane Keaton sarebbero stati ridotti a due simpatiche macchiette. Qui avviene il contrario, certo: la protagonista si sacrifica per lasciar primeggiare il grande attore, la sua storia d'amore con Patrick Wilson è quanto di più sbrigativo una commedia (anche) sentimentale possa sostenere (per questo Ricomincio da capo, esplicitamente citato, è un'altra cosa, non si pone il confronto), ma i conti tornano, perché l'atmosfera non è quella del filmone super atteso ma della buona commedia, che si farà strada col tempo e con i passaggi televisivi. Non quella della redazione luminosa e elegante di USA Today, appunto, ma quella della tavola rotonda famigliare e disordinata di Daybreak. Che anche la Keaton, poi, si tenga compostamente ai margini, dopo il protagonismo assoluto di Perché te lo dice mamma o Tutto può succedere, è cosa apprezzatissima, che giova a lei e a noi. Jeff Goldbum, infine, svetta; e non è solo una questione di altezza.
Morning glory, come recita con una vena di ironia il titolo originale e migliore, non è un film sull'amore ma un film sull'amore per il lavoro, nel quale il messaggio sull'esito della lotta tra informazione e intrattenimento, tra alta e bassa televisione, può apparire ambiguo e scorretto, ma può anche essere letto come antiretorico e scomodamente sincero.
Una critica cinematografica dovrebbe analizzare un film nel suo insieme per poi prenderne in considerazione i singoli elementi. La sceneggiatura, la regia, la fotografia, il montaggio, la recitazione. In Trappola in fondo al mare, al contrario, è possibile valutare solamente l'estetica di Jessica Alba, ragazza (attrice, sarebbe una parola grossa) che sullo schermo lascia il suo indelebile segno estetico e che non ha un corrispettivo maschile di pari livello (sebbene Paul Walker faccia del suo meglio), per allietare i dolci occhi del pubblico femminile.
Il resto è un insieme di dialoghi poco credibili, di interpretazioni imbarazzanti, di scelte di regia non proprio vincenti, per raccontare la vicenda di un gruppo di subacquei alle Bahamas che tentano di recuperare un relitto in fondo al mare, infestato da feroci squali. Punto.
Ragione e sentimento si scontreranno ancora una volta sotto il comune denominatore di X-Files, quei casi che apparentemente non seguono alcuna logica e non hanno alcuna spiegazione ufficiale. Lo scetticismo della donna e la voglia di crederci di lui faranno emergere una verità inquietante sepolta sotto la neve del West Virginia.
A distanza di sei anni dall'ultimo episodio televisivo e dieci dalla prima trasposizione cinematografica diretta da Rob Bowman, X-Files torna sul grande schermo sotto forma di "puntatona" nella quale le deviazioni della scienza si intrecciano al paranormale, con tra le righe i riferimenti religiosi che del serial erano uno dei motivi ricorrenti. Smessi gli effetti speciali e la spettacolarità dell'esordio in lungo e dimenticata la cospirazione aliena, il nuovo spin-off della serie televisiva sci-fi più popolare di tutti i tempi si concentra sull'animo umano - i dubbi, i conflitti, il lato oscuro - e sul bisogno di credere e non arrendersi mai per arrivare alla verità. Il creatore e regista televisivo di X-Files Chris Carter sfrutta il paesaggio innevato del Canada - dove sono state girate le prime cinque stagioni del telefilm - per ambientare l'ultima puntata del serial e chiudere definitivamente il cerchio. La psicologia dei protagonisti è rimasta intatta e la sintonia tra David Duchovny e Gillian Anderson è tangibile e assolutamente non scontata considerato il tempo che è passato dall'ultima "incarnazione" negli agenti Mulder e Scully. Approssimativo invece sembra essere il lavoro svolto (in fase di scrittura) sul caso, che in confronto alle peripezie televisive e al film di Bowman manca di quel mistero che aveva contrassegnato l'intero franchise. Nonostante ciò la "generazione X-Files" sarà lieta di ritrovare in azione i due investigatori, fosse anche solo per dargli l'ultimo addio.