Se si eccettua il passo falso di Lawless, gangster movie letterario sporcato di western e di melodramma, Hillcoat è apparso da subito un regista da tenere d'occhio, uno capace di sorprendere. In fondo, oggi si può dire che è servito anche il passo falso, perché è lì che Hillcoat ha cominciato a guardare a Mann come modello, ma è solo con Codice 999 che quello sguardo ha trovato il fuoco. E non è questione di imitazione, per nostra fortuna, ma di ritmo e di mestiere.
C'è un piacere speciale nel venire acchiappati dentro un ingranaggio filmico che non s'inceppa e Hillcoat ci regala questo giro di giostra, sulle strade di Atlanta, dove i personaggi sono tanti e ognuno ha la sua faccia pubblica e il suo retroscena privato, ma qualche volta il bene sta dalla parte di chi ha il caos in casa e il male assoluto è biondo e furbo come Kate Winslet, qualche volta, cioè, quando è la volta buona come questa, sai forse cosa succederà ma non puoi dire come.
Ritmato dal montatore di Zero Dark Thirty e musicato da Atticus Ross (produttore dei Nine Inch Nails), Codice 999 è un solido e "atmosferico" cop-movie, che ha i suoi punti di forza nel cast e nella scrittura, oltre che in una regia che garantisce controllo, coerenza e personalità. Il cast, che appare perfetto, è curiosamente frutto di una serie di defezioni che ne hanno modificato i connotati (Shia LaBeouf doveva stare al posto di Casey Affleck, Cate Blanchett della Winslet), mentre la sceneggiatura di Matt Cook (che esce dal cassetto della "Black List" di Hollywood) è di quelle silenziosamente preziose, che sembrano tutta azione e zero psicologia ma hanno un'anima più ingombrante del previsto. Dentro questa girandola di violenza e paura, che s'inpenna attorno ad una vita sola da salvare, una vita "qualunque", c'è l'ironia del destino, la dolenza del noir e la fotografia in movimento di un pezzetto di mondo, piccolo come un quartiere, che il buon cinema sa rendere (in) grande.
C'era bisogno di un Babbo Natale veramente bastardo, da chiamare mocciosi i bambini che siedono simpaticamente sulle sue ginocchia esprimendo desideri di regali festosi? La risposta è si. Il film prodotto dai Coen Brothers fa ridere cinicamente, con le sue volgarità gratuite e il suo tasso alcolico da coma etilico.
Willie è il Santa Claus in questione, accompagnato da un simpatico nanetto di colore vestito da folletto. Entrambi trascorrono l'anno in attesa del mese di dicembre, in cui vestendosi da festa, assoldati dal department store del caso, divertono a modo loro i bambini che accorrono a frotte, per poi svuotare, la notte della vigilia, la cassaforte con il malloppo. Nell'anno in corso, Willie è sempre ubriaco, e il suo ruolo da Babbo che cammina a zig-zag, illuminato solamente da un bambino timido e grassottello che lo perseguita, insospettisce il gestore del negozio (un imbolsito John Ritter, pace all'anima sua) e il responsabile della sicurezza. Il colpo questa volta non è così semplice.
Caustico e irriverente nei dialoghi, con un Billy Bob Thornton perfetto, alcolista come nella vita, Babbo bastardo, o meglio Bad Santa, non sarà ricordato come il film dell'anno, ma è un perfetto antagonista dei film buonisti in sala a Natale. Non vi preoccupate, la dolcezza è garantita dal ragazzino monoespressivo che con i suoi rotolini di grasso, riesce perfino a conquistare un uomo che desidererebbe un figlio a forma di bottiglia di Bourbon.
Risiede indubbiamente nel cast il motivo di interesse della commedia di Jon Turteltaub, regista newyorkese col vizio delle celebrità, che miete e poi esibisce in un cinema che non conosce scossoni (Il mistero dei Templari e L'apprendista stregone). Bad trip tardivo, corretto con trombolitici e interpretato da un cast stellare ma a disagio a rifare se stesso, Last Vegas cerca idee e stimoli nella città della finzione e della trasgressione legalizzata. Robert De Niro, Michael Douglas, Morgan Freeman e Kevin Kline, in rigoroso ordine alfabetico e non di grandezza (tutti ugualmente titolati), deviano come possono e con equilibrato istrionismo la prevedibilità dei loro personaggi e della vicenda che abitano. Precipitati nel 'deserto del reale' per celebrare l'amicizia e riesporre gli archetipi di ogni storia amicale, i 'vecchi ragazzi' si dimostrano capaci di alterare l'universo monotono della commedia senescente di Turteltaub, che gioca con l'avanzamento anagrafico, la memoria e la sua alterazione. E alterati a colpi di vodka Red Bull e di gag risapute, gli interpreti provano a scansare la banale esercitazione nel genere, rendendo riconoscibile il proprio singolare talento di performer. Appannata da un velo di nostalgia, l'imprevedibilità di Robert De Niro si rivela in una sorta di prosecuzione dell'antropologia di quartiere avviata con Mean Streets, quella di Michael Douglas nei grumi pulsionali, nei rimossi e nella posta in gioco erotica, quella ancora di Morgan Freeman in una sensibilità esigente e incantata, quella infine di Kevin Kline nei movimenti (e nelle mosse) che lo mettono di nuovo a nudo. Fuori dalla portata dei ricordi, quelli dei personaggi e quelli dei protagonisti, Last Vegas è un film senza una destinazione credibile che recluta la 'meglio gioventù' (che fu) e propone un 'riscatto' della vecchiaia, non già rivoluzionandone i termini ma sclerotizzandone le prerogative istituzionali. In fondo alla commedia e nel fondo di un bicchiere resta l'amaro di un post sbornia e di uno scotch invecchiato male.
Dopo U-Boot 96 del 1981 e La tempesta perfetta del 2000, Wolfang Petersen conclude con Poseidon la sua trilogia sull'acqua.
La moda dei film catastrofici non passa mai. Bisognerebbe sapere anche svecchiare un po' la formula però, cosa che questo nuovo Poseidon, proprio non riesce a fare. Nonostante una realizzazione tecnica spesso superba, che garantisce alcuni (pochi) momenti visivamente emozionanti, il film di Petersen è afflitto da troppi difetti per potersi dire riuscito: manca del tutto il senso dell'epica e la fase iniziale, fondamentale per affezionarsi ai protagonisti e dare loro spessore sul piano narrativo, è troppo veloce e sbrigativa.
Qualche perplessità la suscita anche la composizione del cast. Il ruolo di protagonista è offerto a Josh Lucas, ottima spalla altrove, ma qui alquanto spaesato, mentre Kurt Russell e Richard Dreyfuss sembrano francamente sprecati, specie il secondo, imprigionati in ruoli scontati e banali. Sceneggiatura e dialoghi inoltre, non aiutano né i personaggi ad acquisire credibilità, né il film ad aumentare il ritmo, tanto che, nonostante la breve durata, si riesce persino ad essere annoiati. Insomma, stavolta Petersen ha fatto proprio un bagno d'acqua gelata. La sua regia? Sull'orizzonte ottico non c'è. Di certo, esistono modi migliori per scialacquare centocinquanta milioni di dollari.
Si avvale della forte presenza scenica di un Benicio del Toro capace di esprimere dolore e sicurezza insieme con un semplice movimento delle labbra. La coppia Douglas/Zeta-Jones non conferisce particolare glamour a un film corale e ricco di colpi di scena che è meglio non svelare. Il rischio della 'morale' emerge in particolare nella parte finale, ma Soderbergh riesce comunque a far passare con chiarezza (quella chiarezza che mancava a Out of Sight) il messaggio.
All'apparenza Hunter Killer - Caccia negli abissi è il più tradizionale dei film di guerra yankee: mascelle squadrate, sguardi fissi, frasi ad effetto, scene d'azione e di tensione, esplosioni e missioni impossibili. E il Capitano Glass è il più classico degli eroi americani: il cane sciolto refrattario all'establishment ma provvisto di infallibili istinti vitali e del necessario sangue freddo. A ben guardare però emergono alcuni elementi di novità: donne ai posti di comando (una in particolare, e a sorpresa) e nell'equipaggio dell'USS Arkansas; la scelta del Capitano di proporsi ai suoi uomini come "uno di loro"; una generale tendenza, da parte di comandanti militari, a condividere informazioni riservate, persino con il "nemico russo"; un'idea di mutuo soccorso, anche nei confronti di quel nemico, impensabile ai tempi di John Wayne.
Il tema principale di Hunter Killer - Caccia negli abissi diventa dunque ciò che rende un leader meritevole di fiducia, e quali siano le sue responsabilità nei confronti dei sottoposti e della collettività. Laddove infatti l'ammiraglio anglosassone Donnegan si rivela un guerrafondaio dal grilletto facile, il retroammiraglio Fisk e la specialista Norquist (un uomo di colore e una donna) dimostrano vera intuizione politica, e il capitano Glass dà prova costante di un senso pratico che prescinde dalla retorica militarista e "sovranista" per andare dritto all'obiettivo: portare a casa la pelle dei suoi uomini ed evitare un'escalation bellica incontrollabile. Glass arriva al punto di tirare dalla sua parte il capitano russo Andropov dicendogli "noi siamo fratelli" e tributandogli rispetto e ascolto.
Rodriguez, diventato famoso grazie a un film che fece epoca per i risultati ottenuti nonostante il low budget, adesso i mezzi a disposizione li ha. Tanti, forse troppi. E li usa tutti in modo visibile. Così questo terzo episodio della saga mette in scena un Luna park di sparatorie, inseguimenti e caratteri che ha il compito di divertire gli appassionati e di lustrare gli occhi a signore e signorine. Con un cattivissimo e bellissimo Johnny Depp.
Non c’è dubbio che una delle cose che riescono meglio a Oliver Stone sia il ritratto di uno o più personaggi che s’invischiano in qualcosa di più grande di loro: solo laddove c’è una frontiera che altri non valicherebbero, sconsigliata e inopportuna, i suoi film vibrano più di altri; il coraggio, che all’inizio può essere tanto provocazione quanto reale ardimento, si fa a quel punto materia di vita o di morte e il film diventa una strada da percorrere fino in fondo, piena di svolte imprevedibili e dissestata quanto basta per tenere alta l’adrenalina. Tutti ingredienti che non mancano certo a Le belve , ambientato a cavallo della frontiera delle frontiere, e che ne fanno uno spettacolo cinematografico assolutamente efficace, complice l’estetica acida che lo permea da cima a fondo e, pur con qualche eccesso di maniera, ben racconta il clima da paradiso perduto e da avventura folle e schizzata.
C’è, però, anche un ma. Se da un lato, infatti, il regista insiste sul contrasto tra la leggerezza di una fazione e la ferocia dell’altra, tra il sole a picco sulla terrazza da sogno, da una parte, e il buio delle cantine delle torture, dall’altra, il titolo raccoglie sotto il suo ombrello sia gli uni che gli altri, il giudizio è programmaticamente bandito (perché in fondo siamo tutti dei dannati, chi più e chi meno, e il peggiore è probabilmente chi sta nel mezzo, come il personaggio di Travolta) e di questo passo il discorso di Stone finisce per farsi confuso e spesso ambiguo. Come ambiguo, al limite della truffa ai danni dello spettatore, è l’espediente del raddoppiamento finale, che accettiamo solo e soltanto perché le parole iniziali di Ophelia sono pensate per fungere da avvertimento.
Come non accadeva nel suo cinema da un po’ di tempo a questa parte, inoltre, la violenza di Savages è massima, oltre che sfortunatamente plausibile, cosa che lo allontana dall’essere un prodotto per tutti i gusti ma lo riporta ad un cinema probabilmente più consono alle migliori potenzialità di Oliver Stone. Un cinema duro, di bravi interpreti, dentro ruoli di non comune sfaccettatura.
Il problema risiede nella scelta di un soggetto che all'epoca rappresentò un punto fermo nell'ambito di un cinema che rileggeva il passato guardando al presente rimanendo tuttora un film valido nonostante il flop al box office. I tempi sono ovviamente mutati così Sofia Coppola decide di privilegiare, ancora una volta, l'analisi delle reazioni in un microcosmo femminile.
È questo 'ancora una volta' che finisce con l'indebolire l'assunto complessivo. Il caporale McBurney non ha più la valenza simbolica di un corpo (all'epoca quello di un giovane Clint Eastwood) che da oggetto del desiderio viene a configurarsi come oggetto di martirio rimandando a un Cristo crocifisso e deposto. Coppola preferisce indagare sugli sguardi e le posture di donne che hanno interiorizzato le buone maniere e cercano di trasmetterle alle giovani generazioni mentre sotto la pelle e le crinoline covano pulsioni che la società del tempo non può loro riconoscere. Come le vergini suicide, come la regina di Francia... come i personaggi e le storie che ama. Questo non le impedisce di passare da un genere all'altro nell'arco di novanta minuti e di farlo con l'acutezza ma, in questo caso, anche con una leggerezza accattivante. Però si conclude la proiezione con la sensazione che la sceneggiatura, così come l'arto del caporale McBurney, abbia subito un trattamento al contempo suadente ma troppo drastico.
I nove Oscar pongono di diritto il titolo in una posizione d'onore nella storia del cinema. Parte della critica lo ha minimizzato perché era diventato di moda, e perché possiede tante prerogative che deve possedere il grande cinema: storia vera e potente, sentimento, natura, avventura, musica e base letteraria ben gestita. È certamente vero che l'intenzione della produzione e del regista era quella della grande opera da notte degli Oscar ed è anche vero che il grande sentimento del deserto resta patrimonio di Lawrence d'Arabia più che del "Paziente", ma per fortuna c'è ancora qualcuno che si impegna in iniziative del genere. Ricordiamo le nove statuette: film, regista, Binoche (non protagonista), fotografia, scenografia, costumi, montaggio, colonna sonora drammatica, suono.
Mottola, sceneggiatore del suo film, utilizza i ricordi personali e si identifica con James (un Jesse Eisenberg che abbiamo già apprezzato nell'indipendente Il calamaro e la balena), con le sue incertezze ma anche con le sue aspettative e la sua voglia di vita nuova. Il parco divertimenti in un'America marcatamente reaganiana (il presidente appare anche in tv) diventa così una metafora della vita. Con il bisogno di un'illusione temporanea ma anche con la prepotenza di chi, grazie al possesso di un'arma, pretende e ottiene il peluche più grande. Accanto a lui c'è, già in stato di grazia (non solo per quanto riguarda l'aspetto esteriore) Kristen Stewart. La giovane attrice non aveva ancora girato il film che l'avrebbe resa famosa in tutto il mondo (Twilight) ma era già in grado di offrire una recitazione che dà la misura di come si possa innervare un film di uno spleen tutto particolare. Quello che avrebbe potuto diventare l'ennesimo teen movie corroborato da una colonna sonora ricca di citazioni d'epoca diventa, grazie a lei e ad Eisenberg, un film sulla complessa e non facile ricerca di una felicità possibile.
Ha un inizio di quelli che non si dimenticano facilmente Questi sono i 40: Debbie e Ben sono in bagno e stanno facendo l'amore quando lui le fa una rivelazione che crede le faccia piacere e che invece innesca la prima delle innumerevoli discussioni di coppia che costellano questo film. Quale sia l'oggetto del contendere ogni spettatore deve avere il piacere di scoprirlo da sé. Ciò che invece è bene sapere è che non ci troviamo di fronte all'ennesima riproposizione de La guerra dei Roses. Apatow è interessato a un altro tipo di sviluppo narrativo. Tanto per cominciare si avvale di quello che, soprattutto nelle serie tv (e qui si ritorna spesso su Lost) viene definito 'spin-off'. Cioè si prendono uno o più personaggi non principali di una serie e li si mettono al centro di una nuova creata su misura per loro. Qui tocca appunto a Debbie e Pete che in Molto incinta affiancavano i protagonisti Ben e Alison. Apatow ama scrutare nelle luci e ombre delle dinamiche familiari e per farlo pensa che sia giusto mettere in gioco la propria. Ecco allora che Debbie è sua moglie Leslie Mann (che ha compiuto quarant'anni proprio nel 2012) e Sadie e Charlotte sono le loro figlie. Grazie a questa vera e propria familiarità, a cui si aggiunge la presenza dell'amico e attore feticcio Paul Rudd, il regista e sceneggiatore porta ancora una volta sullo schermo una commedia che è molto made in Usa ma al contempo offre occasioni di riflessione dal valore universale sulle relazioni di coppie che dovrebbero essere ormai consolidate e che, proprio per lo scorrere degli anni, mettono in rilievo più i difetti che i pregi del partner. Per farlo continua a utilizzare il doppio registro che gli è da tempo congeniale: da un lato c'è l'esagerazione anche verbale (vedi le scene relative al malcapitato compagno di scuola di Sadie) e dall'altro la capacità di affrontare in modo leggero ma non superficiale temi come il rapporto genitori e figli (a tutte le età), la possibilità di coltivare i propri sogni di gioventù in un mondo che ha perso la memoria del passato anche recente e il rapporto, sempre più difficile da gestire, con una tecnologia che allarga gli orizzonti ma, al contempo, rischia di soffocare il piacere della creatività. Tutto questo, ancora una volta, in una commedia oversize (134 minuti) che cede un po' nel finale ma di cui non si avverte la lunghezza.
Occorre dirlo subito: Green zone è un film sulle motivazioni dietro la seconda guerra in Iraq tanto quanto The Bourne ultimatum è un film sui problemi della perdita di memoria, ovvero ben poco. Sebbene la trama ruoti intorno alla scoperta dell'assenza delle armi di distruzione di massa da parte di un soldato stanziato in Iraq, lo stesso il nuovo film della coppia Greegrass/Damon trova la sua vera ragione d'esistere nel modo in cui rivendica per se stesso lo statuto di genere. Se infatti United 93, la precendente incursione di Greengrass nel cinema d'attualità, mirava a raccontare fatti e situazioni che conosciamo ma il cui svolgimento possiamo solo ipotizzare (le dinamiche che hanno portato allo schianto a terra del terzo aereo coinvolto negli attentati dell'11 settembre 2001), questo nuovo film non pretende di insegnarci niente che non conosciamo già ma anzi si appoggia ad un finale già noto (le armi di distruzione di massa non ci sono mai state) per riscrivere le regole del cinema d'azione militare.
Rifiutando qualsiasi patente di indagatore delle realtà politiche Greengrass parte da fatti assodati e non scava oltre, si appoggia al libro "Imperial life in the Emerald City" di Rajiv Chandrasekaran per piegare i fatti alle esigenze del cinema spionistico e sceglie la via più difficile di tutte. Al centro della storia infatti non c'è più un superuomo come Jason Bourne ma un militare addestrato come tanti altri, animato da un senso patriottico e morale superiore a quello dei suoi colleghi che sono lì per eseguire ordini, il quale agisce fuori dagli schemi per arrivare ad un uomo che può rivelargli la verità nascosta dal governo prima di quelli che lo vogliono uccidere. Nulla di più classico e nulla di più innovativo.
Fin dalla prima sensazionale sequenza che dal micro (una riunione di loschi iracheni) subito proietta la storia nel macro (il susseguente bombardamento che di colpo illumina la notte) Green zone è cinema in mobilità mai domo, girato con il consueto stile caoticamente controllato di Greengrass. Come gli altri che prima di lui hanno portato sul grande schermo il conflitto iracheno, Greengrass vuole scendere nelle strade ed entrare nei vicoli peni di calcinacci ma diversamente da altri più che al video sceglie di appoggiarsi all'audio (una colonna sonora costante che si mischia a rumori di fondo scelti, mixati e organizzati con una precisione meticolosa per rendere la tagliente tensione della guerriglia di strada) trovando così il vero specifico filmico della nuova guerra.
Aggiornando le più classiche dinamiche del cinema d'azione americano, l'interesse del film passa in fretta dal contesto geopolitico alle frasi con le quali i personaggi si minacciano, ai colpi sparati, alla tensione degli inseguimenti (fantastico quello a tre!) e alle motivazioni che animano i comprimari, solitari quanto i protagonisti, nella loro lotta privata, sganciando così l'opera dalla contingenza attuale per proiettarla nell'Olimpo del grande cinema.
Zac Efron ha iniziato il percorso di sganciamento dai film di High School Musical che gli hanno dato la fama. Nel momento in cui girava Segui il tuo cuore aveva raggiunto i 21 anni e le scelte si imponevano. Come al giovane e universalmente osannato DiCaprio gli si presentava l'alternativa di continuare a interpretare ruoli adolescenziali più o meno redditizi o dare il via al mutamento. Ha scelto questa seconda strada seppure in maniera soft. Perché il suo personaggio, nato dalla penna di Ben Sherwood autore di "The Death and Life of Charlie St. Cloud", è di quelli che piacerebbero a M.Night Shyamalan sospeso com'è tra il mondo dei vivi e quello dei trapassati. La sua dimora è praticamente il cimitero e l'elaborazione del lutto non ha avuto alcun esito positivo.
Solo che la regia di Burr Steers, che lo aveva già diretto in 17 Again - Ritorno al liceo, non è disposta ad osare più che tanto. Affida cioè al suo protagonista la responsabilità di sostenere la vicenda con una buona intensità ma finisce poi per farlo navigare tra le onde del glucosio più di maniera che ci sia.
È un peccato perché il bel Zac sta mostrando di saperci fare con ruoli complessi. Ora deve trovare qualcuno che non glieli semplifichi nel bel mezzo del cammino.
Un bel film per una serata in famiglia: ben recitato, con tempi giusti, ambientazione peschereccia affascinante e quella "rotondità" che Hollywood sovente regala (qui con Clash e Joni Mitchell in aggiunta).
Mi è piaciuto ma mi sono divertito e appassionato molto di più con 'La famiglia Belier'.
Meno contagioso del precedente, e sempre più rivolto ai bambini, Garfield 2 contiene però dei momenti decisamente divertenti e delle trovate graziose, se pur non originali, come la lasagna fatta a più zampe nella cucina del palazzo reale, con Garfield come capo cuoco. I nostalgici continueranno a rimanere fedeli alla striscia a tre vignette, ma i nuovi adepti sapranno apprezzare la versione cinematografica che potrebbe avere anche altri seguiti.
Prodotto da Roger Corman e diretto da un giovane Joe Dante, il Piranha originario è un film vivace e brioso, forse il più brillante dei cloni derivati dal successo colossale de Lo squalo di Spielberg. Tra i suoi punti di forza non ci sono certo gli effetti speciali, al risparmio anche per l'epoca. L'idea di rifarlo con i più sofisticati mezzi di oggi e l'utilizzo delle tre dimensioni non era quindi peregrina.
A occuparsene è stato uno dei nomi più in voga del nuovo horror, Alexandre Aja, che dopo il brillante Alta tensione si è trasferito negli USA dedicandosi in modo seriale ai remake di famosi titoli del repertorio orrorifico (prima di questo, Le colline hanno gli occhi e Riflessi di paura). La trama si presenta sostanzialmente diversa da quella del film di Dante, eliminando ogni riferimento "politico" e dando ai pesci carnivori un'origine naturale, non dipendente da esperimenti proibiti. Una scossa tellurica subacquea libera nelle acque del lago Victoria una torma di voracissimi piranha preistorici - denominati Pygocentrus - che si danno subito da fare divorando uno sfortunato pescatore. Aja mantiene un ritmo sostenuto e rende interessante e simpatica la prima parte del film, utilizzando toni da commedia giovanilistica e iniettandovi robuste dosi di un bonario erotismo. Conserva questo approccio spavaldo e spensierato anche quando i pesci assassini entrano massicciamente in scena, dapprima suggeriti da qualche accenno di suspense hitchcokiana e poi esibiti in grande quantità grazie a effetti speciali digitali di buona qualità che ne fanno uno spettacolo nello spettacolo. Nella carneficina che contraddistingue la seconda parte del film, Aja si affida molto a uno splatter denso e feroce, azzeccando qua e là qualche tocco sarcastico e visivamente originale, come il piranha che esce dalla testa di una ragazza o la trucida sorte riservata al regista "trasgressivo".
Inoltre, Aja sa bene come gestire la suspense e il crescendo finale sviluppa una tensione più che accettabile, grazie anche alla concisione del racconto, che non conosce lentezze o tempi morti. Vivacità e brillantezza non possono però nascondere la risaputezza della storia che ripropone per l'ennesima volta situazioni già viste e riviste, con personaggi che sono stereotipi poco approfonditi, lasciati alla bravura - quando c'è - dei singoli attori.
Sotto questo profilo si segnalano gli esperti Elisabeth Shue (ormai lontana dai tempi della nomination all'Oscar per Via da Las Vegas, ma sempre brava) e il solido Ving Rhames. In un piccolo ruolo si rivede anche Christopher Lloyd (Ritorno al futuro). Simpatiche partecipazioni speciali per i registi Eli Roth (Hostel) e Franck Khalfoun (P2 - Livello del terrore) e per Richard Dreyfuss, pioniere dell'horror acquatico con Lo squalo.
Scritto da un vero e proprio team di specialisti del cinema rivolto all'infanzia I puffi 2 replica in toto la struttura del primo film, senza variare nulla nella formula che aveva portato il trionfo al boxoffice e aggiungendo (come si conviene) un paio di personaggi nuovi che passeranno da antagonisti a puffi veri e propri, ovvero da devianti ("monelli" nel senso stretto) a individui integrati nella società dei puffi.
L'unica differenza con il primo film sta in questa parabola. Se I puffi raccontava la conquista dell'individualismo da parte delle creature blu, cioè riuscire a svincolarsi dalla personalità stereotipica assegnata ad ognuno attraverso una vittoria che non è collettiva ma personale, questo sequel lavora sull'integrazione, cioè inglobare i due puffi creati da Gargamella nella comunità, trovando loro un ruolo.
Come gran parte del cinema dell'infanzia infatti anche I puffi 2 cerca di raccontare il processo di "normalizzazione" della devianza, ovvero come stili di vita diversi, se non opposti, a quelli della propria comunità di riferimento siano da condannare e possano sempre, attraverso i valori positivi, essere attenuati e ricondotti nella normalità. Nella rigida comunità dei puffi c'è insomma posto per tutti a patto di rispettarne le regole e di diventare come gli altri (con una scelta politicamente scorretta del tutto involontaria la condizione che fa la differenza per l'integrazione è il colore della pelle).
Esattamente come nel primo film anche in questa storia la location svolge un ruolo determinante. Non più Manhattan ma Parigi è il luogo prescelto, con la stessa dose di product placement comunale a cui è affiancato quello delle marche tecnologiche (questa volta più che altro Apple), rimarcando in questa maniera non tanto quale sia il tipo di bambino cui il film si rivolge ma quale sia il tipo di genitore.
Tuttavia, nonostante la sua smaccata vocazione commerciale, è impossibile non notare come questi due lungometraggi dedicati ai puffi siano tra i prodotti per l'infanzia più azzeccati degli ultimi anni, costruiti in un equilibrio quasi magico tra gag fisiche per risate di pancia, gag verbali per risate minimamente più elaborate, piccole strizzate d'occhio al pubblico dei genitori (anche qui ci sono un paio di battute incomprensibili ad un bambino ma chiare per un genitore giovane) e la creazione di un mondo in cui magico e reale si fondono come analogico e digitale. Ancora una volta prodigi della computer grafica come il gatto Birba (più vero del vero) o l'interazione tra umani e personaggi digitali stupisce e soprattutto crea un ponte inedito tra finzione e realtà, portando la prima nella seconda.
L'afroamericana 42enne Ava DuVernay, miglior regista al Sundance Film Festival del 2012 per Middle of Nowhere, sceglie a sua volta quell'episodio storico come cartina di tornasole della battaglia per i diritti civili in America e offre un ritratto complesso e sfaccettato di una delle personalità più influenti e meno cinematograficamente documentate del passato americano. DuVernay realizza una serie di piccoli miracoli: primo fra tutti togliere MLK dall'agiografia per restituirci la sua umanità, comprensiva di dubbi, sconfitte e cedimenti, senza per questo (o anzi, proprio per questo) sminuire la sua statura etica e politica e la sua importanza nell'evoluzione di una coscienza civile collettiva. L'interpretazione di David Oyelowo (già protagonista di Middle of Nowhere), incomprensibilmente privata di una candidatura all'Oscar, è da brividi, soprattutto in lingua originale, durante la riproposizione dei discorsi pubblici del Dottor King che iniziano in tono sommesso e si gonfiano di travolgente potenza retorica, culminando nei toni trascinanti della predica che ricordano al pubblico la formazione religiosa del pastore protestante e la convinzione che ha sostenuto la sua capacità di resistere pacificamente a umiliazioni e violenze, spingendolo verso un traguardo alto e collettivo - una lezione quanto mai adatta ai nostri tempi su come un credo dovrebbe essere strumento di elevazione spirituale e di rifiuto della barbarie, non di aggressione e oppressione.
La storia raccontata da Selma restituisce alla politica il suo significato superiore. Le scelte di King sono dettate dal bene comune, il suo infallibile istinto gli fa compiere gesti anche impopolari ma di lungimiranza storica inconfutabile, e illustra la necessità (e fondamentale nobiltà) della negoziazione politica indirizzata verso un fine ultimo elevato. La capacità di King di non accontentarsi del successo temporaneo per tenere lo sguardo fisso sulla meta finale è un saggio narrativo (anche questo adatto ai nostri tempi) su ciò che differenzia un leader da un politicante. Parallela la sua determinazione a non sacrificare vite ed entusiasmi, da lui stesso suscitati, all'altare dell'opportunità politica, e la sua volontà, spesso impopolare fra i "fratelli neri", di cercare un consenso universalmente condiviso a sostegno dei diritti civili, componente imprescindibile della sua gestione illuminata. Tutto questo lavoro pedagogico sarebbe importante ma non cinematograficamente memorabile se DuVarnay non l'avesse veicolato attraverso una forma filmica che combina resoconto documentario (con commoventi spezzoni finali, anche della storica marcia su Washington del '63) e racconto intimo dei travagli personali dei personaggi, facendoci sentire fisicamente la loro paura nel farsi parte della storia e rendendo contemporanea, hic et nunc, una vicenda a noi cronologicamente lontana, le cui ricadute sono però assai visibili nel presente di tutti. La regista mette a nudo il cuore segreto dell'America, si infiltra dietro porte chiuse per riportare conversazioni segrete e dare contezza di confessioni sussurrate. Anche la scelta di mostrare il diverso peso che la protesta per i diritti civili ha rappresentato nella vita delle diverse generazioni, e del maschile e femminile, declina la storia (magistralmente articolata dallo sceneggiatore, Paul Webb), e la Storia, secondo coordinate anagrafiche e di genere, e delinea la capacità del movimento per i diritti civili di essere seminale per il futuro, ma anche determinante per il presente di chi era già adulto, o magari anziano, ai tempi di MLK.
La cifra artistica della DuVernay risiede nella sua capacità muscolare di attaccare frontalmente un mito, e una vicenda spartiacque, senza alcun timore reverenziale e con un profondo rispetto della complessità degli eventi e delle persone, senza lasciarsi spaventare dall'ampiezza dell'arazzo ma senza nemmeno perdere di vista la precisione del dettaglio, e nel conferire alla storia, all'interno di un impianto narrativo classico, una dimensione onirica e allucinata a metà fra l'orrore e la fiaba in alcuni passaggi-chiave, come l'omicidio delle quattro ragazzine nell'esplosione della chiesa di Birmingham o la confessione "metafisica" dei tradimenti fatta alla moglie dal reverendo. E nella sequenza finale la regista si concede lo sfizio di attingere al western, con il risultato di potenziare ulteriormente la statura mitologica dell'evento clou di Selma, codificato attraverso un genere che fa parte della costruzione dell'èpos cinematografico yankee. La tecnica registica della DuVernay è, in un aggettivo, seduttiva, nel senso che attira gli spettatori dentro il racconto impedendo ogni distanza emotiva, e li affabula attraverso la potenza di immagini sensuali anche quando racconta episodi "di cronaca", per restituire a personaggi resi bidimensionali dai libri di Storia, come il presidente Lyndon Johnson, una terza dimensione fatta di umanità fragile e fallibile. Selma è genuinamente emozionante, non manipola né le coscienze né i sentimenti, ma li risveglia dallo stesso torpore di cui sono imbevute alcune scene del film, che ci ricordano come anche i grandi della Storia siano stati uomini spaventati dalla responsabilità delle loro decisioni.
Selma ripassa l'abc di ciò che serve, a livello umano e politico, per scardinare un sistema, e quanto questo può costare, a livello individuale, ma anche quanto ne valga la pena, a livello collettivo e di "decisione del proprio destino come esseri umani".
Il drago invisibile è ispirato a Elliot il drago invisibile, il film Disney del 1977 che mescolava cartoni animati e live action, e ne riscrive la storia (il regista David Lowery, che viene dal cinema indie e conserva sensibilità anni Settanta, è anche cosceneggiatore) aggiornandola alle problematiche contemporanee, a cominciare dalle difficoltà delle famiglie allargate ad integrare i propri pezzi mancanti: e il sospetto che Elliott sia un amico immaginario inventato da Pete per superare il trauma della perdita dei genitori sottende tutta la narrazione.
Per godersi questa favola in 3D bisogna ricorrere alla sospensione dell'incredulità soprattutto per quanto riguarda il comportamento del drago, che nei momenti di pericolo sembra dimenticare di saper volare, diventare invisibile e sputare fuoco. Ad aiutare lo spettatore ci sono gli effetti speciali davvero convincenti, che rendono il drago una presenza concreta e accattivante, e le interpretazioni: non tanto quelle dei più celebri componenti del cast, da Bryce Dallas Howard nei panni di Grace a un Robert Redford intagliato nel legno in quelli di suo padre, quanto quelle del piccolo Oakes Fegley, un Pete assai credibile per agilità fisica e profondità emotiva, e di Elliot, cui la CGI concede un'espressività che non ha bisogno di parole.
Più che sulla memoria dell'originale del 1977, Il drago invisibile versione 2016 fa leva sull'immaginario collettivo, attingendo a Il ragazzo selvaggio come a Il libro della giungla, a La storia infinita come a King Kong, e riproponendo quella commistione tutta particolare che la Disney, soprattutto nei film per famiglie recitati da attori in carne ed ossa, ha sempre saputo creare fra fiaba e realtà, quotidianità contemporanea e avventure fantastiche. La riflessione "alta" riguarda la capacità di vedere ciò che sta davanti ai nostri occhi, invisibile solo perché ne rifiutiamo concettualmente l'esistenza: una capacità tutelata da anziani e bambini, alleati naturali nella volontà di abbandonarsi ad una visione meno razionale dell'esistenza, aperta all'imponderabile e alla dimensione magica. Peccato per le sottolineature hollywoodiane, soprattutto l'accompagnamento musicale eccessivo e disarmonico rispetto all'interpretazione sottile e sfaccettata del piccolo protagonista.
Firmato da Peter Webber, il film, prequel sullo psichiatra antropofago più famoso della celluloide, si assume il difficile compito di spiegare come Hannibal si trasformò appunto in The Cannibal, diventando uno dei personaggi più coinvolgenti, tanto malvagio quanto brillante, del genere thriller. E il libro è firmato ancora una volta da Robert Harris, che arriva così al capitolo numero quattro della saga: dopo Il silenzio degli innocenti, Hannibal e Red Dragon arriva questa conturbante pellicola a fare luce sulle origini del male, a fare spazio nell'infanzia e nell'adolescenza di Lecter.
Il risultato è un film adrenalinico e dal ritmo sostenuto, che riesce perfettamente nell'intento di mescolare saggiamente dosi di suspence e horror, dramma e tragedia. Webber, che già aveva dimostrato il suo talento visivo, fatto di dettagli perturbanti e inquadrature ariose, in La ragazza con l'orecchino di perla firma una pellicola che ben riesce a incentrare tutta la sua potenza nel personaggio di Hannibal, qui interpretato dalla new entry Gaspard Ulliel, giovane dal volto inquietante, aspro e dissonante, che forse subisce il peso del paragone con Anthony Hopkins, ma che riesce perfettamente a interpretarne la giovinezza. Al suo fianco, nei panni della giapponese Lady Murasak, la sempre misteriosa ed equilibrata attrice cinese Gong Li, che ancora una volta dimostra la sua straordinaria abilità interpretativa. A coronare il tutto una fotografia a cui è stato affidato l'arduo compito di restituire atmosfere cupe e di tensione, una fotografia che riesce a farsi ora ombrosa e sgranata ora dai colori melmosi e macabri. Un thriller che è ingranaggio perfetto e completo, una storia che riesce a tenere davvero con il fiato sospeso.
Ottime regia e sceneggiatura, grandi interpreti e un tema che coinvolge milioni di famiglie in tutto il mondo. Quattro Oscar molto importanti: film, regista, Hoffman e Streep.
Non c'è pace per le sexy eroine al cinema. Dopo i flop di Elektra, Underworld: Evolution e Catwoman, anche Aeon Flux promette parecchio ma mantiene poco. Il problema è il solito: zero originalità. Tutti i temi trattati nel film sono già stati oggetto di analisi in altre produzioni e, purtroppo per la Kusama (Girlfight), trattati decisamente meglio.
Risibile la sceneggiatura che oltre ad essere piena di marchiane incongruenze, dimentica personaggi, affastella in modo disorganico temi e spunti narrativi, propone dialoghi banali e sentiti già mille volte.
Molto buono invece l'aspetto formale: nonostante gli effetti speciali antidiluviani, Aeon Flux segna a proprio favore un paio di tacche in ambito fotografia, scenografia e costumi. Architetti e designer apprezzeranno. Molto meno invece lo faranno tutti gli altri, interdetti da una trama poco originale, e stupiti nel vedere tre attori in passato nominati all'Oscar (Sophie Okonedo, Frances McDormand, Pete Postlethwaite) biascicare scemenze per un'ora e mezzo.
Certo, la visione di Charlize Theron, sexy, intensa e desiderabile, con indosso uno dei bellissimi costumi scelti dalla produzione per impersonare l'eroina è sempre gradevole, ma se alla fine diventa l'unica ragione per degnare d'attenzione Aeon Flux, significa che qualcosa è andato storto.
Come sovente accade nelle opere di Tornatore, in questo lavoro si parte alla grande per poi tradire con il passare dei minuti le speranze suscitate.
In una Sicilia di mare (Siracusa e la la Scala dei Turchi con in più l’utilizzo dei ruderi di Poggioreale) ai tempi del secondo conflitto mondiale vive la bellissima donna del titolo (Monica Bellucci): già quando il marito è in guerra le chiacchiere non mancano, nel momento in cui arriva la notizia del decesso le malelingue iniziano ad attribuirle relazioni a destra e manca. Solo il dodicenne Renato (Giuseppe Sulfaro) la crede una dea e, innamorato perso, la segue ovunque diventando lo spettatore di una discesa agli inferi mentre avviene la sua iniziazione alla vita e alla sessualità.
Ci sono le tinte calde della fotografia di Lajos Koltai, le musiche avvolgenti di Morricone, un uso maestoso della macchina da presa (gli ampi piani sequenza) e del montaggio di Massimo Quaglia (gli abitanti del paese che fungono da coro passandosi il testimone del racconto): si vedono i soldi spesi da Miramax nonché la voglia del regista di omaggiare i maestri con Fellini su tutti perché è impossibile non pensare spesso ad ‘Amarcord’.
C’è una buona dose di umorismo, aspetto non sempre frequentato dall’autore siciliano, nella rappresentazione delle figure di contorno come la rumorosissima famiglia del protagonista (i genitori sono Luciano Federico e Matilde Piana) o nel ricreare i miti del cinema che fu, ma da un certo punto in avanti la storia di Luciano Vincenzoni mostra il fiato corto (sarebbe stata una bella novella, non un romanzo) e le situazioni prendono a ripetersi.
Si alternano allora momenti di vivissima emozione – la brutale e mirabile scena del linciaggio – in altri in cui la tensione scema fino alla serie di finali che si sovrappongono: grazie anche a un cast ben assortito con facce indovinate e Sulfaro assai credibile (Bellucci si limita a sfolgorare bellezza parlando pochissimo e sottovoce) il film merita una visita attenta, ma lascia un senso di complessiva insoddisfazione.
Film ricco di ombre e non solo in senso letterale. Dietro la macchina da presa non c'è Uwe Boll ma il risultato finale non entusiasma lo stesso, anche se fortunatamente siamo lontani dalle aberrazioni del filmaker teutonico. Doom è un action movie piuttosto convenzionale, decisamente prolisso, non particolarmente emozionante, che si allinea alla pletora di pellicole simili che in questi anni abbiamo già visto e stravisto un migliaio di volte. L'unica sezione che davvero convince, quella nella quale si recupera appieno lo spirito del videogioco e ci si sforza di essere vagamente innovativi, dura cinque minuti d'orologio. Il cast è funzionale alla causa, ma la mancanza di originalità nella messa in scena è abbastanza deprimente: l'assenza dei cacodemoni fa il resto.
Essendo il genere demenziale tipicamente abitato da personaggi sopra le righe, eccessivi e a loro modo sempre iconoclasti, l'incontro con il mondo della moda, che mostra per natura le stesse caratteristiche, non poteva che dar luogo ad un match perfetto, e Zoolander ne è stata la prova. Il secondo capitolo potrebbe non far altro che ripetere il concetto, ma interpreta il compito in maniera ansiosa e bulimica. Da un lato, infatti, s'intrattiene senza verve sui cambiamente occorsi nell'ambiente dal 2001 ad oggi, dall'altro si butta a capofitto nella crime story, riempiendo l'ordigno cinematografico di polvere esplosiva ma apparendo poco attrezzato per reggere l'impatto della deflagrazione al momento decisivo.
L'ambientazione nella Roma riportata allo splendore dei massimi complotti da Dan Brown, offre l'occasione a Ben Stiller, Justin Theroux e soci di inventare un segreto biblico, basato su un gioco di parole, che da solo dovrebbe tenere insieme un'avventura che parla di popstar assassinate, di un eletto sovrappeso e di un cenacolo massonico che conta tra i suoi adepti Valentino, Anna Wintour, Vera Wang, Mark Jacobs e Tommy Hilfiger: tutti veri e democraticamente incappucciati.
Naturalmente, sconclusionato può essere sinonimo di divertente, è quasi condizione necessaria, ma qui il troppo finisce per nascondere il buono: si ride meno rispetto al film inaugurale e pare di essere capitati dentro un'infilata di parodie, da Balle Spaziali a Johnny English, compressa dentro ritmi troppo sostenuti per il nostro eroe, il cretino Derek. Penelope Cruz, nei panni di un ex modella di costumi da bagno riciclatasi come poliziotta hot, procede controcorrente, rallentando il ritmo del film ad ogni apparizione, ma non è esattamente un pregio.
Il sequel non trova una propria "espressione", per quanto uguale a tutte le altre, e, verso la fine, replica senza remore le gag dell'originale. Stiller la chiedeva così bene, che non si poteva non dargli "un'altra chance", ma difficilmente questo capitolo replicherà il fenomeno di culto.
Tornatore si è innamorato del linguaggio: sale e scende, si allontana, si diverte con la macchina da presa, con rimandi a Spielberg, Leone, e persino a Fellini. Ma non ci sarebbe niente di male. Le cadute sono soprattutto di sceneggiatura: visibilissima la differenza di scrittura fra Baricco e Tornatore, che è regista, non scrittore, e non "sente" quando è il momento di togliere o di chiudere: c'è una mezz'ora di troppo. Certo, con il "cinema" Tornatore ci sa fare. Non lo abbiamo un altro come lui.
Nasce da esperimenti eugenetici autorizzati dalla Germania nazista e portati avanti dalla CIA e da altre agenzie britanniche, canadesi e delle Nazioni Unite, questo minestrone di fantascienza, avventura, spionaggio, horror, azione, che sbaglia tutte le dosi e mette tutta la pesantezza del digitale al servizio di un autore leggero. Se per il progetto MK-Ultra le agenzie di spionaggio offrirono pubblicamente una giustificazione razionale, la necessità di contrattaccare e competere con le capacità di controllo mentale del nemico sovietico e comunista, più difficile è trovare una spiegazione a questa grottesca rappresentazione di virtù guerriere e patriottiche contro il sistema governativo costituito e contro l'invasore asiatico.
Con una negligenza da blockbuster Push alterna sequenze di azione a dialoghi che vorrebbero essere emblematici di una vera e propria visione del mondo, della fragilità delle relazioni umane, della difficoltà di saper scegliere la cosa giusta nei momenti più difficili. Nato da un'idea originale di David Bourla e ambientato a Hong Kong dentro un presente che sembra già futuro, il film di Paul McGuigan ha più di qualche debito con i mutanti X-Men della Marvel, a partire dalla maledizione di un corpo incontrollabile.
Come le creature di Stan Lee, i protagonisti paranormali di Push sono superuomini umani troppo umani, una comunità di diversi prigioniera dei poteri del proprio corpo o della propria mente e incapaci di integrarsi nell'umanità.
Il confronto si limita a questo perché il regista è incapace di servire e salvaguardare la causa della "diversità", girando un film rumoroso e manicheo, uno spettacolo effettato che non avanza ipotesi alcuna, ripresentando l'eterno scontro tra integrazionisti (la Divisione) e separatisti (Nick, Cassie e compagni), tra pacifisti indulgenti e attivisti violenti. Il film non eleva mai il racconto dai toni di una esibita convenzionalità drammaturgica e a latitare è soprattutto la profondità di intenti e di argomenti.
Il tentativo del regista e del protagonista, orfano pallido e battuto dei Fantastic Four, di tenere desti gli spettatori con le imprese, con le urla degli insopportabili bleeder-brothers e con i "botti" delle sparatorie risulterà vano. Dopo la visione reclamate un "wiper", il superuomo che può cancellare qualsiasi memoria.
Il film è un thriller soffuso, cadenzato, con tinte fosche e angoscianti. Prevalgono tonalità grigie dalle divise collegiali alle mura degli ospedali. La scenografia firmata da Mark Digby (The Millionaire) è tutt'uno con lo stato d'animo e la condizione larvale della vita. L'unica vibrazione che scuote lo stato emotivo, destando sogni e desideri, è espressa dal ritornello di una canzone :'Darling, hold me and never never never let me go'. Dalla penna di Kazuo Ishiguro, scrittore nato a Nagasaki e cresciuto nel Paese dove è avvenuta la clonazione della pecora Dolly, non poteva mancare un confronto con le conseguenze del progresso scientifico. Un confronto che diviene interrogativo sulla condizione umana, sull'omologazione, la libertà individuale e la pressione di un potere che vorrebbe livellare il pensiero. Il suo romanzo 'Never let me go' al quale ha lavorato per quindici anni, anche se descrive un mondo parallelo dominato dalla clonazione, è tragicamente umano. Ci sono dentro gli interrogativi sulla scienza, sul senso dell'amore, dell'amicizia e dell'arte.
La regia di Mark Romanek (celebre autore di video musicali come 'Bedtimestories' di Madonna o 'Scream' di Michael Jackson) fedele alle intenzioni di Hishiguro, riesce a condurre l'esperienza reale e ordinaria della vita di un college inglese, verso un piano sempre più astratto e metaforico. La tragedia di questa lenta rassegnazione al destino è tramata con un'eleganza tipicamente nipponica, senza contrasti, atti di forza o ribellione. La scelta degli attori adulti è suggestiva oltre che ispirata. La coppia Ruth - Tommy (interpretata da una metafisica Keyra Knightley e uno stilizzato Andrew Garfield) è lunare e consunta. Entrambi sembrano emergere dal dolore dei dipinti di Munch, Kirchner e Kokoschka. Nessuno di loro metterà al mondo bambini perché 'generare' è un atto creativo e la 'creatività' è bandita dalle loro vite. Per questo c'è una sessualità triste, frustrata come quella immortalata dagli espressionisti. Si tratta di una prigionia psichica, più affilata e capillare di quella schiavistica, che non contempla la salvezza.
L'immagine dell'uomo che non può più mettersi in viaggio e cercare, è espressa dalla nave sdraiata sulla sabbia, arrugginita ed in-ferma. Una nave che non può più sperare l'orizzonte. Vale la pena vivere se l'identità è censurata? Cosa resta all'uomo se può fare a meno della creatività per rispondere ad una volontà estranea al cuore? Se perdiamo noi stessi a che vale il progresso scientifico? Veniamo consegnati alla morte se le idee si spengono, sembra svelarci sottovoce questo film esangue e magnifico.
Il regista danese Niels Arden Oplev firma Flatliners - Linea mortale, remake dell'omonimo film di Joel Schumacher del 1991. Oltre alla storia, i due film condividono lo stesso produttore, Michael Douglas, l'attore Kiefer Sutherland, ora nel ruolo del Dott. Nelson Wright, e la morbosa curiosità per la vita oltre la morte. Il regista noto per Uomini che odiano le donne (2009), l'adattamento del noir di Stieg Larsson, persegue sulla via del thriller in questo film di fantascienza ai limiti dell'horror. Sceneggiato da Ben Ripley, Flatliners è sorretto da una squadra di giovani attori tra cui spicca Ellen Page nel ruolo della studentessa Courtney Hall, capofila dell'esperimento. "Voi non siete qui per diventare medici di campagna ma per oltrepassare i limiti della conoscenza umana", Courtney tiene bene a mente la frase del loro professore.