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Ti odio, ti lascio, ti... - The Break-Up (2006) Ti odio, ti lascio, ti... (2006)
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Dopo il coloratissimo Down with Love, interpretato da Renée Zellweger e Ewan McGregor, Peyton Reed mette in scena una commedia amara che ancora una volta "abbassa l'amore". Se nella pellicola precedente la protagonista si negava all'amore per dedicarsi alla carriera nella New York rosa e glamour degli anni Sessanta, in The break up Brooke cerca di combinare lavoro e amore nella Chicago sopravvissuta a un lontano incendio e ricostruita intorno alla perfezione geometrica del Loop. Accantonate le atmosfere e i dettami estetici degli anni '60, il regista si concentra sulla contemporaneità e suoi sentimenti coniugati al presente. Vince Vaughn, allora, non è Rock Hudson e Jennifer Aniston non è una copia di Doris Day, ma insieme incarnano vizi e virtù di una coppia moderna collassata nel salotto di Peyton Reed seguendo un percorso cinematografico coerente. Brooke Meyers/Aniston è una donna sull'orlo di una crisi di nervi cominciata sul divano dei Friends e proseguita per "settimane" (da dio) fino a quei Vizi di famiglia, duri a morire, che l'hanno consacrata regina del genere comico romantico. Alle défaillance sentimentali dei suoi tanti personaggi e della donna fuori dallo schermo Jennifer Aniston ha sempre risposto con spirito e grazia. Il suo talento e il suo umorismo si accompagnano, sullo schermo e (forse) nella vita, a quelli di Vince Vaughn: soggettista, produttore e interprete del film. Esibizionista, impostore e gigione in 2 single a nozze, Vince Vaughn è anche lui interprete irresistibile di commedie di successo a cui è arrivato dopo aver prodotto un discorso espressivo personale recitando spesso in ruoli decentrati dall'azione. Osando di più, gli attori ne erano all'altezza, sceneggiatore e regista avrebbero potuto confezionare una commedia sentimentale più nera, forse più cattiva, strappando a Hollywood un po' del suo superato, quanto inattuale buonumore.

LOL - Pazza del mio migliore amico - LOL (2012) LOL - Pazza del mio migliore amico (2012)
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Lisa Azuelos vola in America per rifare il film che le aveva portato fortuna qualche anno fa in Francia. Nel ruolo della madre, neodivorziata spaventata dall'idea di un nuovo amore come un'adolescente da quella della prima volta, una Demi Moore tristissima, dal volto immobile come la pietra, prende il posto di Sophie Marceau, di cui non solo ricordiamo tutti in filigrana la ragazzina che è stata (il che, di per sé, motiva un minimo i discutibilissimi montaggi alternati tra la vita sentimental-sessuale di Anne e quella di Lola) ma che, nel film originale, aveva avuto l'immenso buon senso di "recitare" la parte della madre, come fosse un personaggio da provare e riprovare per trovare la naturalezza e farne una seconda pelle. Qui la genitrice si perde nell'inconsistenza anziché nell'ingenuità e l'ironia prende la stessa strada. Lola, invece, è Miley Cyrus, che di francese non ha nulla, né la classe né la vena drammatica, ma ha indubbiamente un suo sentimentalismo ormai codificato, fatto di abbracci col chewingum in bocca, goliardia con i coetanei e sguardi paternalistici verso il mondo adulto, oltre che una gratuita simpatia che le viene soltanto dal non essere una bellona.
Fatti salvi gli aggiustamenti geografici, il copione è quasi pedissequo nel ricalcare il vecchio se stesso, ma genera un'evidente ambiguità di posizione riguardo al giudizio su sesso, droga e (post)rock&roll, alternando più di una volta demonizzazione e superficialità: forse davvero all'americana, ma comunque in maniera sproporzionata.
Come in un nostrano film di Moccia, la noia dei fatterelli quotidiani ingigantiti dai sospiri sembra essere l'unica controindicazione possibile, e ci sono dei momenti di tenerezza e ardimento molto riusciti nel racconto del corteggiamento mascherato da abitudine tra Kyle e Lola, ma il dubbio resta un altro. Appiattiti su una sequenza di clichè senza soluzione di continuità, tanto sul piano narrativo (il padre che intima: "o la sufficienza a scuola o la musica" e poi si ricrede al concerto) che su quello estetico (le parole d'amore compresse in un "miss u", i lucchetti sul ponte...) film come questo non fanno sognare. Né i ragazzi né gli adulti. Ci fotografano nelle nostre manifestazioni peggiori di ignoranza, pigrizia e omologazione e non si capisce per cosa dovremmo divertirci o commuoverci.

La musica nel cuore - August Rush - August Rush (2007) La musica nel cuore - August Rush (2007)
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La figlia del regista Jim Sheridan, Kirsten, porta sullo schermo una sceneggiatura a metà strada tra fiaba e realtà che trova nella musica il collante tra i vari personaggi. Quest'ultima non è un elemento esterno che funge da accompagnamento alle immagini o da sottolineatura emotiva. Come non protagonista, il supporto sonoro è uno strumento attraverso il quale la cineasta e gli sceneggiatori strutturano la narrazione. Riuscita la scelta di adottare una musica "pensata". O meglio una deformazione sonora soggettivata dalla mente del bambino capace di armonizzare i molteplici suoni della Grande Mela in un unico spartito virtuale. Non è un caso che nella pellicola ci siano molti rumori ed effetti sonori. La loro funzione, essenzialmente realistica, fugge il suggestivo per guidare il narrativo.
Estremamente deboli, invece, la raffigurazione del lato povero dell'America e il legame tra figli e genitori. Il primo punto, che dovrebbe fare da sfondo al secondo, viene trattato in modo sommario e sbrigativo comunicando un senso di estraneità alla storia ma soprattutto alle paure di un undicenne appena arrivato in una metropoli dai mille pericoli. L'altro aspetto difficilmente trova una propria giustificazione.
La reciproca ricerca tra padre-madre-figlio, fortemente mossa da elementi magici e misteriosi, trasmette a chi guarda un senso di non appartenenza che non giova all'equilibrio della pellicola. Buone le interpretazioni di tutti gli attori: Jonathan Rhys Meyers, Keri Russell, Robin Williams e il giovanissimo Freddie Highmore, ritenuto da Kate Winslet il migliore attore-bambino mai visto sullo schermo.

La mia vita è uno zoo - We Bought a Zoo (2011) La mia vita è uno zoo (2011)
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Può capitare qualche volta che una sequenza sola definisca il destino di un film. Nella cassiera nera in conversazione col protagonista di Matt Damon c'è il senso di La mia vita è uno zoo e probabilmente del cinema tutto di Cameron Crowe. Un cinema che si perde e si ritrova sempre, un cinema con due anime, una dolce e una amara, un cinema colpevole di cuore e abitato da 'perdenti' pieni di grazia. Come Drew Baylor in Elizabethtown, che deve fare fronte a un lutto e a un fiasco, come Benjamin Mee, che deve gestire un lutto (di nuovo) e una paternità.
Ispirato a una storia vera e al romanzo che l'ha raccontata ("We bought a Zoo"), La mia vita è uno zoo è un percorso di risalita e insieme una parabola filosofica sul comportamento umano. Perché al centro della filmografia del regista americano ci sono sempre le persone, quelle che fanno la differenza scattandoti una foto ideale o incoraggiandoti dietro la cassa di un supermercato, quelle che spostano più avanti, oltre il dolore e l'assenza, quelle per cui è più importante essere, quelle che si può sempre ricominciare da capo, quelle che ritrovano l'ispirazione e con quella la rigenerazione.
Se ieri era il quieto volto di Orlando Bloom a risalire l'infelicità fino al cuore del Midwest e di una hostess splendente nel primo vero sorriso di Elizabethtown, oggi è Matt Damon a osservare smarrito quel se stesso raddoppiato, frantumato e rimandato dallo specchietto retrovisore di un'auto familiare, di una vetrina, di uno schermo, di una lente. La mia vita è uno zoo diventa per l'attore il campo di una performance rilevante e di uno sbalorditivo controllo comico del pathos: una maschera che per quanto stravolta non provoca dolore ed è disposta a incrinarsi nel solo epifanico momento in cui i ricordi si concretizzano, desiderati con sentimento infantile ma acquietati da un impossibile 'ritorno a casa'. Impossibile perché il nuovo film di Cameron racconta la vita 'dopo', quando la persona che ami se n'è andata ma tutto ancora parla di lei. E allora bisogna cambiare casa, cambiare città, cercare altrove ma per quanto ci si sposti, ci si muova, ci si trascini fuori, dentro si è come prigionieri di un incantesimo, chiusi in un lutto, in un momento immobile, unico, irripetibile per chi resta e per chi guarda.
In un film di formazione, che forma un figlio e matura un padre, Crowe (ri)mette in schermo la sofferenza più intima e meno tangibile e gira intorno alla medesima e inesorabile domanda: si può sopportare la perdita? Presumibilmente non si può ma evidentemente si deve e così il protagonista, alla maniera del padre vedovo di Clooney nel paradiso amaro delle Hawaii, compie un viaggio alla ricerca di una geografia ambientale che risani quella interiore, lontano dalle stanze vuote del dramma e dagli infiniti spazi dell'assenza. Con La mia vita è uno zoo e attraverso la battuta conclusiva della Lily di Elle Fanning, Cameron Crowe ribadisce che nulla è più avvincente di un essere umano e delle relazioni umane.
Le note di Jónsi dei Sigur Ros accompagnano allora un sistema solare del dolore contiguo e successivo a quello di Elizabethtown: una grande sofferenza al centro, intorno a cui orbitano anime belle e riparatrici che fanno ogni giorno migliore.

King Arthur (2004) King Arthur (2004)
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Nuova produzione e primo reale flop di Bruckheimer, King Arthur si basa sulla sceneggiatura di David Franzoni (Il Gladiatore, il prossimo Hannibal) che ignora completamente i miti conosciuti da tutti e ambienta la storia del 460 d.C. proponendo un Artù sarmata al servizio di Roma, una Ginevra guerriera ed un Merlino stregone da due sterline.
A confronto con King Arthur, persino Troy appare una fedele riproduzione del mito. Ma, se il film fosse valido, si potrebbe tranquillamente chiudere un occhio sulle licenze prese: il problema è che, a prescindere dallo stupro operato ai danni della storia originale, mito certo, ma oramai radicata negli animi di chiunque abbia letto le storie dei cavalieri della tavola rotonda, King Arthur dimostra di avere poca personalità e pochissime frecce al suo arco per esaltare ed emozionare lo spettatore.
A livello recitativo siamo prossimi allo zero assoluto: Owen, dopo l'atroce Amore senza confini, prende un'altra sola clamorosa e passa due ore ingrugnito a farsi irridere un po' da tutti i personaggi, la Knightley (che, come una volgare critica ha "cavallerescamente" notato, avrà pure poco seno ma è di una bellezza devastante), è assurdamente truccata da amazzone combattente, mentre Merlino è ridotto a stregone dal carisma nullo se confrontato con la versione Boormaniana.
Nota di colore per il simpatico Marescotti (come sia finito lì è un mistero) che dona un ameno accento bolognese al suo personaggio di vescovo ed emissario papale e sembra pronto da un momento all'altro a sfornare tigelle e crescentine fresche di giornata.
Nel contesto generale, spicca in negativo la atonale colonna sonora del diabolico Zimmer che fotocopia, peggiorandola, quella de Il Gladiatore: a questo punto pare che per i compositori americani, basti la vista di una spada o di una uniforme da centurione, per scatenare un'orda di gemiti e lamenti che si impastano a casaccio con toni maldestramente epici. Insomma, per dirla in breve, un disastro su tutta la linea....

Marie Antoinette (2006) Marie Antoinette (2006)
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Maria Antonietta nasce a Vienna il 2 novembre 1755. Nel 1770 raggiunge a Versailles il suo promesso sposo, il delfino di Francia futuro Luigi XVI. Il 16 ottobre 1793 viene ghigliottinata. Si può racchiudere in queste tre date la vicenda storica di una delle regine più note della Storia. Non è però a questo che guarda Sofia Coppola nella terza opera di una filmografia dedicata alla difficoltà di crescere per una giovane donna, quale che sia il luogo o l'epoca. Che si sia chiusi nell'ottusità di una famiglia americana (Il giardino delle vergini suicide), che ci trovi in un luogo in cui il non conoscere la lingua corrisponde anche al complesso rapporto con se stessi (Lost in Translation) o che siano i fasti di una reggia a circondare una giovane e bella futura regina di Francia, la situazione si ripete.
La Coppola torna a lavorare con Kirsten Dunst, ne utilizza la fresca malizia ma al contempo la libera dal ruolo "fidanzatina della porta accanto" che Spider man le ha appiccicato addosso e che Elizabethtown ha solo ritoccato. Aiutata da costumi straordinari (Milena Canonero) e da una colonna sonora che mescola musica d'epoca a brani di Bow Wow Wow, New Order e Phoenix, Sofia Coppola ci fa "sentire" moderna una storia antica, evitando i cliché storici e la ricostruzione politica. È di una donna che ci vuole parlare, una donna che soffre per la disattenzione sessuale del marito che si trova caricata come colpa, una donna-bambina che compensa le frustrazioni giocando con scarpe, cibi, cani come una ricca signora di Beverly Hills. Guardatela nella prima inquadratura che precede il titolo e che ricorda come capacità di sintesi quella del maestro Kubrick in Eyes Wide Shut. Sembra esserci tutta Maria Antonietta e invece ci sono 2 ore in cui procedere nella scoperta.

Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo - The Imaginarium of Doctor Parnassus (2009) Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo (2009)
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Terry Gilliam è indubbiamente uno di quei pochi registi che fanno del cinema la vera arte dell'immaginario. Sin dal suo primo film Brazil aveva dato prova di una creativita'e di una cultura vastissima in campo figurativo. Le sue sono state produzioni spesso tormentate (a partire dai problemi di budget quella de Le avventure del Barone di Münchausen fino al disastro del film su Don Chisciotte splendidamente raccontato nel documentario Lost in La Mancha) e anche in questo caso non sono mancati i problemi. La morte improvvisa di Heath Ledger ha portato a una revisione profonda della sceneggiatura che ha prodotto l'affidamento del suo personaggio anche a Johnny Depp, Colin Farrell e Jude Law che hanno devoluto il compenso alla figlia dell'attore.
Gilliam ha saputo fare, come si dice, di necessità virtù riuscendo a realizzare un omaggio davvero particolare all'attore scomparso. Perché questo suo film è un inno alla vita e all'immaginario che debbono poter vincere nonostante tutto e, spesso, anche nonostante i lati oscuri delle fantasie che ci pervadono. È un gioco di alto equilibrismo sulla corda tesa della fantasia quello a cui il regista ci propone di partecipare. Gilliam è da sempre Parnassus. Non sarà immortale ma la sua inesauribile voglia di immagini che (al contrario di quanto troppo spesso accade) non ottundano la fantasia ma la provochino ad aprirsi a nuovi orizzonti è rimasta intatta con il trascorrere degli anni e, grazie agli sviluppi della tecnologia, ha trovato nuovi materiali su cui esercitarsi. Il bambino che è in Terry è più vivace che mai, conosce la luce e il buio, la felicità e la paura e aspetta che passiamo a trovarlo. Vive sul carro del Dottor Parnassus.

La casa sul lago del tempo - The Lake House (2006) La casa sul lago del tempo (2006)
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Ispirato a un film coreano del 1998 (Il mare) l'opera di Alejandro Agresti è una commedia sentimentale al limite del metafisico, che analizza la ricerca dell'amore angelicato, conservandone l'aspetto terreno benché temporalmente non allineato. Per procedere alla visione non bisogna assolutamente verificare i rapporti causa-effetto fra passato e futuro (il presente non esiste), per non rischiare di perdere di vista il significato più profondo della storia. Allo spettatore viene chiesto, quindi, di non credere, per poter credere (in questo caso) a quell'amore che nella vita si presenta una volta sola in un tempo ben definito, e che si deve essere capaci di non lasciare andare. Il regista, che prosegue il discorso sugli "amori a distanza" iniziato in Tutto il bene del mondo (in quel caso la lontananza era spaziale), descrive la storia asservendosi ai due protagonisti e alla logica sentimentale hollywoodiana. Pur mantenendo una modalità espressiva epistolare, Agresti riempie però gli spazi con una logica patinata da videoclip che a volte finisce per infastidire.
Le belle facce di Reeves e della Bullock, sufficientemente segnate per manifestare il disagio esistenziale dei protagonisti, guidano la storia, invece di conferirle valore, la livellano, la appiattiscono, facendo credere che l'amore esiste perché esiste S.Valentino. La casa sul lago del tempo è un'occasione persa, un'idea male intesa, che però vale la pena di vedere; soprattutto se si crede che un rimorso sia meglio di un rimpianto e che per giudicare si debba vivere. E, se si parla di cinema, osservare.

Epic - Il mondo segreto - Epic (2013) Epic - Il mondo segreto (2013)
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Storia di formazione e crescita, Epic - Il mondo segreto parte da un'idea per nulla originale sviluppando poi un solido intreccio perfettamente retto dal ritmo della narrazione, dall'arguzia delle trovate e da una straordinaria capacità tecnica. Come nelle altre pellicole uscite dagli Blue Sky Studios, è ancora il tratteggio dei caratteri a fare la vera forza di un racconto senza momenti di stanca: grazie all'attenzione riposta nel descrivere il background motivazionale dei protagonisti come in molte tipizzazioni spesso irresistibili (su tutti, il duo comico formato dagli invertebrati Mub e Grub, custodi del prezioso bozzolo che può ridare pace a tutto), anche lo spettatore adulto riesce ad allontanare la leggera noia suscitata dal trovarsi ancora davanti all'ancestrale lotta del bene contro il male.
Benché metta in campo un sistema di personaggi ampiamente rodato, questo primo lungometraggio che Chris Wedge dirige senza l'apporto di Carlos Saldanha - il tandem ha co-firmato L'era glaciale e Robots - rappresenta qualcosa di più di quello che si può credere ad una distratta visione. La meraviglia dell'umana Mary Katherine, magicamente mutata in un esserino minuscolo per cui un topolino di campagna diventa una spaventosa minaccia, è la stessa di chi guarda, da subito immerso in una visione - esaltata da un funzionale 3D - per cui quel paradosso delle inaspettate proporzioni certamente vecchio come il cinema trova, nell'accuratezza dei dettagli e nella realizzazione globale, una nuova specificità.
Pagando il pegno a più pellicole, dal combattimento iniziale che omaggia Avatar in giù, la favola ecologica di Wedge costruisce un piacevole mondo in cui l'unico antidoto alla decomposizione, e quindi alla morte, è la rete che si può creare tra più singolarità ("molte foglie, un solo albero"). Oltre alla maturità da conquistare, per Mary Katherine e per il turbolento Nod, l'altro polo tematico è quello dell'importanza della tenacia nel perseguire il proprio sogno, rappresentato dalla riuscita e strampalata figura del padre. Alla base della sceneggiatura c'è il libro per bambini "The Leaf Men and the Brave Good Bugs" di William Joyce, che figura come produttore esecutivo.

Pan - Viaggio sull'isola che non c'è - Pan (2015) Pan - Viaggio sull'isola che non c'è (2015)
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"A sbagliare le storie" siamo autorizzati tutti. Lo facciamo fin da piccoli alla luce del sole e proseguiamo da adulti quando è l'ora notturna dei sogni. All'inizio del testo originale di J. M. Barrie, un attimo prima di presentare Peter Pan, il narratore parla esattamente di questo, ovvero di come lui e il figlio David facciano lievitare lo spunto di partenza: "prima io racconto la storia a lui, e dopo lui rifà il racconto a me, colla differenza che non è più la stessa storia; e allora io torno a raccontarla ancora a lui colle sue addizioni e varianti, e così si va innanzi finché nessuno può più dire se la storia è mia oppure sua". Curiosa premonizione, in fondo, se si pensa che forse nessuna storia moderna si è spinta così in là rispetto alle righe di partenza, grazie alla fantasia di sceneggiatori e animatori, fino alla seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino.
Il film di Joe Wright si presenta come il prodotto dell'apoteosi di questo metodo creativo ma anche come il suo punto di non ritorno. Alla fine di Pan saremo stati dappertutto - nella Londra di Dickens e nel mar dei Caraibi di Bruckheimer, al fianco di Han Solo e della Principessa Leila (Uncino e Giglio Tigrato), all'Opera cinese (con Rooney Mara, perfetta) e nel regno scientifico dei cristalli, nell'arena degli Hunger Games (con Hugh "Barbanera" Jackman, la nota più debole del film), tra gli anelli di Saturno e tra le Sirene in sensuale girotondo - e a quel punto, Peter Pan si sarà anche trovato ma noi ci saremo certamente persi.
Che fine ha fatto la storia del "bambino che sapeva volare"? C'è e funziona (funziona sempre, è un classico mica per niente), ma è sepolta sotto una caterva di invenzioni narrative e visive che, prese singolarmente, affascinano di certo, ma, accumulate l'una sull'altra, ben presto sfiniscono e vien voglia di scappare da Neverland, come sarebbe giusto e filologico fare, ma qui no, quello no, perché non si sa mai, le storie sono manipolabili all'infinito e la possibilità del sequel sempre dietro la porta.

I fratelli Grimm e l'incantevole strega - The Brothers Grimm (2005) I fratelli Grimm e l'incantevole strega (2005)
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C'era una volta il genitore che prima che ti addormentassi ti raccontava una favola.
E tu, bambino, col capo riposto di fianco sul cuscino, l'ascoltavi in silenzio, incantato, con gli occhi spalancati sul tuo oratore personale, e se anche quella storia già la conoscevi, te l'aveva raccontata quasi uguale qualche giorno prima, ti lasciava volare con la fantasia. C'era l'amore, c'era lo spettro dell'abbandono e quello della morte, c'era la morale e c'erano, soprattutto, i mostri. Lupi che mangiavano nonne difficili da digerire, zitelle nervose che addormentavano belle principesse, regine gelose di non essere le più belle del reame e matrigne che abusavano del lavoro minorile. Tutti cattivissimi e "spaventosissimi" tanto che, ancora oggi, se volete mettere un po' di paura ai vostri figli, fratellini, sorelline e nipotini, vi affidate a quelle figure malvagiamente magiche.
Se quelle storie non vi piacevano, vi facevano venire gli incubi e volete prendervela con qualcuno fatelo con i fratelli Grimm. Sono infatti questi due scrittori berlinesi del diciannovesimo secolo che misero su carta, forse rimaneggiandole, forse no(chi lo saprà mai!), antiche leggende fino ad allora tramandate oralmente, diventandone ufficialmente gli autori.
Gilliam fa senza dubbio parte di quest'ultimo gruppo. A lui i fratelli Grimm hanno rovinato l'infanzia, e così li ha immersi negli spaventosi mondi da loro creati.
Will (Matt Damon) e Jake (Heath Ledger) Grimm sono due imbroglioni che girano di paese in paese presentandosi come "cacciatori di mostri". In verità le creature da scacciare sono semplici effetti da circo da loro stessi creati. Le truffe si interrompono quando le autorità napoleoniche se ne accorgono. La pena è la morte, a meno che non riescano a risolvere i misteri che avvolgono una strana foresta e il paese che le sta vicino….
"I fratelli Grimm" ha tutte le caratteristiche del suo regista Terry Gilliam. Visionario, fracassone, paradossale e un po' confuso, il nuovo film dell'ex "Monty Python" è un'avventura divertente con schegge da film horror. L'idea di far attraversare un buon numero di racconti "verticali" (le favole) da una storia orizzontale (quella dei due fratelli imbroglioni che cercano ) crea giustamente sempre molte aspettative. Si può prendere il meglio da ogni cosa per sorprendere, far sorridere o spaventare lo spettatore che riconoscerà senza problemi la citazione. Gilliam ci riesce, ma non completamente. Traspare la magia del progetto, ma troppe volte la battuta o la situazione è "telefonata" e si capisce dove si voglia arrivare. Non c'è il genio perpetuo di Shrek (che si può considerare la versione comica di questo film) e la coppia Damon-Ledger non sembra delle più riuscite (Damon sembra uscito dal museo delle cere). Simpatico vedere Monica Bellucci nei panni della strega cattiva (soprattutto quando la vediamo vecchia decrepita).

47 metri - 47 Meters Down (2017) 47 metri (2017)
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47 metri appartiene a esse, mettendo in scena una situazione che presenta analogie con altri squalo-movies atipici come Open Water e Paradise Beach - Dentro l'incubo, ma con sufficiente originalità nello spunto.
L'inglese Johannes Roberts è uno specialista dell'horror, pur non avendo un pedigree di particolare brillantezza: qui maneggia con abilità una situazione interessante, da claustrofobia in spazio aperto, in un tour de force registico nel quale trova tempi e modi adeguati per produrre momenti di tensione e spavento senza però mai mettere in secondo piano l'aspetto umano, che ci porta a temere per la sorte delle due protagoniste alle prese con qualcosa di più grande di loro. La tensione viene mantenuta piuttosto alta e convincente: talvolta il film traccheggia per la poca sostanza narrativa (è soprattutto un film di situazione), ma riesce a rendere con efficacia la solitudine e la disperazione delle ragazze di fronte a una natura ostile per la quale sono solo cibo per squali.
Pur senza essere particolarmente sottile nella descrizione delle psicologie, inoltre, il film è capace anche di fornire un ritratto convincente del legame che unisce le due sorelle, diverse nel carattere, ma solidali e profondamente affezionate. E l'incertezza in cui versano, insicure sullo stato delle cose in superficie (sono state abbandonate o qualcuno le cerca?), aggiunge ulteriori elementi di suspense. Certo l'elenco delle cose che vanno storte è un po' troppo lungo e ciò detrae un po' di credibilità dalla vicenda, ma nell'insieme il film è molto realistico, avvincente, teso e dotato anche di un buon colpo di scena finale che chiude in modo adeguato la storia. Buona la prova del cast con Mandy Moore e Claire Holt in buona evidenza e la simpatica partecipazione di una vecchia volpe del cinema hollywoodiano come Matthew Modine - lontano dai fasti di Full Metal Jacket, ma ancora in gamba - nei panni di un lupo di mare dall'attrezzatura un po' troppo corrosa dalla salsedine.

Cambio vita - The Change-Up (2011) Cambio vita (2011)
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David Dobkin (di cui ricordiamo 2 single a nozze) decide di affrontare il tema dello scambio di corpi e personalità che costituisce da tempo immemorabile uno dei 'must' della commedia made in Usa. Basta citare Nei panni di una bionda del maestro Edwards o il teenegeriale Tale padre tale figlio con Dudley Moore, chirurgo e padre esigente che entrava nel corpo del figlio liceale per avere due dei tanti possibili esempi con inclusa variazione (nel primo era un Jimmy Smits maschilista incallito a 'indossare' un appeal femmineo conservando intatto il proprio modo di pensare). I tempi però cambiano e Dobkin sembra aver seguito un corso accelerato su quella che in inglese si chiama profanity alla premiata scuola dei fratelli Farrelly tanto da portarsi a casa una R dalla severa classifica americana dei film. Solo che Cambio vita è una commedia, come i suoi due protagonisti, a doppia faccia. Mitch si ritrova stretto nei panni dell'avvocato brillante e affidabile e non sa rinunciare alla sua volgare oralità e Dave, al contrario, ha troppe remore morali per entrare come si deve nel mondo sregolato e privo di responsabilità di Mitch. Fino a che...entrambi cominciano a provarci gusto. Ma qui scatta l'ambiguità di una sceneggiatura che si autocostringe ad andare alla ricerca del ripristino dello status quo. Allo spettatore vedere come ciò avvenga. Al critico resta il compito di segnalare come di questi tempi siano sempre meno i film capaci di andare fino in fondo con coraggio nel ribaltamento delle convenzioni. Dovremo prima o poi rimpiangere i tempi di Trainspotting?

The Exorcism of Emily Rose (2005) The Exorcism of Emily Rose (2005)
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Basato su una storia vera, L'esorcismo prosegue il compito che i protagonisti della stessa si prefissavano: sensibilizzare il mondo verso il riconoscimento dell'esistenza del Diavolo, e la sua ininterrotta azione malefica. Se sul versante dell'esperienza cattolica della possessione e di tutto il discernimento teologico relativo, il film risulta poco interessante e al limite del qualunquista, la parte più strettamente horror funziona, e il merito è in gran parte della scelta registica dichiarata di non volersi affidare ad effetti speciali che andassero oltre i limiti del possibile. Membra contorte, dunque, pupille dilatate e mandibole lussate, ma niente vomito verde che scioglie i mattoni né ali nere né eserciti di demoni orgiastici. Il senso di inquietudine dei personaggi coinvolti oltrepassa lo schermo, come pure il dubbio se ciò che è narrato sia davvero manifestazione del soprannaturale o solo una malattia mentale sfociata in tragedia. Cose incerte, che forse non hanno una ragione, come un orologio che si ferma alle tre in punto della notte.

L'albero della vita - The Fountain - The Fountain (2006) L'albero della vita - The Fountain (2006)
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Tutti vorremmo vivere per sempre ma nessuno ha più accesso diretto all'Albero della Vita, così facciamo i conti con la morte, la nostra e quella delle persone care. Darren Aronofsky prova a riflettere su questo desiderio di eternità ideando un racconto decisamente innovativo che attraversa lo spazio e il tempo alla ricerca della Fontana della Giovinezza. L'idea del regista è più magica che religiosa, il Thomas sospeso nella bolla è un mago divinatore che interroga le forze che governano il mondo per salvare chi lo abita. Il suo spirito, innalzato dalla disciplina (quella militare e quella scientifica), è al di sopra del mondo materiale ed esprime una cosmologia fantastica, sostenuta da scenografie ed effetti visivi squisitamente new age.
Per concepire la fountain del titolo originale (la fontana della giovinezza viene intesa come un albero rovesciato), il regista si è ispirato alle culture e alle mitologie che meglio di altre hanno saputo rappresentarla. Combinando la cultura Maya con quella biblica, Aronofsky crea un mondo nuovo, che risulta familiare perché risponde a esigenze conoscitive e classificatorie presenti a tutte le società. Modelli archetipici noti e miti di creazione e di fondazione della realtà condivisi, che soddisfano il bisogno di cercare spiegazioni e di darsi ragione sul bisogno di infinità ed eternità.
Ma L'albero della vita è anche e più semplicemente una storia d'amore, è una dichiarazione di fallibilità, è l'accesso negato al segreto della vita eterna e l'invito a rassegnarsi alla propria natura umana come fa la giovane moglie del protagonista. In tempi in cui si è persa familiarità con la morte, quella privata e non quella rappresentata in diretta (suicidio o esecuzione capitale), il regista statunitense ne affronta il mistero in un'opera controversa, sospesa e confusa tra fantasy e metafisica. Dopo Pi greco - Il teorema del delirio e Requiem for a dream, Aronofsky come Thomas prosegue la sua ricerca del significato ultimo della vita. Fosse anche celato dietro una stella estinta o dentro un amore ostinato.

Beastly (2011) Beastly (2011)
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Da quando hanno abbandonato il comodino a lato del letto, fiabe e leggende non sono più il racconto della buonanotte dei bambini, quanto la fonte d'ispirazione per i sogni diurni degli adolescenti. Quel crinale fra male e bene e fra fascinazione e paura che garantiva i primi dettami morali alle coscienze appena nate, si è affinato negli ultimi anni sotto al lavorio dei canini del neo-romanticismo teen e sta dando origine a un fenomeno di rivisitazione "ormonale" delle fiabe più antiche. Uscito negli Stati Uniti praticamente in contemporanea con Cappuccetto Rosso Sangue, Beastly ha in comune con questo il morso di Twilight, ma se ne distacca per il fatto di non andare incontro alle tonalità dark e ai sentimenti a contrasto della sensibilità dei giovani emo. Come a voler ricordare che c'è stata una Bella molto tempo prima della saga di Stephenie Meyer, Beastly aggiorna "La bella e la bestia" all'era di Gossip Girl, puntando molto più sui valori etici originari della fiaba francese che su una deriva del fascino del male o del desiderio inaccessibile. La storia, tratta anche in questo caso da un romanzo di successo, si concentra attorno alla sua funzione pedagogica e pone enfasi sull'esibizione delle sue virtù morali, anziché sul ralenti emozionale dei palpiti dei suoi protagonisti. Ma per quanto sia apprezzabile il tentativo di non emulare l'epica delle fasi lunari della storia d'amore fra Edward e Bella e la sessualità livida e raggelata della loro intimità, Beastly sovraccarica e velocizza ogni momento attraverso un'estetica kitsch e un racconto sbrigativo, che sembra non veder l'ora di raggiungere il lieto fine. Anche i suoi protagonisti sono la diretta emanazione di quel candore modello Disney da cui proviene la Bella-Vanessa Hudgens di High School Musical: perfetti ed intentati come i valori che sono chiamati ad incarnare. La bella resta bella, povera e innamorata del vero amore; la bestia perde il pelo e anche il vizio. Se è vero che la bellezza giace negli occhi di chi guarda, non si capisce perché tanto sforzo per renderla così trasparente.

Che pasticcio, Bridget Jones! - Bridget Jones: The Edge of Reason (2004) Che pasticcio, Bridget Jones! (2004)
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Interpretata da Renèè Zellweger, appesantita ulteriormente rispetto alle ultime uscite, Bridget Jones, risulta poco credibile in ogni sequenza(salvo quella molto divertente quando si reca in farmacia con gli sci ai piedi alla ricerca di un test di gravidanza) e fa sorridere di rado, a denti stretti.. Non va sottovalutato che, il secondo libro, da cui è tratta la sceneggiatura, è molto meno scorrevole e piacevole del primo, e va a inficiare ulteriormente il risultato finale.
Che pasticcio, Bridget Jones!, in definitiva, è un sequel senza troppa personalità e brio, che si lascia ascoltare per la piacevole colonna sonora, e guardare per il fascino di Londra.
Un sola considerazione: l'uomo oggetto è tornato di moda. Non tralasciate questo particolare.

Una scatenata dozzina - Cheaper by the Dozen (2003) Una scatenata dozzina (2003)
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Un cast distribuito su due generazioni e mezzo si muove a velocità frenetica in uno scenario da safari familiare, dove valori vecchio stampo (andate e moltiplicatevi) vanno a cozzare contro le dinamiche della vita moderna. Le classiche contrapposizioni famiglia-carriera e provincia-metropoli, con tutto ciò che ne consegue, si impongono così come robusto tema principale, muovendo su rapporti lunghi lo sviluppo portante della trama, e sostenendo allo stesso tempo l'intrattenimento con discreti risultati su tutti i fronti. Remake puramente nominale di un classico televisivo anni'50 (Baker's Dozen), a sua volta tratto da un libro basato su una fantomatica storia vera, Una Scatena Dozzina è il prodotto standard di un'industria che ha fatto dell'intrattenimento per famiglie un business sicuro.

Mud (2013) Mud (2013)
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Al momento di realizzare questo film sia il regista e scrittore, sia il protagonista erano trasportati da un’alta marea che poi si è andata affievolendo con più o meno velocità: che fosse il periodo buono è testimoniato dalla riuscita del lavoro che dipinge di tinte noir Mark Twain aggiungendoci Lansdale (il fiume e la palude), King (i ragazzini in crescita) e magari anche Carver visto il modo di raccontare fatto di infinite sottrazioni. Ellis (Tye Sheridan) e Neck (Jacob Lofland) scoprono che sull’isola alla foce del Mississippi teatro delle loro scorrerie si è stabilito Mud (McConaughey) che è in attesa dell’amore della sua vita Juniper (Reese Witherspoon), ma che ha alle calcalgna polizia e cacciatori di taglie perché ha ammazzato uno, giù in Texas. Nessuno si dimostra davvero quello che dice di voler essere, incluso il misterioso vicino di casa (chiatta) Tom (Sam Shepard): una serie di maschere per mezzo delle quali avviene il processo di maturazione soprattutto di Ellis che già di suo deve affrontare l’incombente divorzio tra i genitori (Ray McKinnon e Sarah Paulson). La traccia narrativa esile consente di indagare nell’animo dei personaggi utilizzando dialoghi misuratissimi mentre l’occhio si può perdere allargandosi sul delta (la fotografia è di Adam Stone): benché accada poco, il film scorre senza zavorre e, anzi, quando gli eventi accelerano nel finale, si finisce per avvertire una certa insoddisfazione. La conclusione non all’altezza non inficia tutto ciò che l’ha preceduta attraverso la messa in scena di un’umanità dalle pochissime prospettive di un’esistenza migliore che si vorrebbero scorgere (ma non ci si riesce) almeno nell’ultimo sguardo di Ellis ormai trapiantato in ‘città’ (in realtà un paese piccolo e sonnacchioso, ma comunque assai deprimente per uno abituato a scorrazzare lungo il fiume come un novello Tom Sawyer).

Il piccolo principe - The Little Prince (2015) Il piccolo principe (2015)
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Mark Osborne (già regista di Kung Fu Panda) poteva essere la persona giusta per trasferire sul grande schermo il piccolo/grande libro di Antoine de Saint Exupéry e infatti lo è. In materia erano già stati fatti tentativi per tradurre le vicende del Piccolo Principe in immagini ma sempre con risultati non all'altezza. Perché il problema era rivolgersi a due target molto diversi, visto che l'autore dedicava la sua opera a un amico "quando era un bambino" (quindi a un adulto) e il testo è leggibile anche da bambini. Osborne e i suoi sceneggiatori Irena Brignull e Bob Persichetti hanno racchiuso le vicende del biondo principe e dell'aviatore all'interno di una storia che vede la piccola protagonista destinata ad un precoce adultismo. La bambina progressivamente si ribellerà a quello che sembra essere il suo percorso ormai segnato non in nome del "non crescere mai" alla maniera del Peter Pan di Barrie quanto piuttosto del conservare senza alcun timore il proprio bambino interiore.
Anche sul piano stilistico la partita è adeguatamente vinta perché mentre le vicende di bimba, madre e vicino di casa sono realizzate con un'animazione tridimensionale ormai canonica, l'incontro tra l'aviatore e il Piccolo Principe e tutto quanto si riferisce al libro di Saint Exupéry vengono affidati a una stop motion molto raffinata ed evocativa di un cinema d'altri tempi. Se l'"essenziale è invisibile agli occhi", all'organo della vista viene offerta quindi una doppia estetica della visione conservando intatta la poeticità e la profondità di sguardo dello scrittore e trasferendo progressivamente la dinamica aviatore/principe in quella bambina/aviatore. Peccato veniale (e quindi subito perdonabile) quello di non aver riproposto nel rapporto con la Volpe il parallelo che questa fa tra il colore del grano e quello dei capelli del Piccolo Principe. Chi conosce e ama il libro sa a cosa ci si riferisce.

La preda perfetta - A Walk Among the Tombstones - A Walk Among the Tombstones (2014) La preda perfetta - A Walk Among the Tombstones (2014)
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Nato dalla penna di Lawrence Block e protagonista di una serie di best seller, fra cui quello su cui è basato questo film (in italiano edito con il titolo Un'altra notte a Brooklyn), il detective Matt Scudder, interpretato al cinema da Jeff Bridges in 8 milioni di modi per morire, aspira ad essere un successore di Sam Spade e Philip Marlowe, e in parte ci riesce, almeno ne La preda perfetta, grazie alla fisicità dolente e alla recitazione introspettiva di Liam Neeson, perfetto nell'impersonare un uomo dal passato tormentato.
Molto efficaci anche alcuni personaggi di contorno, in particolare il portiere di casa di Matt (Eric Nelsen) e il guardiano del cimitero (Olafur Darri Olafsson), che certificano un certo coraggio narrativo da parte di Scott Frank, regista ma soprattutto sceneggiatore di La preda perfetta. La capacità di costruire una narrazione filmica è la marcia in più di Frank, di cui ha in passato dato prova nella stesura dei copioni di Get Shorty e Out of Sight, ma anche di Minority Report e Wolverine - L'immortale. Il suo tratto caratteristico è l'ironia con cui colora anche il più drammatico degli scenari.
E drammatico, anzi a tratti melodrammatico, La preda perfetta lo è senz'altro, spingendosi spesso anche troppo sopra le righe, e abbondando in dettagli raccapriccianti e profusioni ematiche. Per fortuna i delitti più efferati restano fuori inquadratura, e Scudder-Neeson mantiene salda la centralità della scena.
Nel complesso, La preda perfetta è un thriller che si lascia seguire ma che commette svariati passi falsi in termini di credibilità della storia e di coesione della tensione narrativa. Ciò nonostante Frank mostra una notevole cura dell'immagine (grazie anche alla fotografia nitida e crudele di Mihai Malaimare Jr) e un gusto per il contrappunto ironico anche musicale (vedi la scena della ragazzina che attraversa la strada) che fanno ben sperare per il suo futuro di regista.

La leggenda di Beowulf - Beowulf (2007) La leggenda di Beowulf (2007)
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Cosa poteva venire fuori dall'incontro di alcune tra le menti più brillanti di Hollywood (Zemeckis, Gaiman, Avary), alle prese con la trasposizione cinematografica di uno dei personaggi più famosi della storia della mitologia nordica? Di certo un film fuori dall'ordinario e La leggenda di Beowulf, almeno sotto il profilo dell'innovazione, lo è.
Si badi, non parliamo solo di innovazione tecnica, per quanto i risultati ottenuti siano strabilianti, ma anche di un nuovo modo di trattare il cinema di animazione, trasformando quest'ultimo in mezzo di intrattenimento per adulti, stavolta in termini assoluti e definitivi. Sangue, combattimenti cruenti, donne discinte, ammiccamenti sessuali, nudità: Walt Disney probabilmente si starà rivoltando nella tomba ma, a conti fatti, la scelta dei realizzatori e di Zemeckis, molto coraggioso, dobbiamo ammetterlo, alla fine paga.
L'epicità della storia ed il suo incedere lento ma solenne, è il giusto tributo alla saga originale: lo script, pur presentando personaggi sostanzialmente bidimensionali e non particolarmente carismatici, offre numerosi spunti di riflessione e sottotesti che toccano il tema della religione, della caducità della vita, il conflitto tra bene e male, le tentazioni cui chi detiene il potere deve combattere, la menzogna che viene preferita alla verità, per il bene comune. Una sfida difficile che più o meno tutti i componenti del cast "semivirtuale" e dello staff realizzativo (Alan Silvestri in testa, ottima la sua colonna sonora) hanno vinto.
Consiglio spassionato ai genitori di pargoli minorenni (almeno under 14): non portate i vostri figli al cinema, questo è sì un film di animazione, ma il concentrato di sesso e violenza presente potrebbe turbare gli animi meno avvezzi a questo tipo di sollecitazioni visive.

Racconti incantati - Bedtime Stories (2008) Racconti incantati (2008)
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Adam Sandler ha finalmente trovato una sceneggiatura che gli ha consentito di mettere a nudo la sua anima fanciullesca senza dover ricorrere alle mediazioni (spesso decisamente poco divertenti) di cui ha dovuto avvalersi finora. Chiunque sia stato genitore o comunque si sia dovuto occupare di bambini sa quanto la narrazione serale di fiabe o racconti costituisca un momento fondamentale per la crescita di un piccolo essere umano. Vengono messe in gioco dinamiche molto più complesse di quello che può apparire a uno sguardo superficiale.
La storia fantastica ci aveva già detto molto in proposito ma in questa occasione quello che possiamo tranquillamente definire il 'Disney touch' rende ancora più evidente la connessione tra sogni dei più piccoli e aspettative degli adulti che in quel magico momento finiscono con l'entrare in contatto. Ecco allora che principesse e cavalieri, antichi romani, cowboy ed eroi spaziali diventano 'veri' e riescono a riscaldare il cuore.
Ci si lamenta spesso che i film cosiddetti 'per famiglie' siano ormai prodotti quasi esclusivamente per la televisione e spesso abbiano dei soggetti stucchevoli e banali. Ecco una piacevole eccezione.

The Punisher (2004) The Punisher (2004)
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Il Punitore ed il cinema non vanno troppo d'accordo. La conferma di questa evidente scarsa affinità si palesa alla fine del nuovo episodio "ufficiale" ispirato alle avventure del più atipico degli eroi Marvel, dopo l'agghiacciante edizione anni 80 con Dolph Lundgren, vera offesa ai fan del fumetto (non c'era nemmeno la maglia con il teschio stilizzato... veramente iconoclasta!).
A fronte di una sequela ininterrotta di siparietti imbarazzanti e personaggi che scompaiono dalla storia senza un perché, il regista ha un unico guizzo creativo nella divertente scena che coinvolge il nostro eroe alle prese con un sicario superanabolizzato, ben interpretato dal mito del wrestling Kevin Nash, sulle note del "Rigoletto". Le citazioni dal fumetto e da altre pellicole si sprecano, rasentando in certi casi il plagio, ma quello che proprio manca a The Punisher è l'anima, il carisma, lo spessore: mai realmente teso e drammatico, sfodera troppo raramente l'arma dell'autoironia e ad essere puniti, per la seconda volta, sono proprio gli appassionati del fumetto

Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento - The Secret World of Arrietty (2010) Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento (2010)
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Il primo adattamento di "The Borrowers", romanzo dell'inglese Mary Norton (la stessa che nel 1973 ha ispirato la Disney per la creazione del capolavoro "Pomi d'ottone e manici di scopa"), risale a quarant'anni fa, ad opera di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, ma è rimasto in un cassetto e ha ceduto il passo, nel tempo, prima ad una serie tv e poi alla versione live action di Peter Hewitt con John Goodman. Ma fortuna ha voluto che, dopo il successo di Ponyo, lo Studio Ghibli riprendesse in mano quel progetto e ne traesse questo delizioso film d'animazione, sceneggiato dallo stesso Miyazaki con Keiko Niwa e affidato per la prima volta alla regia di Hiromasa Yonebayashi, principale animatore dei più noti lungometraggi del maestro.
Il rispetto dello stile dello Studio Ghibli è dunque assicurato, mentre è presto per poter riconoscere nel regista una personalità originale e autonoma, ma il film non manca davvero di nulla. La ricostruzione del piccolo mondo, in tutto simile al nostro, solo più umile, consapevole e fantasioso, per l'uso inventivo che fa degli oggetti degli uomini, è oggetto di meraviglia e di bellezza, mentre il sentimento nasce dalla creazione del rapporto tra Arrietty e Sho, che è assente nel romanzo e ricorda da vicino quello di Memole e Mariel, nell'anime tratto dal manga di Yasuhiro Nagura; l'umorismo, infine, nasce dal personaggio caricaturale della governante della casa, ossessionata dagli ometti quanto Gargamella dai puffi.
Al tema già sovente esplorato della comunicazione tra esseri diversi e del valore della fiducia reciproca, trattato con straordinaria delicatezza e dignità, si aggiunge in questo film quello sociale di una modalità di vivere che "prende a prestito" ciò di cui necessita, relegando nell'inutilità il denaro e sintonizzandosi sull'odierno tempo di crisi, economica e immobiliare.

Sette anni in Tibet - Seven Years in Tibet (1997) Sette anni in Tibet (1997)
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Fra il "dio incarnato" ed Heinrich si forma un'amicizia che diventa affetto. Nei sette anni passati nella città sacra accadranno fatti importanti, primo fra tutti l'invasione del Tibet da parte dei cinesi, che costringerà tutti a fuggire, Lama compreso. Tornato in patria Herrer riprenderà la sua attività, dopo aver recuperato l'affetto di un figlio (vero) che non aveva mai visto. L'uomo, autore del libro da cui è tratto il film, tuttora vivente, è ancora amico del Dalai Lama eternamente esule. Magnifica storia e magnifico tutto. Fortuna che di tanto in tanto si producono film come questo, che ci fanno star meglio.

Eagle Eye (2008) Eagle Eye (2008)
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Ricordate Speed, il primo film che ribaltò il concetto di velocità (fino ad allora simbolo di libertà e in quel caso condizione obbligatoria per non morire)? Se lo avete apprezzato dovreste vedere Eagle Eye. Con una doverosa premessa: per i primi cinquanta minuti non cercate di capire 'il perché' o il 'come'. Vi togliereste il piacere adrenalinico di accadimenti uno più improbabile dell'altro ma tutti altamente spettacolari. Ci penserà poi la sceneggiatura a fornire motivazioni (?) e contenuti sociopolitici alla vicenda. Ma questo è un elemento quasi secondario e, direi, abbastanza fastidioso.
Perché ogni tanto al cinema è bello potersi lasciare andare a non pensare alla consequenzialità e credibilità narrative e riconquistare il piacere infantile dell'azione iperbolica. D.J. Caruso, che con La Beouf aveva già lavorato in Disturbia, non si preoccupa troppo né della sua prestazione né di quella di Michelle Monaghan. Non debbono recitare, debbono correre contro il tempo.

I Robinson - Una famiglia spaziale - Meet the Robinsons (2007) I Robinson - Una famiglia spaziale (2007)
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Tratto dal libro per bambini "A Day with Wilbur Robinson" di William Joyce e diretto da Steve Anderson, I Robinson, il nuovo film d'animazione della Disney (questa volta priva dell'aiuto degli "incredibili" creativi della Pixar), recupera lo spirito pionieristico del fondatore e riflette sull'errore in cui incappa chi si guarda alle spalle pieno di nostalgia invece di dirigere il proprio sguardo all'avvenire, con speranza e curiosità. "Sempre avanti", pare dicesse zio Walt, e il suo motto finisce ora in bocca a Cornelius Robinson, capofamifiglia della casata più eccentrica e affettuosa in cui Lewis potesse imbattersi.
C'è Franny, la madre di Wilbur, che coordina un'orchestra di rane canterine, nonno Bud, che ama indossare i vestiti (o la testa?) alla rovescia, zio Art, che consegna pizze a domicilio in tutta la galassia, zio Fritz, che ha sposato la sua bisbetica marionetta Petunia, e poi ci sono Ottomano, la piovra maggiordomo, Carl, robot raffinato e rubacuori (di lavastoviglie e teiere) e Spike e Dimitri, gli zii che vivono nei grandi vasi di ceramica all'ingresso di casa e fungono da allarme. Tutti coloratissimi e chiassosi, sostenitori dell'importanza di festeggiare ogni fallimento (senza il quale il successo non arriverebbe mai), i Robinson adottano Lewis per un giorno e si alleano con lui per annientare il cattivo di turno, l'Uomo con la Bombetta.
Su questa fiaba tenera e intelligente, che contempla una strizzatina d'occhio al Ritorno al futuro di Zemeckis, s'innesta la sfida della computer grafica, alle prese con una specie su cui non aveva mai lavorato fino a ora in modo tanto mirato e massiccio: gli esseri umani.
Non ci si aspettino malizie cinefile o dialogiche: qui tutto è a portata di bambino e si ribadisce il concetto per cui bisogna saper aspettare e vivere appieno l'infanzia prima di trasferirsi nel pazzo (ma non sempre terribile) mondo degli adulti.
La vera sorpresa è il personaggio di Grufolo, a dir poco indimenticabile.

Nella tana dei lupi - Den of Thieves (2018) Nella tana dei lupi (2018)
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Con la potenza del fuoco tuttavia, l'opera prima di Christian Gudegast ha un altro asso nella manica. Senza essere rivoluzionario, beneficia di una sceneggiatura superiore alla media e di una messa in scena accurata, merce rara nel genere. Thriller urbano che assomiglia poi solo a se stesso, Nella tana dei lupi promette quello che mantiene: adrenalina e virilità impetuosa. Eruttante di un machismo di un'altra epoca, il film è attraversato dagli eccessi di personaggi borderline inebriati dalla propria amoralità, rappresentanti fieri di una mascolinità a mollo nel testosterone. Visibilmente cosciente delle sue influenze ma pure delle attese che solletica, Christian Gudegast spunta tutte le caselle che si era fissato e svolge il classico schema del poliziotto sull'orlo di una crisi di nervi impegnato nel gioco 'del gatto e il topo' con un bandito 'equipaggiato' e sempre un passo avanti.

La migliore offerta (2013) La migliore offerta (2013)
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Jacques de Vaucanson è il primo artista a cui viene riconosciuta la realizzazione di un automa meccanico perfettamente funzionante. È il riferimento alla sua creatività che costituisce lo scheletro di questo film di Giuseppe Tornatore che si presenta al contempo come fruibile da un vasto pubblico e come forse il più teorico tra tutti quelli girati dal regista. Innanzitutto fornisce la prova, semmai ce ne fosse stato bisogno, che Tornatore riesce a mostrare tutte le sue doti di sceneggiatore e di regista in misura tanto maggiore quanto più riesce ad uscire dalla gabbia (autoimposta) della sicilianità. Il rigore narrativo (forse perché liberato dai lacci dei rimandi alla Storia e alla cronaca) prende il sopravvento sul rischio, spesso in agguato nel suo cinema, dell'enfasi e della sovrabbondanza. Ne La migliore offerta (se si eccettua una parte finale che avrebbe guadagnato da un minor numero di 'spiegazioni' che lo spettatore avrebbe potuto elaborare in proprio) il meccanismo funziona. Il termine non viene usato a caso. Perché apparentemente Tornatore ci racconta una storia d'amore in cui il celarsi diviene stimolo segreto alla scoperta e nella quale, per gran parte del tempo, un uomo che ha fatto della vista e del tatto il fulcro del proprio esistere misantropico e (solo apparentemente) misogino si trova costretto a doversi affidare esclusivamente all'udito. Scoprirà in progress quanto il percorso sia faticoso e non privo di rischi così come l'individuare sotto uno strato di scorie accumulate nel corso del tempo un'opera inizialmente individuata come falsa.
È nel gioco tra la verità e la finzione tra ciò che appare (o non appare) e ciò che è che si struttura la vicenda ed è su questa base narrativa che Tornatore innesta un interessante intervento di teorizzazione. Così come, pezzo dopo pezzo, si giunge a ricostruire l'antico automa, così accade per il discorso filmico che il regista articola liberando dalla ruggine gli ingranaggi ormai sperimentati dai maestri del cinema ma sempre in grado di offrire esiti inattesi. L'essenziale, sembra volerci dire, è saperne valutare la giusta collocazione rinviandone, come fa Claire con il proprio aspetto, la rivelazione complessiva. In fondo fare cinema è simile al relazionarsi a una donna. Come afferma l'assistente di Virgil: "Vivere con una donna è come partecipare ad un'asta. Non sai mai se la tua è l'offerta migliore". Se non la migliore quella di Tornatore è senz'altro, in questo caso, un'offerta molto interessante.