Ogni tanto il cinema si assume il compito di ricordarci che ci sono genocidi per cui i "difensori della liberta e della democrazia" si indignano e dispiegano le loro forze ed altri in cui lasciano fare voltandosi dall'altra parte. Perche'? Ognuno puo' trovare da se' la risposta. Il fatto pero' resta. Incontrovertibile. In Ruanda,all'inizio degli anni '90, un milione di Tutsi e' stato letteralmente massacrato dai rivali Hutu senza che la comunita' internazionale facesse nulla, se non lasciare a poche forze dell'Onu il compito di un'interdizione di scarsa efficacia. Questa co-produzione anglo/italo/sudafricana (tra gli interpreti il nostro Citran, Nick Nolte e un non accreditato Jean Reno) ce lo ricorda con le forme proprie del cinema spettacolare. Non si fa polemica in "Hotel Rwanda" ma si parla alla coscienza degli spettatori grazie alle vicende di uno 'Schindler' africano. Paul Rusebagina, un africano direttore di un Hotel della catena Sabena, riusci' a salvare piu' di 1200 persone grazie al coraggio personale e a un altruismo che gli impediva di veder morire la gente senza far nulla. Il film non edulcora la situazione ne' fa del protagonista un santo. Ci racconta, molto semplicemente, una storia che la nostra coscienza e i nostri media hanno cancellato probabilmente perche' "non interessante". Gia' questo dovrebbe fornirci materia di riflessione sulla cosiddetta "informazione".
È così che Russel Crowe impegna la sua beautiful mind per trovare il modo di far evadere Lara dal carcere di massima sicurezza di Pittsburg. Sa che per farlo dovrà insozzarsi le mani, scendere nei bassifondi, usare la violenza. Alla fine, l'inquadratura lo coglierà allo specchio, col viso sporcato da tre macchie della superficie riflettente. Questo è Paul Haggis: poche parole, immagini esplicite. È la strada più difficile? Permetteteci il dubbio.
Remake del francese Pour Elle, The next three days ha offerto la possibilità allo sceneggiatore Haggis (Million dollar baby, Flags of our fathers) di continuare sulla strada di una regia intesa come organizzazione di sguardi. Questa volta persino con il sostegno di una giustificazione narrativa forte: cosa determinerà il successo o meno del piano folle (in senso donchisciottesco) del protagonista? La sua capacità di osservazione, è ovvio. Ma il passaggio da una scrittura di ferro - ambito in cui Haggis non difetta, anche se non è questo il caso da portare ad esempio, trattandosi di fatto di una riscrittura - ad una regia che non sia solo la sua messa in azione, per quanto virtuosistica e spettacolare, come quella che piace al nostro soggetto, non è un passaggio scontato. Necessita, appunto, di un di più che non è mai mancato a Eastwood (per usare un eufemismo) e manca da sempre a Haggis. Non bastano certo qualche citazione cinefila, dai Soliti Sospetti o da Match Point, o qualche tentativo di alleggerimento (i poliziotti che scherzano malamente sul loro ruolo al cinema) per dare un'anima al proprio lavoro. Non è cosa che si prende a prestito.
Film dalla tensione straordinaria, quasi schiacciante, si risolve nel chirurgico, logorante, semiperfetto scioglimento della stessa, senza che ci sia concesso aspirare a un lascito in più, a un dono imprevisto e gratuito. Haggis è un finto sentimentale: parla di grandi sentimenti ma ne controlla al millimetro la condivisione.
L'arte dell'inseguimento nel cinema è l'equivalente della fuga nella composizione della musica classica. Privilegio e specialità del cinema d'azione, dove a rivaleggiare sono soprattutto le macchine, superando il ruolo riservato ai corpi, l'inseguimento è un'attrazione spettacolare in grado di generare nel pubblico tensione e seduzione. Perché allora non applicare quel piacere percettivo a un genere estraneo allo spettacolo tecnologico e al richiamo catastrofico? Ci pensa la commedia sentimentale di Andy Tennant, facendo dell'arte della fuga in amore il suo oggetto di ripresa. Jennifer Aniston è un'eroina screwball coinvolta in un romance con un ex marito ed ex poliziotto, zelante cacciatore di taglie e di ex mogli. Ne consegue una fuga con relativo inseguimento che porta la convenzione romantica a confronto diretto con l'aperto e la velocità. A nutrire il conflitto dei "già consorti" è quello che accade intorno a loro, sono le facce dei ricattatori, di poliziotti corrotti, di amanti mai amati, di albergatori leziosi, o una scommessa alle corse, una partita ai dadi, una stanza forzatamente comune, o ancora le tracce di un confronto o la rivelazione di un concorso di colpa, pronti a sfumare in un sereno riavvicinamento.
Se il cacciatore di Gerard Butler si sente sfrontatamente autorizzato a offrire autentiche lezioni di vita alla sua ambiziosa compagna in fuga, dall'altra parte la "preda" di Jennifer Aniston, schivate le pallottole e sopravvissuta a un tentativo di omicidio, è rapida nel riaggiustarsi alla condizione di emergenza e a salvare il marito a colpi di arma da fuoco. È allora sul terreno dell'eccezionalità, dentro un ritmo vorticoso e attraverso un'audacia sessuale ricamata nel dialogo e nell'azione, che Nicole e Milo si riconosceranno (di nuovo) anime gemelle. (Co)stretta nel minimalismo déco di un tailleur indossato lungo tutto il film, la Aniston riconferma nel Cacciatore di ex un volto e un talento tagliato su misura per la commedia. L'inseguitore Butler, eroe romantico in panni ruvidi, si misura con la torrenziale vivacità della ricercata, perfettamente a suo agio nell'intreccio action quanto in quello romantico. L'originalità non è probabilmente nelle intenzioni o nelle forze di questa commedia, ma ugualmente il regista è abile nel realizzare un conflitto tra generi, mettendo in collisione e poi "al fresco" l'azione e il sentimento.
La trama di Beautiful Creatures è semplice, un usato sicuro che mette insieme magia, adolescenza, amore e scontri edipici. Ma nonostante la mancanza di originalità, funziona. Soprattutto perché, a dispetto del titolo non proprio felicissimo, è un polpettone sentimentale che, nel caso in cui amiate il romanticismo teen e le atmosfere ero-fantasy (ero sta per eroiche ed erotiche), non potete perdere. Il pacchetto "maga cerca mortale per maledizione centenaria da estinguere e amore impossibile da vivere", con annesse scene madri che farebbero piangere persino il più cinico dissacratore, è imperdibile per chi ha il cuore tenero. Anche perché, come qualità, ritmo e coinvolgimento emotivo dello spettatore siamo ai livelli del primo Twilight. Ed era forse inevitabile, visto che il buon Richard LaGravenese - ottimo l'esordio con Kiss, pessimo il prosieguo con P.S. I Love You e Freedom Writers (entrambi con Hillary Swank, che dopo Million dollar baby si è rivelata una Regina Mida al contrario nella scelta dei copioni)- è uno sceneggiatore accorato e strappalacrime. I Ponti di Madison County, per Eastwood, ancora fa piangere in molti e, a suo modo, pure La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam o l'esagerato L'uomo che sussurrava ai cavalli di Robert Redford.
Ha i suoi eccessi anche Beatiful Creatures, ma alla fine ti conquista. Per la scelta degli attori, da quel Jeremy Irons che se gli dai un film in costume non gigioneggia troppo - o, forse, semplicemente può farlo senza che dia fastidio - a un'Emma Thompson che nella parte di una cattiva con risvolti comici è deliziosa. E le mise di Emmy Rossum, giovane strega maliziosa e bellissima, inducono al peccato ben più di qualsiasi "reclamazione". Cos'è la reclamazione? Il centro di questo racconto tratto dalla saga di Kami Garcia e Margareth Stohl: a 16 anni ogni maga viene reclamata dalla sua vera natura, che sia luce o tenebre. La splendida Lena (Alice Englert) è decisa a sfuggire a quella che sembra un'oscura predestinazione, l'ingenuo e un po' goffo Ethan (Alden Ehrenreich, bel talento scoperto da Francis Ford Coppola per Segreti di famiglia che finora non ha dato quanto ci si aspettava: forse per quella risata insopportabile) è pronto a tutto per avere il suo cuore e portarla dal lato giusto della forza. Il resto sono effetti visivi semplici ma efficaci, un romanzo d'appendice ben condotto e un cast solido che non ti lascia annoiare nonostante i 135 minuti di durata. La fotografia è forse scontata ma efficace, i costumi sono belli e "divertenti" - e, quando serve, anche sexy -, la commistione in sceneggiatura tra umano e soprannaturale è ben calibrata, con il raffinato e irriverente riferimento a Nancy Reagan (e a un cult del genere) a far da ciliegina sulla torta insieme al pomeriggio al cinema della coppia maledetta a vedere, ovviamente, Final Destination 6. E persino quella Emma Thompson che nello scontro finale si fa femminista arrabbiata e dice che "l'amore è l'incantesimo che gli uomini usano con le donne per tenersi il potere" fa parte delle riflessioni non scontate disseminate nel film.
Beautiful Creatures il suo lo fa, porta a casa il risultato giocando anche abbastanza bene. L'unico difetto di questo filmetto solido e avvincente sta nel finale che lascia presagire uno o più sequel: l'impressione, infatti, è che questa storia avesse il respiro giusto per un'unica sortita al cinema.
La metropoli di notte come incubo, una prigione grande come una città senza via d'uscita se non l'arrivo del sole, dotata di suoi luoghi tipici e topici, caratterizzata da figure archetipe della persecuzione (i boss, i poliziotti corrotti, gli uomini rispettabili di giorno ma dalla doppia vita notturna...) è un classico del racconto americano. Ci è passato Scorsese, ci è passato Walter Hill e via via tutti coloro che volevano raccontare "l'altra New York". Si tratta di un processo normale, tutte le società in cui il tratto metropolitano è marcato tendono prima o poi a rappresentare il proprio nucleo pulsante attraverso una vita notturna speculare a quella di giorno, in cui le cose più normali diventano impossibili e in cui la vita non funziona come nel resto del tempo.
Così da una prenotazione rubata in un ristorante e dal conseguente scambio di persona che ne deriva Shawn Levy (che di avventure notturne in modi segreti, specie al Museo, se ne intende) costruisce una pellicola girata in modo da calzare i due protagonisti. Purtroppo l'umorismo di Tina Fey e Steve Carrel fatica molto nella traduzione e nell'adattamento italiano, tuttavia anche nella versione nostrana rimane un ritmo impressionante, sviluppato lungo tutta la commedia e aiutato da un digitale capace di arrivare in qualsiasi anfratto, che le consente di andare oltre le singole storture disegnando un'avventura vera e propria, in cui spiccano piccoli momenti di geniale ilarità.
In questo modo Notte folle a Manhattan diventa quasi una presa in giro degli altri incubi metropolitani newyorchesi, rivoltandone le figure tipiche e giocando con il suo umorismo su mode e modi di esporre di quei film. Alla fine però la parabola è sempre quella normalizzante all'americana, per la quale il viaggio, tutto interno a New York, è anche un percorso simbolico di un marito e una moglie che riscoprono le ragioni del loro affiatamento. In questo forse Notte folle a Manhattan ha il suo punto debole: nel non essere davvero "folle" (del resto il titolo originale è molto più semplicemente Date Night) come il suo umorismo potrebbe portarlo ad essere o come lo erano altri predecessori più drammatici. Al contrario è un percorso a grandi falcate verso la normalità che passa per il progressivo rifiuto di tutte le componenti "altre" della società che di volta in volta la coppia incarna o con cui entra in contatto.
Per chi ha amato un film altrettanto attento a ogni minimo segno portato sullo schermo sembrerà quasi contraddittorio parlare qui di manierismo. Invece di questo si tratta. Se "Ultimo tango" sembrava ormai alle spalle la sua ossessione ritorna. Con in più il raffinato ammiccamento cinefilo che fa sì che il terzetto che si forma trova il primo collante proprio nella passione per il cinema di qualità. Peccato però che lo sfondo di questo sottile gioco al massacro erotico sia il '68. Sul quale emerge una posizione che farebbe nascere sotto i polpastrelli la parola 'reazionaria' se i tempi non fossero cambiati. I gemelli di Bertolucci hanno bisogno di un sasso che spacca una finestra e di un giovane americano tanto 'puro' quanto pragmatico e utopista al contempo, per rendersi conto che 'fuori' sta capitando qualcosa di assolutamente nuovo che travalica la rappresentazione della realtà offerta dal cinema. Bertolucci torna a raccontare di un mondo medio borghese che ben conosce ma che non è rappresentativo del '68 e delle sue rivolte politiche e sessuali. C'erano anche loro, è vero, e probabilmente oggi stanno dall'altra parte ma il film non lo dice. Preferisce attardarsi sui giovani corpi nudi lasciando spazio a una frigida ricerca estetica. Per molti di quelli che non c'erano è una lettura consolatoria fatta da un Maestro che forse ha dimenticato i veri, per quanto confusi, sogni di quella generazione.
Percy Fawcett è stato di fatto un perfetto esemplare della società vittoriana ed edoardiana ma al contempo le si opponeva con il suo bisogno di scoperta e di avventura. Senza scomodare Conrad con il suo "Cuore di tenebra" e, cinematograficamente, Francis Ford Coppola a cui sembra alludere l'immagine che accompagna il titolo, in questo film veniamo condotti quasi per mano nella psiche di un uomo che non rinuncia ai valori della società del suo tempo ma non vuole comunque divenirne schiavo. La sua relazione con la moglie non è tale da spingerlo alla fuga dal tetto coniugale, anzi.
Non è un Mattia Pascal made in Britain che vuole far perdere le sue tracce nella foresta pluviale. Farà ritorno, e non una sola volta, ma farà anche valere quelle che ritiene siano le regole fissate per l'uomo nei confronti della donna ritenendo che i compiti affidati loro siano ben differenti.
Il sogno della scoperta di una città perduta è di quelli che potrebbero far pensare allo spettatore di trovarsi di fronte a non molto di più di una versione meno romanzata delle vicende di Indiana Jones e più seria di quelle di "Hooten & the Lady". Gray si muove su tutt'altro versante: si fa coinvolgere e coinvolge lo spettatore nella 'folle' ricerca di un uomo che riesce a convincere altri ad accompagnarlo trasformando anche una profonda ostilità che gli proviene dall'ambito familiare. Questo non significa per lui sottrarsi ai doveri imposti dalla Storia. Così la scena più significativa del film finisce con il divenire quella in cui lo si vede al comando di un plotone nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Dinanzi alla follia devastatrice del conflitto la sua ricerca si fa rileggere come la razionalità di chi vuole riportare alla luce ciò che un'antica civiltà ha voluto non distruggere ma costruire.
Tratto dal romanzo autobiografico di Anthony Swofford (Jake Gyllenhall nel film), Jarhead racconta la storia dell'addestramento e successiva discesa sul campo di battaglia di un gruppo di marines degli Stati Uniti, impegnati nella prima Guerra del Golfo, durante l'operazione Tempesta nel deserto.
Nonostante la presenza di elementi in potenza molto stimolanti (validi regista e cast, scenario di drammatica attualità, genere di appartenenza che ha dato tanto al cinema), all'atto pratico Jarhead non è un film riuscito granché bene. Pur presenti nel libro da cui è tratto, le citazioni metacinematografiche sono troppe e l'idea di privarle del loro alto valore politico/sociale e cinematografico, per riproporle in situazioni grottesche (come Il Cacciatore, che diventa il pretesto per mostrare un film porno ad una recluta o Apocalypse Now alla visione del quale si "scatenano" le truppe) diventa un boomerang per Mendes che onestamente sfigura nel confronto coi titani tirati in causa.
La rappresentazione dei soldati è eccessivamente manichea: l'esercito Usa pare composto esclusivamente da un branco di squilibrati isterici, ignoranti, cinici e sadici.
Lo script è debole: il dialogo principale del film, quello tra il soldato semplice e il colonnello, gronda banalità e luoghi comuni. A supplire alla mancanza di contenuti verbali interessanti interviene, troppo spesso, la colonna sonora, davvero molto bella, ma anche drammaticamente didascalica. Funzionale il cast a parte Foxx, francamente insopportabile.
Mendes ha delle buone idee a livello visivo (il cavallo inzuppato di petrolio che vaga, come i soldati americani, senza meta nel deserto) e tutto sommato riesce a mostrare il lato più paradossale e buzzattiano della vicenda (i marines, dopo un lungo e pesante addestramento, finiscono in Arabia prima e Kuwait poi a combattere da fanti una guerra che non li vedrà sparare nemmeno un colpo, se non in aria, alla fine del conflitto) ma, viste le premesse, forse era lecito aspettarsi qualcosa di più.
Non faremo torto a nessuno a balzare un attimo alla fine della corsa a perdifiato, al momento in cui il neoprotagonista Taylor Lautner, abbracciando la sua bella (o dovremmo usare la maiuscola?), se ne esce con una frase -troppo poco originale per suonare romantica- che sembra chiederle tra le righe: ti sei divertita? Mentre l'agnizione interna al film non trova reale svelamento, quella del film stesso, della sua natura girl-oriented, si fa invece a questo punto del tutto palese. Il protagonista appare programmato per intrattenere la fanciulla: con un giro "sull'autoscontro", una "passeggiata" lungo il fiume, una citazione cinematografica da brivido (il bacio nello scompartimento del treno alla Intrigo internazionale), la partecipazione ad un grande evento sportivo. Per far questo salta e picchia di qui e di là, speranzoso di guadagnarsi nel frattempo la candidatura a next action hero. Peccato, però, che la sua esecuzione sia totalmente priva di un'anima. Quando i genitori gli vengono uccisi sotto il naso, Nathan non spende una parola né un battito di ciglia: è già una sequenza o due avanti, come se girare un film fosse una corsa contro il tempo e tutto ciò che non è un'acrobazia fosse una perdita di tempo.
Se si è in grado di passare sopra l'ingenuità di molti dialoghi, spesso senza mezzi termini ridicoli, il film può anche rivelarsi un passabile intrattenimento e non c'è dubbio che l'accoppiata teen-movie / action-movie sia una strada sensata e di sicuro successo, basta solo non scomodare confronti ingannevoli. Chi ha cercato di vendere Lautner in Abduction come il nuovo Jason Bourne ha bleffato colpevolmente: nonostante il trauma biografico/identitario di partenza, non c'è traccia alcuna, qui, né della tristezza profonda del personaggio di Bourne né della felicità artistica dei suoi film.
Non è un paragone fondato sul merito, di nessun tipo, è piuttosto una constatazione: in fondo, l'operazione "Bridget Jones dodici anni" dopo non è dissimile, per la modalità in cui è stata portata a termine, dal recente ritorno di "Star Wars". In entrambi i casi, gli autori devono aver pensato o capito che una formula perfetta non si corregge: si replica. Il tempo trascorso da allora a oggi, nell'universo filmico così come in quello reale, extrafinzionale, non potrà che aggiungere un contributo positivo, fatto tanto di goliardica nostalgia quanto di sopraggiunta ironia.
Ecco allora tornare le goffaggini della protagonista, le faccette buffe, l'attitudine un po' masochista. Soprattutto, ecco tornare il triangolo: non solo Patrick Dempsey prende il posto che fu di Hugh Grant nel duello (la genesi dei personaggi di Helen Fielding attingeva, ricordiamolo, al capolavoro di Jane Austen) con Colin Firth, ma ne prende anche l'attitudine alla vanità e alla bugia detta al momento giusto, capace di ribaltare le sorti della competizione. Stavolta, però, la rivalità è ben mascherata, costretta addirittura a passare per collaborazione, e ne saltano fuori delle belle.
Tornano anche certi capi d'abbigliamento, per strappare il cuore a chi ha l'età anagrafica per ricordarsi la loro prima apparizione come se fosse ieri, e la sfumatura impegnata della causa su cui lavora l'avvocato Darcy, che ha a suo modo a che fare con la trama del film e non è mai puro pretesto. Anzi, una delle scene più belle di questo capitolo è probabilmente la corsa contromano di Bridget all'ospedale, mentre la marcia femminista va nella direzione opposta: stiamo pur sempre parlando di un'eroina d'altri tempi, che sogna il matrimonio in chiesa e un figlio a tutti i costi. È giusto ribadirlo, per poterla eventualmente amare "così com'è".
Il finale debole debole, gli eterni ritorni e qualche scivolone (letterale) fuori tempo massimo, difficilmente assicureranno a questo terzo film il posto nella memoria che ha raggiunto il primo, però anche questo capitolo ha i suoi personaggi memorabili (la ginecologa Emma Thompson, la nuova boss Kate O'Flynn, con i suoi giovani assistenti dalle "barbe ironiche") e una serie di situazioni di fronte alle quali è davvero impossibile mantenersi seri.
C'è il tocco di Martin Scorsese su Cose nostre - Malavita, film di cui è produttore esecutivo e che infatti non ha i soliti toni eccessivi di Luc Besson ma un'inedita (per il regista francese) vicinanza ai temi narrati. Il quadro della famiglia di Cose nostre è infatti un film di mafia post-Soprano, in cui i malavitosi sono persone insospettabilmente normali ma capaci di perpetrare azioni truci nella stessa maniera in cui si va al lavoro ogni giorno. Ma diversamente dal solito il ritratto è contaminato da un affetto, una nostalgia e al tempo stesso un autentico terrore del crimine italoamericano che paiono venire dall'immaginario scorsesiano.
Il calco ufficiale è il romanzo "Malavita" di Tonino Benacquista, quello non ufficiale sembra invece l'unione di In Bruges e Quei bravi ragazzi (che in un momento di metacinema sfiorato viene proiettato davanti al protagonista interpretato da Robert De Niro). È impossibile infatti non notare un certo piacere filmico nel manipolare la trama e i personaggi che compongono la famiglia del film in modo che oscillino in continuazione tra dramma e commedia, tra risata e tensione, facendosi forza di un'ambientazione inusuale (il paesino della Francia del nord) utilizzata con una chiave satirica che ricorda il film di McDonagh. Al tempo stesso è anche evidente come uno dei punti chiave della trama sia la discesa del boss, il suo essere ridotto al rango di persona normale, privato dei privilegi, del rispetto e della deferenza che sono dovuti ad un criminale del suo rango e costretto a subire i consueti soprusi di tutti i giorni invece che imporli agli altri, come accade all'Henry Hill di Ray Liotta.
Non c'è quindi molto di originale nel film di Besson, che da sempre è più un abile masticatore di cinema altrui che un creatore originale, tuttavia questa volta il miscuglio è più bilanciato e armonioso del solito. Superando la chimera dell'originalità a tutti i costi, Besson riesce a saltare dall'high school movie alle sparatorie in mezzo alle strade, dai dialoghi screwball dei due coniugi a quelli noir tra De Niro e Tommy Lee Jones, con un'agilità che non fa sentire nessuna fatica al pubblico, anzi esalta le qualità del film.
Non è certo una scoperta ma è bene ribadirlo: i generi fantascientifici o fantastorici rappresentano prima di tutto se stessi e il grado di tecnologia di cui si fanno portatori. Non c'è da scandalizzarsi. L'uso degli effetti speciali ha sempre avuto lo scopo di arricchire ed esasperare lo spazio, di originare e addirittura penetrare nuove dimensioni: il viaggio spazio-temporale attraverso porte interplanetarie (Stargate) o il contatto/scontro con creature aliene o con animali giganteschi come Godzilla.
Roland Emmerich, il regista che il giorno dell'Indipendenza ha polverizzato due monumenti sacri della storia americana (la Casa Bianca e l'Empire State Building), con 10.000 AC va molto indietro nel tempo, più indietro del Patriota e della Rivoluzione Americana, fino agli albori della civiltà. 10.000 AC non ha valore polemico o ideologico, non interpreta il passato remoto degli uomini né descrive la loro vita emotiva, piuttosto riproduce un mondo fantastico, che diventa un contenitore di situazioni e trame introdotte senza più timore di inverosimiglianza o umorismo involontario. Si fa in fretta a guadagnare l'adesione e l'identificazione del pubblico quando gli eroi devono vendicare la morte o il rapimento di un loro congiunto e gli antagonisti sono caratterizzati come arroganti, crudeli e indifferenti al dolore e alla sofferenza. Se si aggiunge poi che quello che capita al protagonista è qualcosa di umanamente comprensibile e condivisibile (il desiderio di ricongiungersi alla donna amata), il successo è servito.
Come il patriota combattente di Mel Gibson, D'Leh è un eroe suo malgrado e secondo una strategia vincente che attraversa la storia e i generi del cinema americano. Su di lui non ci si può sbagliare e non ci sono ragioni perché lo spettatore non si schieri col maldestro cacciatore di Steven Strait, che per caso abbatte un enorme mammuth e sempre per caso salva dall'annegamento una tigre bianca e gigantesca. Una ricostruzione, quella di Emmerich, che non possiede nulla di assoluto, che accumula gli effetti per provocare il ritmo, che evidenzia una povertà formale e visiva e che infine fa rimpiangere il cinema corporeo. Quello che puoi toccare e che tocca il cuore.
Scritto e prodotto (con K. Costner) da Lawrence Kasdan _ che dopo Turista per caso (1988) è in preoccupante involuzione _ è un film che sembra costruito apposta per far vendere dischi a W. Houston, ugola d'oro e promossa a pieni voti anche come attrice. La prima parte funziona, poi diventa un thriller artificioso di terz'ordine e annaspa in cerca di un impossibile finale. Moderata la prova di Costner, regia da spot pubblicitario.
La marcia dei pinguini prosegue la sua vivace avanzata lungo i sentieri gioiosi e struggenti del mondo del cinema. Dopo il documentario di Luc Jacquet, il cartoon musicale Happy Feet e gli intriganti pinguini di Madagascar, gli imperatori dell'Antartide scivolano con il loro carico di dedizione e di fedeltà assoluta verso il polo della commedia per famiglie. Ad accoglierli, le braccia larghe e lo spirito fanciullesco di Jim Carrey, che per la prima volta adatta un classico della letteratura per l'infanzia senza il trucco di Lemony Snicket o del Grinch e senza l'inganno del motion capture di A Christmas Carol. Carrey torna finalmente a mettere in gioco la faccia e i suoi zigomi elastici, pronto a competere con la naturale tenerezza dei pinguini e coi privilegi loro accordati dalla computer grafica. La sfida fra Popper e i suoi pinguini segna anche il confronto fra una comicità prettamente infantile, che punta più sulle espressioni fisiche e fisiologiche dei pennuti, e un umorismo più classico, venato di brillanti rimandi all'immaginario natalizio americano (soprattutto newyorkese). I due toni non vanno necessariamente in dissonanza ma riescono a integrarsi piacevolmente in qualche gag fantasiosa, ad esempio trasformando la spirale del Museo Guggenheim in un lungo scivolo d'acqua o il tetto dello Zoo di Central Park in una rampa di volo. Per sua parte, Jim Carrey lavora meno sulle smorfie e solletica un repertorio più classico, attraverso l'imitazione della voce di James Stewart e del celebre balletto coi pinguini di Dick Van Dyke in Mary Poppins.
Mark Waters (Mean Girls, Spiderwick) ha in sostanza la buona intuizione di inscrivere la sua parabola animalista sull'importanza della famiglia nucleare all'interno di un gioco di allitterazioni. Come il personaggio della segretaria Pippi, capace di articolare frasi solo con parole che iniziano per "p", Mister Popper elabora infatti un gioco linguistico di ripetizioni e di rimandi che massaggia dolcemente tanto le mascelle dei bambini con un suono cacofonico, quanto le labbra degli adulti con una retorica gradevole. Per pari, possiamo perciò piacevolmente promuovere Popper.
Sfidando ogni paradosso e ipocrisia, dalle crisi finanziarie Hollywood ha sempre tratto grandi guadagni. L'importante è situarsi sempre dalla parte dei disgraziati e fare dei ricchi e dei potenti i perfidi cattivi. La strategia è la stessa in Tower Heist, dove l'attuale crisi finanziaria converte il malessere sociale in puro intrattenimento. Per l'occasione, Stiller & Co. diventano una banda di soliti ignoti alla prese con un colpo mirabolante che non è solo una vendetta personale, ma l'attuazione di una riscossa sociale. La "banda del buco nel grattacielo" è presto fatta. Stiller mette da parte il repertorio di sfigato cronico o di utile idiota per ergersi a eroe positivo, sufficientemente cool e meschino per essere un perfetto leader della working class metropolitana. Eddie Murphy e tutti gli altri sono i vari satelliti che orbitano attorno al suo carisma un po' cialtrone: il simpatico ladruncolo di strada (Murphy), il giovane quasi-padre precario (Casey Affleck), l'ex dirigente bancario distrutto dal crack finanziario (Matthew Broderick) e i due immigrati in cerca di lavoro e di visto (Michael Peña e Gabourey Sidibe).
Al contrario dei vari Ocean's, dove sono i dettagli di elaborazione del piano e il training dei vari rapinatori (oltre ai sorprendenti rovesciamenti finali) a creare la suspense, in Tower Heist tutte le parti salienti di preparazioni vengono deliberatamente omesse e viene messa in atto una sfida continua alla sospensione dell'incredulità. A raccontarle, le azioni di questo gruppo di improbabili rapinatori suonano ridicole, ma l'intenzione di Brett Ratner è proprio quella di condurre un gioco spaccone e iperbolico, al fine di distrarre la folla dal senso di indignazione con una parata comica.
Come la trilogia di Rush Hour, anche Tower Heist è infatti prima una commedia che un film d'azione. Ma, come e più che in Rush Hour, Ratner si dimostra capace di fare di ogni situazione comica il pretesto per creare perfino più caos e dinamismo che in un normale film d'azione. Un piccolo taccheggio per provare le proprie attitudini al furto, le deviazioni del doppio-giochismo, il passaggio di un'auto d'epoca da un piano all'altro del grattacielo: tutto lavora in funzione di uno spettacolo popolare, che fa del sentimento di rivalsa dell'uomo comune l'essenza del divertimento. Nel far leva su questo populismo leggero e caotico, Ratner non è certo un Robin Hood in lotta contro i nuovi fautori della finanza allegra. Ma è pur sempre un ottimo affabulatore di strada. L'alternativa agli indignati di Occupy Wall Street gradita all'industria hollywoodiana.
Un film Lopez-centrico con ottime spalle (Cardi B, Keke Palmer, perfetta Lili Reinhart), una coprotagonista messa all'angolo dal fuoco amico della collega (Constance Wu), il tutto cucito addosso al corpo di Ramona e ai suoi volteggi da lap dancer, ai movimenti della nuca e dei capelli, ai sorrisi sghembi, alle gambe avvolte da stivali inindossabili dal resto del genere umano. Se in questo film c'è una lupa, quella è lei.
Il film che è stato forse il più atteso alla 69^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si rivela perfettamente in linea con l'autorialità di un regista che ha sempre cercato di scrutare il lato oscuro della psiche e dei comportamenti umani senza alcuna intenzione di scandalizzare ma con il desiderio di fare molto di più: cercare cioè di comprenderne le ragioni. Potremmo dire che queste si traducono nel suo cinema con un solo termine: solitudine. Soli, profondamente soli erano i protagonisti di Magnolia nel loro tentativo di sfuggire alle piaghe che spesso si erano inferti da soli. Solo era Il petroliere, bruciato dalle fiamme dei pozzi in cui scorre l'oro nero delle coscienze asservite al Dio Denaro. Soli sono Freddie e Lancaster. Il primo alla ricerca di donne di sabbia che plachino la sua sete sessuale ma anche inconsciamente desideroso di incanalare la propria violenza in forme socialmente accettabili. Il secondo, dotato di un potere di fascinazione su uomini e donne bisognosi di 'credere' a vite passate e pronti ad immergersi in dinamiche ipnotiche che li facciano sfuggire a un presente difficile da controllare. Il tutto, da una parte e dall'altra, in un dominio in cui la razionalità non possa infiltrarsi; pena il crollo del castello di illusioni.
L'ispirazione a Hubbard, il fondatore di Dianetics, è esplicita ed innegabile ma Paul Thomas Anderson è abilissimo, ancora una volta, nello spiazzare lo spettatore. Chi si aspettava un pamphlet cinematografico sulla capacità di irretire e depredare economicamente gli adepti alla setta, non lasciando loro quasi nessuno spiraglio di fuga, si trova di fronte a tutt'altro. Freddie e Lancaster sono due uomini (perfetta la scelta di Phoenix e Hoffman) che si confrontano mettendo in gioco tutti i loro comportamenti devianti. La differenza tra di loro sta nel modo in cui riescono a gestirli. Alla fine del film si ripensa allo spazio angusto in cui i due si erano incontrati la prima volta mettendolo a confronto con quello in cui finiscono con il ritrovarsi uniti e al contempo divisi più che mai e ci si accorge che in quelle due location si sintetizza il senso di un'opera che sa andare oltre la contingenza della setta miliardaria. L'ultima inquadratura poi riapre il film e chiude l'analisi di una psiche.
Dopo Minority Report e Paycheck, Next is what's next: il lavoro di Philip K.Dick continua ad alimentare la fornace del cinema contemporaneo con concept sempre fenomenali.
Fondamentalmente film d'azione, Next condivide numerose idee di fondo e situazioni concrete con il predecessore cinematografico Paycheck, anche se in un contesto diverso: la componente fantascientifica viene meno ma la prospettiva scientifica con cui si guarda all'ignoto rimane e, grazie a uno script ben assemblato, il concetto cardine della "visione del futuro" non appare come qualcosa di romanticamente sovrannaturale, quanto come fenomeno cognitivo inesplorato.
Nonostante le innumerevoli possibilità digressive, le caratterizzazioni sono efficacemente concise e lo sviluppo della trama è fluido e coerente con l'impostazione orientata all'intrattenimento puro, dove per intrattenimento puro si intende in questa circostanza un prodotto non per forza scevro da spunti riflessivi ma volto principalmente a impegnare la mente quasi esclusivamente durante la visione.
Un plauso per un ritrovato Lee Tamahori, che torna sulla retta via dopo due scempi consecutivi, quali 007 - La morte può attendere e XXX - The Next Level, dando vita, grazie anche a un cast di peso, a un titolo fruibile sotto molteplici aspetti.
Tirando le somme, Next è un tre stelle che sposa lo stile "usa, getta ma non dimentica" dei tempi andati: ultimamente si vedono pochi film da 90 minuti, e se ne sente la mancanza.
L'ombra di cinismo che attraversa il film, e che lo chiude come lo chiude, è in realtà la sua parte più illuminata, la migliore.
Attratta da una sceneggiatura impegnata in un tema di stringente attualità, la Foster regista individua in essa anche la possibilità di costruire un film quasi in tempo reale, che lanci un ponte tra due mondi, quello dei pochi che stanno dentro il piccolo schermo e dei tantissimi che gli stanno davanti e racconti la grande illusione che avvicina chi produce un racconto media(tizza)to e chi vive la quotidianità: un'illusione, spesso un trucco, del tutto simile a quello del capitale sempre più virtuale dei moderni transiti finanziari.
Il rapporto tra Lee Gates e la sua regista Patty Fenn s'ispira a quello tra Will McAvoy e la sua produttrice esecutiva MacKenzie McHale, dell'ultracitato The Newsroom sorkiano, mentre, a livello di immagine, la regista rispolvera qualcosa della sua esperienza d'interprete sul set di Spike Lee per Inside Man. E però non ci sono né Sorkin alla scrittura né Lee alla regia: il film arriva dopo le loro esplorazioni ed è un genere, questo, in cui l'arrivare tardi, anche di poco, non paga. Se si aggiunge che uno dei personaggi principali, ovvero quello di Kyle, anziché essere il più vero risulta il meno credibile, si può smettere di inseguire la perfezione e godere di un film d'intrattenimento che, malgrado qualche ingenuità, ha il merito di piazzare più di una buona battuta al punto giusto e il pregio di offrire un bel ruolo a Clooney. Sono proprio lui e la Roberts a fare il lavoro migliore: Clooney nel tratteggiare la parabola di un idiota che si scopre a fare la cosa giusta (parabola esagerata di per sé ma gestita con grande mestiere) e lei nel fargli da spalla.
Qui iniziano i problemi a cui ci hanno abituati tutti i film e i romanzi sulle macchine del tempo fin dall'epoca dell'ironico 'americano alla corte di re Artù' di Mark Twain? Sì e no. Perché qui il viaggio è in avanti ma di fatto all'indietro. Gli Stati Uniti sono infatti diventati un Paese (ma forse è meglio usare la 'p') popolato da utentici idioti incapaci di risolvere qualsivoglia problema. L'umorismo corrosivo di Mike Judge ha così modo di espandersi a tutti gli aspetti di una società ormai in inarrestabile declino (guardate come è descritto l'ospedale e poi pensate a Michael Moore).
Come ogni buon osservatore dei costumi dei propri contemporanei il regista cerca nel nostro presente i germi di un futuro secondo lui carico di negatività. Su tutto domina il problema dei rifiuti che non si riescono più a smaltire (sembra di sentire le cronache recenti dei TG nostrani). Ma se è vero che nel regno dei ciechi il monocolo è re per il nostro Joe c'è la possibilità di diventare leader...
La satira di Judge è molto 'made in Usa' ma può estendersi per molti aspetti all'intero pianeta e ai suoi usi e costumi sempre più 'bassi'. Godetevi ad esempio, nella fase iniziale, la rappresentazione all'acido muriatico del detto 'la madre dei cretini è sempre incinta'. Colpisce al centro con grande precisione.
Per il resto, anche se con qualche discontinuità, il film raggiunge l'obiettivo. Perché Judge è un ottimista. Nel senso però di una battuta del film No Man's Land. Alla domanda sulla differenza che intercorre tra un ottimista e un pessimista si risponde: "Il pessimista pensa che le cose non possano andare peggio di così. L'ottimista pensa di sì". È difficile essere più 'ottimisti' di Judge.
Nomadland è un film che cerca di raccontare, mentendo, la grande crisi che investì gli Usa e lasciò milioni di persone senza lavoro e soprattutto senza casa. Rendendoli nomadi.
Il film però non punta mai verso il grande colpevole, il mercato selvaggio e speculatore delle banche sugli immobili ma bensì punta il dito verso la povera gente rea di fuggire da amori, lutti, malattie, responsabilità.
Niente di più falso ovviamente.
Il film ha ben poco da mostrare nella sua vacuità, indugia nei falò notturni ma si percepisce chiaramente che il fantasma di Tom Joad è lontano così come quello di John Ford.
Filmaccio da evitare
Qualcosa di nuovo nella 1ª parte di questo colosso catastrofico, scritto da Michael Tolkin, Bruce Joel Rubin e John Wells, con effetti speciali a cura della Dreamworks, ma la regia di Leder, al suo 2° film, non è all'altezza. Riduce il caos sociale a un ingorgo di traffico stradale. Duvall e l'afroamericano Freeman come presidente degli USA tengono alta la bandiera.
Tra la guerra in medioriente con le sue brutalità, i costumi che hanno una eleganza da collezione Armani e una Nottingham proto-industriale contro cui si alza una sorta di movimento Occupy, l'intento di attualizzare il mito di Robin Hood è fin troppo palese, tanto da divorarsi il film. Dei protagonisti infatti finisce per importarci poco o nulla, quasi tutti giovani, belli e impeccabilmente vestiti, sono marionette in una storia dal canovaccio ben noto e che come tale è dato quasi per scontato.
Non c'è alcun tentativo di dare a Robin un reale sviluppo drammatico, quanto piuttosto di avvicinarlo a tratti a James Bond, così come Marian è ovviamente una donna moderna, d'azione, più perspicace di tutti gli altri personaggi e con i propri sotterfugi di rivolta all'opera. Will è invece una sorta di Tony Blair, un uomo che parla per il popolo ma è alla ricerca di compromessi per il proprio potere personale. Lo sceriffo di Nottingham è poi interpretato da Ben Mendelsohn, il quale sostanzialmente ripropone per l'ennesima volta in pochi anni il villain grigio vestito, carismatico e con inattesi scoppi d'ira, che già aveva interpretato in Rogue One: A Star Wars Story e in Ready Player One. C'è poi Jaime Foxx nelle vesti del moro il cui soprannome diventa Big John, ma l'introduzione di un personaggio nero che arriva dalle crociate era già del Robin Hood - Principe dei ladri del 1991 con Kevin Costner.
Lo ammetto: 140 di Q.I non sono sufficienti per capire e apprezzare questo film. D'altronde, quando un critico scrive "la volgarità glamour di Damien Chazelle [...]" qualche dubbio sul contenuto ti viene. Il dubbio cresce quando si passa dall'elefante che defeca in testa a un poveretto a una scena erotica di "pissing" fra un turbinio di ogni sorta di droga. Rimpiangiamo i tempi de "La grande abbuffata" quando dietro la macchina da presa c'era un signor Marco Ferreri e non c'erano solo due attori di richiamo; e c'era anche ben altro signiificato.
A più di vent’anni di distanza dall’uscita e dal diluvio di premi, ho incrociato infine quest’'ottima commedia romantica che deve parecchio (non me ne vogliano gli autori Tom Stoppard e Marc Norman) al Bardo – ‘Romeo e Giulietta’, che altro?.
Le statuette dell’Academy? Mah... Succede spesso con i film cosiddetti da Oscar: qui ci sono il ritmo, le risate, qualche lacrimuccia, la passione, le costrizioni sociali oltre ai costumi d’epoca e alla ricostruzione della Londra elisabettiana (per non parlare di un solidissimo gruppo di attori inclusa Judi Dench quasi irriconoscibile nei panni della regina), ed è innegabile che ci si diverta dall’inizio alla fine.
L’unico problema è che tutto resta un po’ in superficie e la leggerezza con cui la pellicola arriva è la stessa con cui tende a evaporare senza lasciare un’impronta decisa nella memoria.
Scritto da Marc Norman e riscritto da Tom Stoppard, ha avuto 3 Globi d'oro, 13 nomine ai premi Oscar, 7 statuette (film, sceneggiatura, G. Paltrow, J. Dench, scene, costumi, musica per commedia) e un successo internazionale di pubblico. Al di là del lusso spettacolare e della presa emotiva sullo spettatore, specialmente nella 2ª parte, 1) è un film di libera e sovrana invenzione; 2) è un film postmoderno, dove Shakespeare è raccontato come uno sceneggiatore del '900; 3) c'è una pittoresca descrizione del mondo del teatro elisabettiano con gli scambi tra realtà e finzione, i rapporti tra pubblico, teatro, impresari, drammaturghi, attori e Shakespeare raccontato come poeta borghese, commediografo, attore, impresario, regista; 4) è un "vivacissimo e gloriosamente inutile film" (F. La Polla) che corrisponde a un dramma elisabettiano rivolto ai nobili (gli spettatori colti) e al popolo, all'intelligenza dei primi e al cuore del secondo che vi trova intreccio, avventura, amore. Dame Judy Dench (1934) vinse l'Oscar come non protagonista con una presenza di 8 minuti.
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Nonostante siano evidenti i temi che da sempre dominano il suo cinema è una trama insolita, impegnativa e coraggiosissima quella che Hayao Miyazaki imbastisce nel suo decimo lungometraggio, un biopic sul grande progettista di aerei che diede vita ai rivoluzionari modelli Mitsubishi A6M Zero, tristemente noti per essere stati utilizzati dai kamikaze durante la seconda guerra mondiale. Un film il cui linguaggio e la cui grammatica audiovisiva ricordano più la messa in scena dal vivo che quella animata.
Le contraddizioni non sono certo una novità nel cinema del regista che ha superato il concetto di buono e cattivo, che ama i motori ma è un fervente ecologista e che adora gli aerei da guerra pur inneggiando alla pace, ma stavolta le affronta di petto. The Wind Rises mostra che le contraddizioni non sono barriere ed è possibile al tempo stesso amare e odiare. La sua forza è farlo senza usare le parole ma con la forma di uno straordinario cartone di due ore, un film-fiume che racconta attraverso un uomo l'epica di una nazione e del suo spirito, la sua dignità, la sua etica del lavoro, in un tour de force che segna il ritorno del maestro a una produzione per nulla pigra o ripiegata sui soliti topoi, lontana dai grandi capolavori del passato e audace.
C'è un'evidente identificazione tra il progettista di aerei e il disegnatore, il creatore di macchine e il creatore di sogni, un binomio che in Miyazaki, figlio di un ingegnere aereo, è particolarmente forte (spesso nei suoi cartoni vediamo meccanismi o veicoli volanti da lui inventati) e che trova momenti di rara bellezza nel sogno di Jiro e del conte Caproni (avendo le stesse aspirazioni i due si incontrano sempre nei medesimi sogni) ma forse anche dell'autore, di poter camminare liberamente sugli aerei mentre sono in volo. Jiro Horikoshi, è probabilmente il miglior personaggio maschile mai scritto dal regista, e non a caso appare come un alter ego di Miyazaki (a doppiarlo in originale è Hideaki Anno, l'autore di Neon Genesis Evangelion), amante del volo ma schifato dalla guerra, sostenitore del fatto che gli aerei non debbano avere mitragliatrici ma autore dei modelli poi affidati ai kamikaze, un uomo che sogna un bombardiere caricato con famiglie invece che armi.
Eppure è quando nella seconda parte The Wind Rises scivola dolcemente nel melò che il maestro dà il meglio, con una storia d'amore lieve e commovente come suo solito ma anche più matura che in passato (per la prima volta si vede un bacio francese e addirittura si suggerisce un atto sessuale). Quando la linea sentimentale accelera, tutto il film sembra volare ancora più in alto, specie nella maniera in cui la realtà è trasfigurata dalle visioni di Jiro, l'espediente con il quale Miyazaki sceglie di raccontare il processo creativo attraverso il sogno, il crescere di un'idea alimentata dalla passione, un misto di abnegazione e fantasia, intuizione e fatica.
Miyazaki torna a descrivere le emozioni più elevate, a raccontare lo splendore di essere vivi in questo pianeta, unito all'esigenza di continuare a vivere nonostante tutto (alla fine in un trionfo di linguaggio filmico non ci sarà nemmeno bisogno di dirlo basterà l'alzarsi del vento a scatenare l'emozione nel pubblico), utilizzando uno stile che rifiuta il tratto grosso e si ostina a dimostrare come si possano toccare le corde più profonde e stimolare gli stordimenti emotivi più vertiginosi attraverso lo stile più delicato e sottile possibile.
Libera interpretazione del romanzo-fenomeno di Umberto Eco, venduto in milioni di copie in tutto il mondo. Nel XIV secolo una coppia di francescani (Connery e Slater) risolve l'intricata matassa di una serie di misteriosi delitti avvenuti in una maestosa e solitaria abbazia. Il respiro filosofico e la miriade di citazioni che caratterizzavano il romanzo si smarriscono nella sua trasposizione cinematografica, che peraltro ne conserva l'atmosfera cupa e rarefatta. Film calligrafico e dalla splendida fotografia, eccellente nella caratterizzazione di personaggi e luoghi.
Per 40 milioni di dollari, ispirandosi a un romanzo di Frank Herbert, Lynch ha fatto un film fantastico d'autore, farraginoso, squilibrato, qua e là enigmatico nello sviluppo della vicenda, talvolta geniale. Pittoresca galleria di personaggi. Memorabili i vermoni di Carlo Rambaldi e la fotografia di Freddie Francis. Prodotto da Dino e Raffaella De Laurentiis, esiste anche in un'edizione TV di 190', montata a dispetto di Lynch che fece togliere la sua firma, sostituita da quella dell'ubiquo Allen Smithee. Stracciato da quasi tutti i critici anglofobi e da molti europei
Nessuna Verità è un film sulle diverse prospettive. Hoffman, Ferris e il giordano Hani sono su posizioni morali diverse; hanno preoccupazioni diverse -a Hani importa un controllo regionale sul suo feudo, a Hoffman preme un controllo globale-; corpi diversi: quello di Ferris è escoriato, arrabbiato (dopo il morso di un cane), trapassato dai frammenti di ossa di un amico che gli è esploso accanto, quello di Hoffman è appesantito, bolso, ripiegato su se stesso. I due protagonisti hanno soprattutto diversi sguardi: quello di Hoffman è uno sguardo dall'alto, mediato dalle telecamere, che si pretende onnisciente e obiettivo; quello di Ferris è uno sguardo dal di dentro, senza filtri se non quelli di un banale occhiale da sole, allo stesso livello del nemico o dell'alleato, non fa differenza. Su tutti campeggia quello di Ridley Scott, con una media di quattro o sei macchine da presa per set, riprese aeree e operatori appostati ovunque: un po' Hoffman e un po' Ferris, in fondo.
Dal romanzo del columnist del Washington Post David Ignatius, lo sceneggiatore William Monahan ha tratto una spy-story che rivede Leonardo Di Caprio, dopo The Departed, di nuovo nella parte di un personaggio che recita una parte e mette la sua vita come posta di gioco; al fianco, a margine o contro di lui ronza Russell Crowe, il camaleonte di Ridley Scott. Chiude il triangolo l'ottimo Mark Strong. Tre uomini con lo stesso obiettivo, un comune "body of lies", tre diverse visioni e nessuna verità.
Grazie al montaggio di Scalia, già autore di Black Hawk Down, il film si muove fra cento locations senza smarrirci e ci fa rimbalzare a buon ritmo nel dedalo di bugie, dove "i tuoi nemici si vestono come i tuoi amici e i tuoi amici come i tuoi nemici". Lo spettacolo è assicurato, rinnovato. Il film non dice, invece, quasi niente di nuovo sul fronte orientale, al punto che l'ambientazione passa in secondo piano, nonostante resti il motore delle ottusità sul campo di gioco. Certe ingenuità del personaggio di Di Caprio (mai dell'attore), certe insistenze sugli abiti ideologici di uno scontro prima di tutto d'interessi, certi passaggi narrativi quasi obbligati minano purtroppo il copione, come se di tutto l'esplosivo impiegato sul set qualche carica fosse rimasta in mano all'autore senza che se ne avvedesse, producendo qualche danno. Collaterale.