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Latest reviews:

Solo Dio perdona - Only God Forgives (2013) Solo Dio perdona (2013)
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È andato fino in Thailandia Nicolas Winding Refn per girare un film asiatico (lo si capisce dai titoil di testa in caratteri thai), un'opera che parte da una trama presa dal cinema di genere e, come i migliori film di serie B, asciuga la narrazione, eliminando ogni orpello e ogni ridondanza per lasciare che solo un gesto, un dettaglio o un movimento accennato raccontino svolte ed eventi. Tuttavia nell'aciugare la messa in scena il regista danese non segue quel percorso che conduce alla serie B come la conosciamo ma ne prende un altro. Il suo film di vendetta, privato di ogni speculazione tra personaggi e raccontato mostrando anche meno dell'essenziale, è una girandola di omicidi con l'ingombro di un legame logico tra di essi, in cui i numi più importanti in materia (il cinema asiatico e il western) sono richiamati dalla scelta dei rumori sia delle spade sguainate che degli spari di pistola, una serie di suoni che non appartengono alle library del cinema intellettuale ma più a quelle iperboliche dei generi.
Così Solo Dio perdona è l'odissea finale di un uomo che ha scelto la boxe tailandese come lavoro dopo un'infanzia non semplice e un omicidio sulle spalle, un figlio non adatto al business di famiglia che si trova dover arrivare ai confini del mondo violento in cui vive per provare, suo malgrado, fino a dove sia in grado di spingersi, trovando un'inaspettata chiusa.
Lampade rosse, loghi rossi, luci rosse dei quartieri malfamati, delle palestre e dei bordelli, sangue rosso e scritte rosse (a detta del regista è quello l'unico colore che il suo daltonismo gli consente di distinguere) inquadrano un film con pochissime parole, una trama ridotta all'osso e un montaggio essenziale improntato su lunghe scene. Il centro della messa in scena rimane allora la fotografia, il modo in cui Refn guarda e ammira terrorizzato questi bellissimi abissi di efferatezza.
È evidente che nell'atto di massacrare c'è qualcosa di attraente per il regista danese, nell'esercizio della forza di un uomo su di un altro risiede un mistero inconoscibile che lo spaventa e attira al tempo stesso. Sono gesti che sceglie di mostrare con particolare dovizia di cui coglie l'evidente bellezza (presente sia in Pusher 3 che nelle risse di Bronson o nei martìri di Valhalla Rising e nelle esplosioni di sangue di Drive) ma di cui teme le orrende conseguenze con evidente sgomento. In un mondo (quello del cinema di genere e dei vengeance movies) in cui il perdono non esiste o al massimo è riservato a Dio, come del resto ricordano anche molti titoli italiani anni '70, il suo protagonista non è un eroe ma un perdente su più fronti, fratello minore vessato da una madre padrona e incapace di perpetrare la propria vendetta come gli altri personaggi del film. Che ad interpretarlo sia Ryan Gosling, volto hollywoodiano e quindi eroico per definizione, è l'unico elemento realmente spiazzante ma in fondo in linea con le scelte anticommerciali e molto sofisticate del film.
Purtroppo non sempre la ricerca visiva è a livello delle legittime aspettative nè l'idea di riuscire a dipingere la purezza (nel bene e nel male) della violenza riesce a concretizzarsi davvero. Refn sa portare sullo schermo immagini di una perfezione formale e comunicativa impressionanti (il potere dell'ex poliziotto riassunto nei colleghi in uniforme che lo seguono costantemente come guardie del corpo ma muti e un'inaspettata riconciliazione materna attraverso l'immersione nella carne di uno sguarcio nello pancia) eppure questa volta l'impressione è che non sia sufficiente.

J. Edgar (2011) J. Edgar (2011)
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Il mondo è imperfetto e Clint Eastwood lo ribadisce ogni volta che può. Ad essere perfetto è il suo sguardo sul mondo, dove ancora una volta un criminale 'rapisce' un bambino e dove il bambino scomparso diventa l'immagine dell'innocenza di un Paese sulla soglia di una crisi. In J. Edgar, come in Changeling, a una mamma viene sottratto il figlio e la polizia è incapace di porvi rimedio. A indagare ci pensa lo zelante Edgar Hoover, ansioso di accreditare il valore dell'FBI e di raggiungere la notorietà, a cui ha sacrificato affetti e vita privata. Perché Edgar è un disadattato ossessionato dalla carriera e dalla conservazione del ruolo, che fa giustizia dei criminali e assicura alla giustizia il presunto colpevole del primo kidnapping della storia americana. Ma Edgar è pure la protervia del potere poliziesco e politico contro cui combatteva la madre ostinata di Angelina Jolie, è il distintivo che giustifica qualsiasi nefandezza, intercettazione, pestaggio, è l'uomo che spia, imbroglia e ricatta amici e avversari, è l'America paranoica che combatte i propri nemici diventando come loro e che disarma i 'radicali' impugnando le armi del terrore e condannandosi a morte. Edgar Hoover secondo Eastwood è ancora il più grande talento recitativo nazionale, il protagonista di un racconto che affonda le sue radici nei miti fondativi della cultura e dell'immaginario americano. È il doppio di James Cagney, interprete di un G-Man e di un cinema che celebra i metodi scientifici dell'FBI e l'abnegazione dei suoi agenti contro il nemico pubblico, incarnato dallo stesso attore e incarnazione di un individualismo gangsteristico senza futuro. Leonardo DiCaprio, già interprete per Scorsese di una megalomane icona del sogno americano (The Aviator), presta il volto e la 'maschera' a un uomo distaccato che concepisce ogni relazione come una partita a carte, abituato a soffocare ogni passione e attento a evitare di compromettersi con le donne e con la vita. Eastwood lo chiude in un limbo di sentimenti raggelati lungo il contraddittorio confine tra legalità e illegalità, lasciando che lo spettatore, nel modo del cecchino di Un mondo perfetto, 'spari' su quello che crede di aver visto negli andirivieni cronologici. Nel percorso di imbruttimento, invecchiamento e corruzione a cui il regista sottopone il protagonista, si inserisce con un bacio rubato e un ballo mancato un inedito sentimento di pietas che inverte la direzione del film. Se Changeling avviava una storia d'amore che si faceva politica nel suo svilupparsi, J. Edgar impone il dramma emozionale tra Hoover e Tolson sugli aspetti politici, assicurando al protagonista l'empatia del pubblico e insieme rimanendo fedele alla sua identità originaria. Con l'onestà estetica di chi non bara e non trucca perché sa che il trucco è già compreso nel mondo e nelle sue maschere, (s)mascherate da quelle senili di Leonardo DiCaprio, Armie Hammer e Naomi Watts, Clint Eastwood gira in costume una vicenda politica 'contemporanea'. Dentro una biografia emotivamente riservata e reticente, dietro una relazione a proprio agio negli interni, dove l'imbarazzo e la crescente attrazione divengono palpabili, dove un fazzoletto si fa vettore emotivo e fisico di una passione intercettabile, l'autore americano dimostra l'acume politico del suo cinema. Un cinema alla ricerca di un bagliore di innocenza nel cuore nero dell'America.

L'ultimo dei templari - Season of the Witch (2011) L'ultimo dei templari (2011)
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Come spesso accade il titolo italiano è fuorviante. I templari non sono uno bensì due (accanto a Nicolas Cage troviamo Ron Perlman che avevamo cominciato ad apprezzare nei panni, sempre medioevali, del Salvatore de Il nome della rosa) e nel loro essere attivi in coppia risiede parte dell'interesse del film unito all'ambiguo ruolo della giovane strega 'protagonista' del titolo originale. Perché il film di Dominic Sena gioca le proprie carte più che sul finale, effettistico ma abbastanza deja vu, proprio sul filo del rasoio di un anticlericalismo sempre in procinto di trasformarsi nel suo contrario. Se la parte iniziale (dopo un prologo che definisce il rapporto della società di allora con coloro che venivano definite streghe) sembra un riassunto di Le crociate di Ridley Scott con la conseguente messa in discussione del fanatismo religioso cristiano (ma con un occhio al presente e quindi facendo attenzione a non mostrare troppi arabi riconoscibili come tali) ciò che segue si muove sulle sabbie mobili della doppia morale. Da un lato, grazie al cameo di Christopher Lee nei panni dello sfigurato e morente cardinale D'Ambroise, la credenza nella stregoneria assume la valenza conclamata dalla Storia di una persecuzione contro la donna da parte di una società dominata dai maschi. Nello sviluppo del cupo on the road però il ruolo della giovane donna muta più volte fino a giungere a un finale che non sveleremo ma che non può restare privo di un giudizio da parte dello spettatore. Sena, che sembra combattuto tra il film storico e l'horror, nell'Anno Domini 2011, sembra ancora credere se non nelle streghe in qualcosa di a loro molto affine.

Mangia prega ama - Eat Pray Love (2010) Mangia prega ama (2010)
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Tratto dal bestseller di Elizabeth Gilbert e diretto dal regista di Nip/Tuck (ma non lo direste mai) Ryan Murphy, Mangia Prega Ama è un titolo sbrigativo, assertivo, a suo modo essenziale, esattamente come il film che introduce. Superata la sindrome Sex and the city per cui si vuol far credere che la crisi dei trent'anni possa stare nel corpo arcinoto di una star più matura, il film sfiora delle corde poco esplorate dalla commedia americana ma rientra in fretta nel giro armonico atteso.
Il capitolo italiano è inutile: un lunghissimo spot di vini, caffè e sottovesti, privo di qualsiasi ripercussione narrativa sul resto del film, in cui per giunta non c'è personaggio che, durante o dopo il pasto, non si pulisca i denti con la lingua (forse un trucco alla Stanislavskij per dare verità all'azione del "mangiare con piacere" sullo schermo?) Ma andiamo oltre. Nel secondo capitolo, quello indiano, solo parzialmente meno ornamentale del precedente, il personaggio di Richard Jenkins confessa alla protagonista le ragioni del suo essere nell'ashram di una guru (che però se ne sta più furbescamente a New York) e racconta perciò dell'ex moglie e del figlio. Il monologo è costruito in modo da lasciar intendere l'esistenza di una tragedia, che poi si rivela scampata. Ora, fare "una finta" su un argomento del genere, per far sobbalzare d'orrore lo spettatore che si stava effettivamente appisolando, è piuttosto scorretto, ma con questo passo falso il film, in realtà, rivela di sé più di quanto vorrebbe: in fondo, è tutta una finta, ci viene fatto credere a lungo che stiamo guardando un film "diverso" ma la verità (che traspare dalla locandina, obbligata alla sintesi estrema) è che si tratta dell'ennesima commedia sentimentale in cui Julia Roberts prima piange e poi ride e che l'unico incontro che conta è quello con l'uomo dei sogni (e, non c'è bisogno di dirlo, non è lo sciamano).
I temi del libro sono seri, complessi ed effettivamente attuali, ma il trattamento che il film riserva loro è sempre molto edulcorato, protetto da una ciambella di sorrisi e bambagia. La solitudine e l'emarginazione a cui la scelta di Liz la espone non dura mai più di un accenno, la sofferenza è annacquata nel gelato, la confusione stemperata nell'esotismo di una seduta di psicoterapia-lampo presso un simpatico vecchietto in mutandoni, che non può prendere l'aereo "perché non ha i denti" (nel suo nonsense, una delle battute migliori del film).

Le idi di marzo - The Ides of March (2011) Le idi di marzo (2011)
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Viviamo davvero in tempi poco raccomandabili se anche George Clooney, progressista doc, lancia l'allarme nei confronti dei meccanismi di una democrazia che procedono grazie all'olio della corruzione e del ricatto. È un romanzo di formazione quello che ci viene proposto sotto le spoglie del thriller politico (dei cui sviluppi è bene sapere il meno possibile prima della visione) e quella formazione coincide con il degrado. Il fatto che Clooney, ispirandosi a un testo teatrale di Beau Willimon, si muova all'interno del campo democratico mostra come sia animato dal desiderio della messa in guardia. Non è una novità per il cinema americano scoperchiare le malefatte del potere, ovunque esso eserciti il suo perverso fascino. Che però questo avvenga in piena era Obama deve preoccuparci ancor più direttamente. Clooney non è diventato un qualunquista di basso livello pronto ad affermare "i politici sono tutti uguali". Si muove su un piano più elevato e perciò molto più significativo. Attraverso il mutamento (anche di espressioni) dell'efficace Ryan Gosling sembra volerci ricordare come la democrazia stia sempre più trasformandosi in una parola che si è svuotata del significato originario per includere invece opportunismi e compromessi da cui nessuno è esente. I rapporti tra esseri umani finiscono con il dissolversi facendo sì che le parole stesse perdano totalmente il loro valore.
Clooney non risparmia neanche il mondo dei media, grazie al personaggio affidato a una Marisa Tomei in grado di mostrare come il ruolo della giornalista che si occupa di politica sia al contempo quello di cacciatore e preda. I pugnali delle Idi di marzo possono anche uccidere ma, soprattutto, sono in grado di infliggere ferite che sembrano apparentemente rimarginarsi mentre in realtà danno inizio a un processo di putrefazione delle coscienze che rischia di coinvolgerci tutti.

Il ladro di orchidee - Adaptation. (2002) Il ladro di orchidee (2002)
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Temi importanti e non facili, per quest' opera di Jonze in concorso al Festival Internazionale di Berlino: il doppio, la creatività come stimolo per un arricchimento della realtà o come distruzione di un' identità, lo smarrimento per la ricerca di una personalità nell'altro da sé. Tutto questo raccontato con uno stile che cambia durante la narrazione: dalla commedia, i toni diventano quasi grotteschi per finire nel dramma. È pericoloso adattare e adattarsi, si rischia di perdere e di perdersi.

Il ladro di orchidee - Adaptation. (2002) Il ladro di orchidee (2002)
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Charlie Kaufman, sceneggiatore del film, avrebbe dovuto scrivere il copione per un film basato su “The Orchid Thief”, o “Il ladro di orchidee”, saggio dell’autrice Susan Orlean. Ritrovandosi più volte in crisi, un po’ per la mancanza di ispirazione, un po’ per la brevità del racconto della Orlean, Kaufman decise di trasformare la sceneggiatura in un film biografico, in cui ritrae se stesso intento a scrivere la sceneggiatura del medesimo film di cui è protagonista.
La tecnica utilizzata è un particolarissimo mise en abyme, che ha inizio sul set di “Essere John Malkovich”, precedente film sceneggiato da Kaufman e anch’esso diretto da Spike Jonze; prosegue con la decisione di Kaufman di far diventare se stesso protagonista della sceneggiatura; culmina con risvolti inaspettati ed irreali, quali l’esistenza di un suo fratello gemello, Donald, che non ha problemi invece nello stendere delle sceneggiature, e nell’amaro risvolto di una Susan Orlean tossicodipendente che si spinge ad uccidere Donald quando i gemelli scoprono la verità sul suo conto.
Il risultato finale è quindi un metaracconto sul processo di adattamento cinematografico, come ricorda il titolo originale del film, “Adaptation”, visto attraverso due sceneggiatori gemelli, uno recluso ed in profonda crisi, l’altro emergente e socievole, con un risultato completamente diverso da quello che doveva essere all'inizio del progetto. C’è inoltre un richiamo tra il titolo originale ed il processo di adattamento naturale delle orchidee, simbolo indiscusso del film e rappresentato da John Laroche, protagonista del saggio della Orlean, che realmente le va a cercare in mezzo alle paludi, dove esse crescono.

Un amore all'improvviso - The Time Traveler's Wife (2009) Un amore all'improvviso (2009)
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Metafora valida del rapporto di coppia, rispetto alle cui difficoltà siamo tutti avvertiti ma mai veramente preparati, Un amore all'improvviso, nel suo inspiegabile titolo italiano, sposta repentinamente l'attenzione non solo dalla protagonista ("The time traveller's wife", dal romanzo omonimo di Audrey Niffenegger) ma anche dall'eccezionalità dell'oggetto, cercando di riportarlo nell'alveo della commedia sentimentale (ops, amore, ho scordato i vestiti) quando di drammone si tratta ed è nel non lasciar spazio al divertimento che sta la sua cifra, piaccia o meno ("sei entrato nella testa di una bambina di sei anni", detto da Clare, è più lo sfogo di una condannata che il sospiro di una predestinata).
Lo sceneggiatore di Ghost Bruce Joel Rubin rigioca, questa volta per Robert Schwentke, la carta del romanticismo tinto di soprannaturale, ma pare dimenticare che, al cinema, solo un'immersione profonda nel reale può indurci a credere a ciò che lo supera e non è parlando e trattando esclusivamente di sentimenti che questi si suscitano e si liberano. I momenti migliori del film, non a caso, raccontano la vita di Henry - costretto a vestirsi da donna perché quelli sono i primi abiti che trova; sedotto da una donna che non sa chi sia ma che è certa che si sposeranno e sarà lui a dirglielo, sbucando da un cespuglio fra qualche anno, quando lei non sarà ancora abbastanza grande per ritrarsi; impegnato a consolare la propria compagna che ha appena litigato con un altro lui stesso - e sono i momenti più interessanti perché reggono fuor di metafora, facendo appello alla fantasia e dunque alla peculiarità per parlare della realtà comunemente esperita.
I fuochi d'artificio, i tuoni, il ballo, le creazioni artistiche di lei (che citano fastidiosamente quelle di Demi Moore) non sono decorazioni, per quanto superflue, ma stonature belle e buone, che tolgono vita al personaggio già delicato di Henry e ne fanno davvero, nell'economia del film, una presenza intermittente, che ogni tanto dissolve nelle trasparenze dell'incredibile.

Wild (2014) Wild (2014)
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Tratto dal libro scritto dalla stessa protagonista "Wild - Una storia selvaggia di avventura e rinascita" e adattato da Nick Hornby per il grande schermo, il nuovo film di Jean-Marc Vallée non si distanzia molto dal precedente, Dallas Buyers Club, fondato com'è su un percorso di rinascita (che lì coincideva con uno di avvicinamento alla morte qui con uno di sopravvivenza naturale), sulla demolizione fisica e morale della protagonista e sulla sua ricostruzione a colpi di musica e paesaggi.
Jean-Marc Vallée si conferma cineasta di sistema, di conservazione e perpetuazione delle più consolidate sicurezze di Hollywood nel manipolare attenzione e commozione dello spettatore. Abile reinventore di meccanismi eterni che maschera dietro una patina di linguaggio moderno espedienti in voga da sempre. Era decisamente più solido e complesso da questo punto di vista Into the wild nel trarre da una vera storia d'esplorazione un modo differente di guardare l'America dei grandi spazi e di capire qualcosa di complesso su chi la abita o li attraversa. Questa è la prima cosa che manca a Wild: una maniera personale di affrontare l'immersione nella natura, perchè Vallée immerge la propria protagonista più nelle stagioni che nei luoghi, sorvola le particolarità degli ambienti per guardare sempre da vicino il personaggio così che gli unici paesaggi visibili sono ripresi nelle maniere più convenzionali. Più che un film di grandi scenari Wild è un film di vedute, uno in cui la pioggia suggerisce scene tristi, la neve momenti teneri e la violenza del caldo attimi pericolosi.
Si fa fatica anche a rintracciare la penna felice e dinamica di Hornby in una sceneggiatura che in maniera sistematica alterna pericoli ed occasioni, incontri salvifici e altri minacciosi con un'artificiosità da burattinaio, specie considerato il tasso già alto di empatia che la vera storia porta con sè: Cheryl Strayed, che visse da white trash, perse l'unica figura di riferimento e a soli 24 anni sembrava già alla fine della propria corsa, distrutta da sesso occasionale ed eroina, fu anche la persona che riprese tutto per i capelli penetrando 3 stati del suo paese, dimenticando tutto e reimparando ogni cosa in mezzo ai boschi. È allora solo uno specchietto per le allodole la decostruzione narrativa attraverso la quale questa trama ci viene narrata, scomposta in molti flashback che dosano il dramma per tutto il film invece che concentrarlo nell'introduzione ma sostanzialmente naive e semplicistica come se fosse stata raccontata linearmente.
Si perde così anche quella che doveva essere l'impresa di Reese Witherspoon, impalpabile e mai concreta (eccezion fatta per un momento nella prima scena in cui sembra davvero che il suo corpo inizi a stringere un rapporto con l'ambiente che attraversa) elemento stonato e mai in armonia con le location.

Upside Down (2012) Upside Down (2012)
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Come si può rilevare dalla sinossi della parte iniziale in Upside Down gli elementi della fiaba si mescolano all'archetipo narrativo di Romeo e Giulietta in un contesto di science fiction. Apparentemente ci troviamo quindi di fronte a una rivisitazione di luoghi della narrazione già ampiamente esplorati. Fortunatamente non è così. Perché la forza del film di Diego Solanas non sta nella storia (che ha comunque degli sprazzi di originalità anche se strettamente legati ai ruoli studiati da Propp in "Morfologia della fiaba") ma nell'ambientazione che, oltre che visivamente suggestiva, acquisisce una forte dimensione simbolica. I due mondi (ognuno dei quali risulta rovesciato per l'altro) hanno strutture urbanistiche agli antipodi.
Per quanto il pianeta di sotto si presenta come un paesaggio devastato in cui si ergono edifici fatiscenti, il pianeta di sopra è invece moderno e razionale pur conservando anche interni che ricordano un passato raffinato. È in questi spazi che si muovono i protagonisti ed è in essi che si articola una riflessione che in passato avrebbe fatto la gioia di Marx ed Engels e oggi sembra ispirata da Naomi Klein e dai suoi saggi sulla globalizzazione. Perchè nel pianeta di sotto si estraggono le materie prime necessarie per produrre l'energia che viene poi rivenduta a caro prezzo a coloro che sono stati sfruttati. Sarà il maschio Adam a trovare il suo/la sua Eden infrangendo le regole ed entrando nel mondo proibito del benessere in cui un'eventuale infrazione compiuta nel passato deve essere rimossa per potersi conformisticamente adattare a un modus vivendi collettivo.
Non ci sono né frati né nutrici, né Tebaldo né Mercuzio a contrastare i due giovani amanti ma una concezione della società tutta strutturata sul profitto e in cui una miracolosa crema ringiovanente (realizzata grazie ad api rosa) funge da cavallo di Troia per una rivoluzione possibile.

Mike & Dave: Un matrimonio da sballo - Mike and Dave Need Wedding Dates (2016) Mike & Dave: Un matrimonio da sballo (2016)
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Vedendo un film come quello diretto (?) da Jake Szymanski che è al suo primo (e si spera ultimo) lungometraggio viene da chiedersi perché ci siano attori che disperdono le loro doti su storie come queste. Qui, in particolare, si pensa a Zac Efron (che su questa china si era già presentato) e ad Anna Kendrick che si trovano a dover servire una sceneggiatura che spreca un'occasione che la realtà aveva messo a disposizione. Perché la vicenda è in parte realmente accaduta a due fratelli che hanno pubblicato il 13 febbraio 2013 un annuncio su "Craiglist" per trovare due accompagnatrici a un matrimonio e hanno ricevuto migliaia di risposte.
Il problema è che qui ci si limita ad utilizzare lo spunto per inanellare situazioni in cui sia uomini che donne risultano grotteschi senza però che ci sia una vera scelta stilistica in materia e in cui si propone una relazione tra i sessi che viene raccontata come nei peggiori film per adolescenti che vorrebbero dimenticare i brufoli e che amano storie in cui i personaggi stanno costantemente sopra le righe.
L'unica nota positiva è costituita dal fatto che le due attrici (Kendrick e Plaza) si conoscono bene essendo amiche e avendo già lavorato insieme e quindi riescono a spalleggiarsi con efficacia. Non altrettanto si può dire dei due maschi, in particolare per quanto riguarda Adam Devine.

S.W.A.T. - Squadra speciale anticrimine - S.W.A.T. (2003) S.W.A.T. - Squadra speciale anticrimine (2003)
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Liberamente ispirato alla serie televisiva degli anni 70, S.W.A.T. dimostra inequivocabilmente che gli sceneggiatori hollywoodiani non riescono da qualche anno a produrre altro che film d'azione fatti con lo stampino, indistingubili tra loro, fatta eccezione per la coppia di protagonisti scelti.
La prima ora del film è epifanica e paradossale: S.W.A.T. è il primo film d'azione senza azione. Troppo lunga la fase di introduzione ai personaggi, inutilmente ridondante il minutaggio speso per l'addestramento, poco incisiva l'azione iniziale della squadra speciale anticrimine.
Il film prende fortunatamente quota nella seconda parte, grazie ad una semplice ma efficace trovata degli sceneggiatori che permette di ribaltare le parti in campo e che affida ai protagonisti il ruolo di difensori piuttosto che attaccanti. Il lato migliore di S.W.A.T. si apprezza nella lettura parallela, nell'analisi di dettagli e microeventi che dimostrano lo stato attuale di certe situazioni negli Stati Uniti, in prima analisi la sicurezza e l'immigrazione clandestina. Non a caso, e qui va apprezzata la scelta del regista, un semi-esordiente, di mettere (apparentemente?) alla berlina gli scarsi controlli che vengono effettuati in quello che dovrebbe essere il paese più attento del mondo a questi particolari, una delle scene migliori e più divertenti è girata all'arrivo di Martinez nell'aeroporto di Los Angeles.
Il cast è chiaramente multirazziale, multietnico e piattamente poco sorprendente. Farrel è la dimostrazione vivente che oggi in America, basta dimostrare un minimo di talento (ma proprio un minimo) per essere ingaggiati a ripetizione per qualsiasi tipo di pellicola. Senza temere il rischio da sovraesposizione. Samuel L. Jackson resta sempre una presenza autoritaria ma l'impressione che si ha è che le telecamere abbiano più interesse ad inquadrare le numerose paia di occhiali da sole utilizzati dagli attori che i loro volti, peraltro scarsamente espressivi persino nei momenti più concitati. La presenza femminile è garantita dalla solita Rodriguez che, guarda caso, impersona la madre affettuosa ma letale nei combattimenti corpo a corpo.
La bidimensionalità impera. Più bizzarra del solito la scelta del cattivo di turno, ruolo questa volta affidato ad uno stralunato Olivier Martinez (ahi...come sono lontani i tempi de L'ussaro sul tetto) che oltre a non essere minimamente credibile nella parte, sembra più che altro l'icona / vittima designata del risentimento statunitense nei confronti del popolo francese. Indubbiamente S.W.A.T. dimostra, a livello tecnico, una certa cura nei dettagli, risultando meno fracassone e "sborone" (e, di conseguenza, meno ridanciano e divertente) di altri film dello stesso genere, Bad Boys o Fast and Furious, per esempio. Il cinema è una forma d'arte o uno straordinario mezzo di evasione? Se fate parte della prima categoria, state alla larga, se siete più accondiscendenti, potreste anche spendere 120 minuti della vostra esistenza per dare attenzione a S.W.A.T.. Ah... se esistesse ancora il cinema di genere...

Dinosauri - Dinosaur (2000) Dinosauri (2000)
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Ci risiamo. Gli animali preistorici tornano ad invadere gli schermi di tutto il mondo. Da quando mago Steven (Spielberg) li ha tolti dal limbo degli effetti speciali risibili sono risorti a nuova vita. Peccato però che la suddetta non coincida con sviluppi di creatività narrativa altrettanto consistenti di quelli impiegati sul piano tecnologico. Se infatti si fondono con grande abilità paesaggi 'reali' (Florida, Venezuela, Hawaii) con dinosauri e triceratopi più veri del vero manca invece, quasi totalmente, quello scatto che faccia del 'film di Natale Disney' l'evento che in più occasioni è stato. La storia è già vista nel senso pieno del termine. L'accoglienza del nascituro Aladar da parte dei lemuri che cos'è se non Tarzan rivisitato? Ma soprattutto, per chi ha buona memoria, la struttura di base della sceneggiatura è una copiatura con varianti di Alla ricerca della valle incantata. In quel film di Don Bluth il tenero Piedino (erbivoro anche lui) conduceva un gruppo variamente assortito alla ricerca del luogo in cui poter riprendere a vivere. Idem come sopra. Solo che qui non si tratta di disegni ma di personaggi tridimensionali. Manca però tutta una serie di riferimenti 'sentimentali' che costituiscono da sempre parte integrante del narrare disneyano. Ci sono poi, per sovrammercato, diverse scene che possono davvero spaventare un bambino piccolo. E sono presenti sin dall'inizio. Mancano poi, com'era ormai tradizione a casa Disney, le canzoni che fungevano da alleggerimento delle tensioni. Insomma un film quasi 'adulto' che agli adulti ha però poco da dire e che ai più piccoli può non fare bene. Perché è vero che zio Walt ha fatto paura a generazioni intere con streghe come quella di Biancaneve (altro che Blair Witch!) Ma erano paure in qualche modo 'attese'. Qui, quando in una situazione idilliaca di gioco (a pochissimi minuti dall'inizio) dalla foresta sbuca urlante il T-Rex, la situazione è decisamente diversa. E poco piacevole.

Il settimo figlio - Seventh Son (2014) Il settimo figlio (2014)
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È ancora una serie di libri di successo a fornire l'ispirazione per un film hollywoodiano ad alto budget con speranze di sequel. Si tratta di "The spook's apprentice" di Joseph Delaney, pesantemente rielaborato nella sceneggiatura per lo schermo ideata da Matt Greenberg e scritta da Charles Leavitt con Steve Knight.
La formazione del giovane apprendista alle arti magiche e guerriere della stirpe di cacciatori di streghe è poco formativa e molto oppositiva. Invece che ricalcare la struttura da Harry Potter (nel libro Tom ha 12 anni e alla fine dell'avventura riprende il suo apprendistato) viene scelto il modello di "Romeo e Giulietta", ovvero avere due fazioni in lotta i cui ultimi rappresentanti vogliono mettere da parte le proprie differenze in nome dell'amore, con somma ira dei mentori. Sergey Bodrov, già regista di Mongol, ha però una mano molto pesante e una fantasia molto più piegata sull'azione che sul sentimento, esegue il compito ma sembra non avere il minimo interesse nei momenti che potrebbero rendere sensata la sceneggiatura affidatagli.
Al film piace il personaggio di John Gregory, il vecchio stregone indurito dalla vita, ineffabile, infallibile, ubriacone e di poche parole (ma grande amicizia) mentre la sceneggiatura vorrebbe farne una figura a suo modo tragica. Alla stessa maniera, mentre al film piace molto portare il protagonista in avventure nelle quali la sua vita sia a rischio a causa di un addestramento incompleto (come Luke Skywalker), la sceneggiatura preferirebbe soffermarsi sulle motivazioni che i due amanti hanno per tradire le rispettive famiglie e come si pongano nei loro confronti le persone più vicine. Il risultato è che ovviamente nessuno dei due partiti è accontentato.
Ci sono molti spunti lasciati per strada (le madri dei due amanti sono personaggi molto più complessi di quel che non sembri inizialmente ma lo possiamo solo intuire) e il buono di avere una grande serie di libri dietro di sè, ovvero poter far intuire un mondo più grande di un film solo che possa mettere l'acquolina in bocca e ampli la portata della storia, è totalmente perduto. Il settimo figlio insegue più il cinema di serie B, cioè vorrebbe essere più un film di rapido consumo, asciutto e senza fronzoli (con tutta la nobiltà che queste caratteristiche si portano appresso) che un'opera desiderosa di meritare dei sequel accreditata dai volti più importanti di Hollywood (addirittura un premio Oscar).
Sarebbe allora bastato almeno che Il settimo figlio assolvesse con proprietà di linguaggio al suo compito più immediato, regalare un po' d'azione, o che avesse saputo calcare l'ottimo lavoro in materia fatto da Il trono di spade (da cui mutua anche Kit Harington), ma Bodrov fin da Mongol insegue un cinema che aspira ad avvincere senza riuscire mai a tramutare il suo sguardo particolare in sete di visione nello spettatore.

Lo chiamavano Jeeg Robot (2016) Lo chiamavano Jeeg Robot (2016)
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Come molti esordi, non solo sul grande schermo, il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti – quarantenne romano con un passato d’interprete in prodotti televisivi – saccheggia a piene mani l’immaginario infantile e adolescenziale del regista, ma la rielaborazione degli spunti che ne derivano è tutto meno che banale tanto da sfociare in un curioso film d’azione che mischia Gomorra e Gotham City mantenendosi in brillante equilibrio anche là dove parrebbe impossibile. Enzo è un delinquente di mezza tacca con una predilezione per il porno: un bagno radioattivo lo dota di superpoteri, ma non lo smuove da una certa misantropia. La scossa arriva dal doversi in qualche modo occupare della bambina non cresciuta Alessia che ha la fissa dei cartoni animati giapponesi e dal contrasto con la banda dello Zingaro che vuole prendere il controllo di Tor Bella Monaca sfidando i rischi di uno scontro con le propaggini della camorra. Eroe quantomai riluttante, Enzo accetta di porsi al centro della scena solo in un finale che lascia un po’ di amaro in bocca apparendo in parte un corpo estraneo in un lavoro che trova altrove i suoi momenti migliori: assai più efficace risulta l’osservazione ravvicinata dei personaggi e del vuoto pneumatico delle loro esistenze in quella sorta di non luogo che è l’anonima periferia romana, dove per sognare non resta altro che un luna-park male in arnese (un tocco di Fellini non stona mai). Peraltro ciò non significa che ci sia un desiderio di fotografare l’esistente, vista l’accentuata caratterizzazione di situazioni e figure in una vicenda percorsa da una violenza morbosamente endemica che si esplicita all’improvviso in scoppi dagli inequivocabili tratti tarantiniani: la sceneggiatura di Nicola Guaglianone procede con bella scioltezza, perdendosi solo quando si deve allontanare da tale tracciato, vedi la conclusione or ora citata, mentre sui dialoghi si poteva fare di meglio. Simili caratteristiche chiariscono che non si tratta di un’avventura di supereroi all’amatriciana, come potrebbero far pensare molte presentazioni, ed è preferibile non portarci i bambini: le scene esplicite non mancano e il (quasi) puro intrattenimento che deriva dalle due ore scarse di visione è comunque riservato a un pubblico adulto. Benché coinvolto, è difficile che lo spettatore riesca a evitare il gioco a rimpiattino con le citazioni, non tanto quelle riferite agli eroi con vari gradi di mascheramento facenti capo a Marvel e dintorni (non pare però un caso che le più evidenti siano per i tormentati alla stregua di Batman e Mad Max), ma grazie a un sistema di riferimenti che strilla ‘anni Ottanta’ a pieni polmoni. Dal decennio che ha visto crescere il regista ecco allora i richiami alla serie di cui al titolo e consimili mischiati a una volgarità da televisione che si incarna soprattutto nello Zingaro, con la sua comparsata a ‘Buona domenica’ e le sue reinterpretazioni ad alto contenuto trash di vecchie hit di pessimo gusto (avevo rimosso Un’Emozione Da Poco e adesso chi se la scorda?). Nei suoi panni, Luca Marinelli dà vita con bravura a un perfido che riecheggia il Joker e funziona proprio andando sopra le righe: l’antitesi, perfino caratteriale, di un protagonista introverso e vagamente stordito del quale Santamaria sa rendere con efficacia gli impacci nel suo nuovo ruolo, oltre che nella vita e nel rapporto con l’immatura Alessia ben interpretata dall’esordiente Ilenia Pastorelli - una che, tanto per chiudere il cerchio, viene dal Grande Fratello. I tre attori hanno vinto un David che pare davvero meritato, sebbene il romanesco biascicato faccia a volte perdere alcune battute, e lo stesso vale per Mainetti, che ha inoltre composto la colonna sonora originale, perché firma un’opera che viaggia fuori dai consueti schemi del cinema nazionale, puntando alle viscere invece che al cervello e riuscendo a vincere la scommessa là dove altri - seppur plurideorati – sono stati più o meno gloriosamente sconfitti.

Ritratto della giovane in fiamme - Portrait of a Lady on Fire (2019) Ritratto della giovane in fiamme (2019)
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Un capolavoro difficile da descrivere, perché ti trascina dentro sé con emozioni mai viste.
"Ritratto di una giovane in fiamme" è la storia di un grande amore proibito, destinato a finire ancor prima di essere cominciato, ma non per questo vissuto con poca forza ed intensità.
Le due attrici sono fenomenali, i loro giochi di sguardi dicono molto di più di quanto facciano alcuni dialoghi, dentro il film c'è tutto, anche se la fotografia è asciutta ed essenziale... finisci per piangere (in particolare nell'ultima scena) perché la regia ha una forza incredibile e una coerenza che poche volte si vede nei film di oggi.
Forse è il miglior film europeo fra quelli che ho visto quest'anno, insieme a Les Miserables (entrambi francesi).

Come l'acqua per gli elefanti - Water for Elephants (2011) Come l'acqua per gli elefanti (2011)
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Dentro un cerchio di segatura e sotto il tendone montato dagli operai 'affamati' dell'America 'depressa' si svolge il melodramma circense di Francis Lawrence, ispirato dalle pagine di Sara Gruen ("Acqua per gli elefanti") e idealmente prossimo al Trapezio e al ménage à trois di Carol Reed. Accantonati re biblici e leggende, il regista americano rispolvera leoni, elefanti e bionde acrobate, sceneggiando il Circus di Britney Spears, diretta tre anni prima nell'omonima clip musicale. Come l'acqua per gli elefanti abita lo spazio sacro e bohémien del circo, che rimane tuttavia sullo sfondo, e rivela nella rivalità erotica (per Marlene) dei protagonisti/antagonisti il motore della storia. Le convenzioni dei film 'sul circo', inquadrature degli spettatori, sfilate dei saltimbanchi, esibizioni degli artisti, ingresso di animali esotici, incanto di ballerine in piume e paillettes, imbonitori in giacca da domatore e cilindro, fanno un passo indietro e lasciano che a emergere sia piuttosto la fisicità dei personaggi e la loro aggressività primordiale, prima latente e dietro le quinte e poi esplicita nel cerchio dove il mélo si risolve. Le intermittenze del cuore comandano allora gli eventi senza riuscire a conciliarsi col più grande spettacolo del mondo, materia prima che non ha perso fertilità e che qui si segnala come una bella occasione sprecata. Robert Pattinson è il vertice gentile del triangolo, orfano che evoca nelle origini polacche l'emarginazione dell'emigrante e il desiderio di riscatto, Christoph Waltz è il colorato avversario, impresario con frusta e pungolo che ostenta protervia e sottovaluta il bravo ragazzo umile, Reese Witherspoon è il simbolo femminile eroticamente appetibile ma bisognosa di protezione, che cavalca elefanti e destino sotto un burlesco (e posticcio) parruccone biondo platino. La loro corrispondenza, contestualizzata problematicamente nella crisi del '29, condurrà alla collisione e a tante (troppe) variabili che si accaniranno per impedire il raggiungimento della destinazione. È un senile e nostalgico Jacob Jankowski, fuggito da un ricovero in una notte di pioggia, a raccontarsi allo spettatore dentro un lungo flashback, che 'affonda' nella polvere e trova un limite nelle interpretazioni maschili: melodrammaticamente frenato Pattinson, melodrammaticamente sfrenato (e virtuosistico) Waltz.
Mal amministrati e troppo impegnati a 'rimuovere' dall'immaginario collettivo il vampiro adolescente e il colonnello nazista, i due attori esagerano o trattengono gli estremismi emotivi dei loro personaggi, 'scoprendo il fianco' alla modesta performance della Witherspoon. La tensione melodrammatica e la cultura circense americana, che negli anni della recessione 'sfilava' lungo le rotaie, restano pertanto un miraggio poetico. Nella vita, come nella finzione, certi treni è forse meglio perderli.

Alla ricerca della valle incantata - The Land Before Time (1988) Alla ricerca della valle incantata (1988)
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Gradevole lungometraggio di cartoni animati, presentato da Spielberg e Lucas, accurato e con un blando messaggio di speranza.

The French Dispatch (2021) The French Dispatch (2021)
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Un esercizio di stile mirabile quanto estenuante. Bellissimo da vedere quanto danzante su un vuoto (come da nome dell'inventato paesino) che rischia la stucchevolezza in un eccesso di maniera.
A me la maniera del buon Wes piace assai, ma, dopo i primi due incantevoli episodi, si disunisce facendosi il verso.
P.S.1: Chissà che ne pensano i francesi
P.S.2: ma Chalamet è proprio un balzello obbligatorio?

Immortals (2011) Immortals (2011)
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Dell'ispirazione epica, dei personaggi realmente raccontati nei miti greci e della titanomachia, da cui Immortals prende le mosse, è inutile parlare per fare improbabili confronti, a Tarsem Singh non interessa certo l'aderenza al mito. Tutto è piegato alle esigenze di un racconto che rende moderno l'intreccio e americani (nei gesti, nelle movenze, nelle parole, nelle azioni, nelle decisioni e nella morale) i personaggi che portano nomi classici. Ma la contraddizione di Immortals è proprio di rifiutare il mito a livello di racconto e cercare l'epica nella forma.
Il punto di forza del film infatti sta da un'altra parte, in quell'idea (promossa da 300 e qui replicata fedelmente) che una dimensione realmente epica debba essere visivamente straniante e, nello specifico, pittoricamente alterata in postproduzione. Il risultato è stupefacente e capace di andare anche oltre il modello originale (300, non i miti greci) per inventiva, gusto grafico e audacia. In questo senso funziona moltissimo un 3D ben calibrato e aiutato da riprese e angolature che esaltano la prospettiva.
Ma se il film tratto dalla graphic novel di Frank Miller aveva un contenuto che procedeva di pari passo alla propria forma, se cioè sapeva ritrarre un mondo dai valori altamente fuori dal tempo (e per questo altamente epici) con un'estetica di egual arroganza, questo Immortals somiglia di più a uno Scontro tra titani (sia l'originale che il remake).
Stesso vale per gli attori, invece che essere irriconoscibili, per mimesi e aderenza al contesto, sono fin troppo evidenti i volti di Mickey Rourke, Freida Pinto ed Henry Cavill, maschere moderne addobbate con abiti e con un trucco che suonano sempre irrimediabilmente fasulli.
Alla fine per Immortals va davvero rispolverata l'abusata metafora che accosta i film ben realizzati ma poveri di contenuti a spot pubblicitari, perchè stavolta il volto degli attori è utilizzato per essere notato e riconosciuto invece che per mescolarsi al resto degli elementi.

Legion (2010) Legion (2010)
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Simpatico l'uso di una vecchietta, di un bizzarro gelataio e di un angelico bambino in modo più o meno anticonvenzionale. Interessante l'aria desolata e disillusa, da vecchio noir on the border, della location decisiva per le sorti dell'umanità. Azzeccato anche il tono apocalittico e misterioso del primo terzo di film, più cupo che magniloquente, come invece accaduto in altri esempi del filone. Poi cominciano le concessioni a un confronto "filosofico-religioso" piuttosto "facile", un bignamino di dottrina ritenuto forse necessario per gli spettatori che non si accontentano dell'implicito. In questa fase centrale, il film perde la sua presa sulla storia che racconta e si sfilaccia in psicologismi di maniera. La parte finale ritrova una certa vivacità, ma è condizionata dall'uso di un'iconografia fin troppo classica nella rappresentazione degli angeli in lotta e da una totale resa alle regole del melodramma. Tra botte da orbi e spari all'impazzata si perde un po' il senso dello scontro etico, ma probabilmente non era quest'ultimo lo scopo del film.
Qualche dialogo è efficace: quando uno sconcertato Bob dice a Michael di non credere in Dio, Michael, di rimando, gli risponde che è normale, neanche Dio crede più in lui. E questo è quanto: Dio non crede più nell'umanità e, dopo il diluvio, ora usa modi più spicci e violenti, da film horror appunto: gli umani posseduti dagli angeli distruttori sono come zombie e assediano il solitario locale nel deserto. Michael è armatissimo e agisce come un Rambo ultraterreno (la cosa è sottolineata ironicamente): combatte per gli uomini disobbedendo a Dio perché non ha perso fiducia in loro. Beato lui.
La nascita di un figlio come (ri)nascita della speranza per l'umanità richiama La settima profezia, che, pur senza brillare, costituiva un approccio un po' più problematico all'Apocalisse. Dennis Quaid dà sofferto spessore al ritratto di un fallito che cerca un riscatto alla propria rassegnazione. Alla tv del suo locale danno La vita è meravigliosa: altri angeli, altri film.

Un disastro di ragazza - Trainwreck (2015) Un disastro di ragazza (2015)
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La romantic comedy rivisitata con una buona dose di ironia (ma anche di attenta osservazione sulla realtà) sta alla base del cinema di Judd Apatow che questa volta ha trovato un'anima gemella. Si tratta della famosa stand up comedian Amy Schumer che non solo ha scritto la sceneggiatura del film ma ne è anche l'assoluta mattatrice. Non è un caso che la protagonista abbia il suo stesso nome visto che Schumer dichiara che il 70% delle vicende del personaggio attingono alla sua vita reale.
Qual è il frutto di questo connubio? Ancora una volta siamo di fronte a un film dall'inizio travolgente che dimostra come Apatow non tema le inevitabili pause di comicità successive, sicuro com'è della tenuta complessiva della storia. Deve però tenere conto della consistente presenza della sceneggiatrice/attrice cercando di evitare danni collaterali. In definitiva ci riesce grazie a uno script che tiene Amy al centro e non ci risparmia nulla degli stereotipi dei film d'amore made in Usa ma conserva due assi nella manica. Da un lato, pur muovendosi in un contesto sociale più elevato rispetto alla media dei suoi altri film, Apatow fa ritorno alla realtà grazie al rapporto tra Amy, la sorella e (soprattutto) il padre collocato in una casa di riposo. È nella relazione tra una figlia che ne ha seguito gli insegnamenti ma non è decisamente a proprio agio nell'universo che si è costruita che si trovano gli accenti di una situazione in cui ci si può riconoscere come spettatori.
L'altra divertentissima idea è quella di avere due star di due discipline diverse disposte ad ironizzare su stesse. La scena in cui John Cena litiga al cinema e quelle in cui si è testimoni dell'avarizia del miliardario LeBron James valgono da sole il prezzo del biglietto.

40 carati - Man on a Ledge (2012) 40 carati (2012)
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Asger Leth compie il passaggio dal documentario al thriller riuscendo a muoversi con scioltezza attraverso i canoni del genere con l'aggiunta di numerose difficoltà logistiche. Perché questo film è in buona parte girato realmente ai piani alti di un hotel grazie ad accorgimenti tecnici che garantissero al contempo sicurezza e spettacolo. Ancora una volta il titolo italiano tradisce l'originale. È facile comprendere che nella nostra lingua la dizione "uomo sul cornicione" non fosse particolarmente allettante ma in realtà è in questa collocazione spaziale che si concentra tutta la dinamica del film. Un essere umano che minaccia di gettarsi nel vuoto catalizza un'infinità di domande sui motivi del gesto e divide immediatamente, nelle situazioni reali, gli astanti in due settori (anche se non espliciti). C'è chi spera che ci ripensi e chi invece attende il lancio. È quanto accade anche nel film che non si limita a costruire la giusta tensione ma amplia lo sguardo a come si 'costruisce la notizia' grazie al sulfureo ruolo della reporter affidato a Kyra Sedgwick.
L'ormai abusata figura del poliziotto innocente incastrato in un gioco più grande di lui viene qui rivitalizzata grazie a una progressiva messa a fuoco di un puzzle che potrà essere meglio apprezzato da chi non avrà visto il trailer che rivela troppo. La sceneggiatura è scritta in modo tale da sembrare pensata da un maestro nel gioco degli scacchi. Ogni mossa e contromossa ha una sua motivazione che lo spettatore è invitato a individuare al fine di cercare di prevedere cosa accadrà in seguito. Il confronto a due (Nick/Lydia) si arricchisce in progress di figure che non sono mai di contorno ma hanno tutte un ruolo preciso nella struttura. Tra tutti risaltano il più giovane e il più vecchio. Da un lato Jamie Bell (che dai tempi di Billy Elliot è cresciuto non solo fisicamente affinando ulteriormente le proprie doti) offre al ruolo del fratello di Nick una molteplicità di caratteristiche. Dall'altro troviamo un sempre più grande Ed Harris che si diverte nel tratteggiare con perfidia il ruolo del rapace magnate David Englander.

Spiderwick - Le cronache - The Spiderwick Chronicles (2008) Spiderwick - Le cronache (2008)
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Spiderwick - Le cronache passa dai libri di Tony DiTerlizzi e Holly Black al film di Mark Waters per narrare il romanzo di formazione del giovanissimo Jared, che per primo si accorge delle strane presenze che abitano la sua nuova casa e per primo incontra Maiastrillo e viene a sapere del terribile orco Mulgarath e del suo progetto di mettere le mani sul libro per dominare il mondo, ma ben presto scopre che da solo non può farcela e ha bisogno dei fratelli e della madre per salvare i suoi nuovi amici e i segreti di Arthur Spiderwick.
La vittoria della nuova alleanza restituisce un ordine al mondo e cancella il caos che si era imposto nel cuore di Jared in seguito all'uscita di scena del padre, dopo una guerra a colpi di salsa di pomodoro che culmina in una vera e propria catarsi splatter.
Esperto di adolescenti e conflitti generazionali, dopo Mean Girls e Quel pazzo venerdì, Mark Waters, che ha già passeggiato in un altro mondo in Se solo fosse vero, instaura qui le giuste premesse per l'accesso del protagonista al regno fatato: una casa abbandonata tutta da esplorare e un senso di esclusione dalle dinamiche famigliari che fa di lui il prototipo dell'incompreso fra le mura domestiche destinato a divenire eroe di un universo che obbedisce ad altre regole.
Con i piedi ben piantanti nel realismo delle interpretazioni (doppia per Freddie Highmore) e dell'ambientazione contemporanea, Spiderwick si fa amare per il ritmo insolito, sostenuto ma mai convulso, quasi fatato, e l'impianto visivo nostalgico, che pare la diretta animazione di un libro di fiabe gotiche per piccini. Pecca però di poco coraggio e si affida a man bassa al recupero di elementi noti, tanto della mitologia esoterica (le silfidi) quanto della tradizione del fantasy in pellicola (in primo luogo Jumanji), finendo per presentarsi come una pozione riscaldata. L'incantesimo ha luogo. È uno spettacolo per gli occhi, ma non ci trattiene mai veramente col fiato sospeso. In fondo, dopo i trolls di Peter Jackson e i leoni alati di Narnia, siamo tutti preparati sull'argomento, e più esigenti che mai.

Flightplan - Mistero in volo - Flightplan (2005) Flightplan - Mistero in volo (2005)
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Il thriller punta tutto, o quasi, sul clima di sfiducia che si crea attorno al personaggio della Foster, la tipica persona che nessuno vorrebbe accanto a sè in una trasvolata oceanica, e ci riesce perfettamente almeno per un'ora. L'equilibro tra la maturazione della protagonista che da madre angosciata e sconcertata diventa donna d'azione e di cervello e quello del plot, via via sempre più complesso e sfuggente, è inizialmente davvero perfetto. Purtroppo però tutta la tensione e la suspance accumulata nella prima ora del film, scende in picchiata nella seconda parte e termina con un atterraggio davvero maldestro. Dopo aver scansato i numerosi clichè del genere ed aver regalato più una scena valida, senza contare il gustoso mettere alla berlina le paure e manie attuali degli americani (arabi, attacchi terroristici, un certa misoginia ed una totale indifferenza nei confronti della sorte del prossimo), Flightplan precipita con un finale davvero scadente sia nella forma che nella sostanza. La soluzione dell'enigma è troppo complessa, il politically correct invade fastidiosamente il campo e l'happy end, peraltro inevitabile, è rappresentato in maniera davvero maldestra e stupidamente pomposa. In definitiva il mix tra elementi postivi e negativi azzera la bilancia e spedisce Flightplan nell'affollato hangar delle occasioni mancate: il film è godibile e merita tutto sommato una visione, ma poteva diventare, con alcuni semplici accorgimenti, davvero un piccolo classico.

Benvenuti a ieri - Project Almanac (2015) Benvenuti a ieri (2015)
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Un film ben fatto che diverte e , in alcuni momenti , riesce a creare un atmosfera di suspence. Un teen movie intelligente senza volgarità e con un ottima e credibile trama che non sprofonda mai nella banalità . Molto bravi tutti gli attori.

I Love Shopping - Confessions of a Shopaholic (2009) I Love Shopping (2009)
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Nel 2000 esce a Londra un romanzo esile e gradevole di Madeleine Wickam, alias Sophie Kinsella, destinato all'affollata e denigrata riserva della chik lit (letteratura per ragazze). Trattato con condiscendenza dalla critica, "I love shopping" diventa un best-seller e quattro sequel dopo risponde entusiasta alla chiamata di Hollywood. Trasposto da Paul J. Hogan e traslocato a New York, I love shopping racconta l'irrefrenabile desiderio d'acquisto e il delirante apprendistato di una giornalista in erba che indossa abiti firmati e mises studiatissime.
Sullo sfondo ancora una volta c'è New York, la città dove le donne si affermano, vivono esistenze "alla moda", imparano a vestirsi come nessun'altra e affrontano la vita in equilibrio su un paio di Manolo Blahnik o di Jimmy Choo. Rebecca Bloomwood è l'incrocio abbagliante tra la brillante pubblicista Carrie Bradshaw (Sex and the City) e l'apprendista fresca di laurea Andy Sachs (Il Diavolo veste Prada). Della prima Rebecca condivide il ruolo di fashion victim, l'etica sentimentale e una rubrica giornalistica costruita sulla base di storie vissute, della seconda l'innocenza grottesca, il sogno del successo e il desiderio di scrivere per una rivista prestigiosa.
Il regista di una delle più belle commedie romantiche degli anni Novanta (Il matrimonio del mio migliore amico) non riesce a doppiare a New York il miracolo di Chicago e di una smagliante Julia Roberts che cedeva il passo e il fidanzato a un'acerba Cameron Diaz. Lo script, che nella malattia compulsiva di Rebecca individua il soggetto principale, fatica a tenere insieme l'inerte storia d'amore tra la giornalista e il suo capo redattore. La vera coppia romantica è quella formata da Rebecca e gli shops, tenuta insieme da un'attrazione fatale, a cui la ragazza finirà per sottrarsi rocambolescamente e dentro il suo abito peggiore.
Alle prese con una giornalista "di platino" che respinge il "diavolo" ma parla pradese e finlandese, Hogan lascia che sia proprio la sua voce a commentare la vicenda, fornendo alla fine una morale e una conclusione condivisibile, producendo un senso e un piacere che si risolvono però nella sola superficie visiva. Come una sciarpa (verde) I love shopping è impalpabile e (forse) durerà una stagione.

Munich (2005) Munich (2005)
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Il film vale per una considerazione generale sull'eterna questione palestinese: forse per la prima volta nella storia dell'uomo si confrontano due ragioni, non un torto (seppur parziale) o una ragione (seppur parziale). Sono molti gli episodi di dialettica etnico-politica, ebrei e palestinesi portano le proprie ragioni. Gli agenti israeliani uccidono, ma non sparano mai nel mucchio. Quando si accorgono che una bambina morirebbe insieme al padre, uno dei terroristi, fermano tutto. Quando uno del gruppo (l'attore è Daniel Craig, il nuovo raccapricciante Bond) dice "io sono l'unico che vuole davvero uccidere i palestinesi" un altro gli risponde, " per questo cerchiamo di non fartelo fare". Il film è ispirato al testo "Vendetta", firmato da George Jonas, un testo "obsoleto", e anche pericoloso di questi tempi, che Spielberg ha riscritto, conscio dell'impatto mediatico e politico che una storia come questa inevitabilmente avrebbe rappresentato.
Il regista ebreo ha prestato grande attenzione ai nodi della politica mediorientale. Ha voluto accreditarsi come testimone (quasi) imparziale piuttosto che come portatore di pronunciamenti filoisraeliani. Vale, in questo senso, la rappresentazione dei generali e dei capi dei servizi segreti israeliani, cinici, non simpatici, molto lontani dal cliché eroico-agiografico dei film americani. In questa chiave va letta la collaborazione di Tony Kushner, premio Pulitzer e attitudine "liberal". Peraltro Munich è uscito nelle sale proprio mentre Hamas vinceva le prime "libere e democratiche" elezioni palestinesi. Un segnale interessante. La strage dell'aeroporto viene proposta in un flash finale e accredita, nei volti e negli atti, una certa dolorosa riluttanza da parte dei terroristi nell'uccidere degli innocenti. Spielberg ha dichiarato "certamente non erano felici di farlo". Non tutti hanno creduto che il regista ne fosse davvero convinto. Una volta registrata la solita caduta sentimental&finale dei film di Spielberg (Avner fa l'amore con la moglie mentre negli occhi terrorizzati gli passa il film della strage) diciamo che Munich, è un ottimo racconto, naturalmente.

I tre moschettieri - The Three Musketeers (2011) I tre moschettieri (2011)
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Sulla scia del successo dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie, anche il romanzo di Alexandre Dumas viene sottoposto al medesimo trattamento: uno stravolgimento totale della trama, a partire dall'uso dei medesimi personaggi che incarnano versioni moderne del loro carattere. L'esito però è di certo meno godibile dell'investigatore di Ritchie.
Regista videoludico per eccellenza (a lui la palma del maggior numero di trasposizioni dirette dal joypad al grande schermo) Paul W. S. Anderson sceglie per questo I tre moschettieri in versione steampunk-fumettosa di non abbandonare il suo terreno d'elezione, affiancando alle molte soluzioni rubate da altri film anche una buona dose di idee nate per le console.
Ma proprio la tendenza di Anderson a rubare da altri film o altri videogiochi è l'elemento più sconfortante del film. La citazione, per sua definizione, è un riferimento allusivo, un ammiccamento vago o un ricalco rispettoso e coerente con il suo modello originale, che giova al film citato tanto quanto al citante; Anderson invece saccheggia e dispone di quel che ha saccheggiato con arroganza, pretendendo che ciò che funzionava altrove funzioni nella stessa maniera anche nel suo film. Così abbondano idee visive e di dialogo prelevate di sana pianta da "Assassin's Creed", "Civilization", Matrix (ancora?!?!), "Populus", Elizabeth (sia il primo che il secondo), "Call of Duty", Sherlock Holmes (per l'appunto), Per un pugno di dollari, e addirittura Troy nell'inquadratura finale! Senza che mai il film ne esca arricchito.
Al contrario è nelle parti più eminentemente fumettistiche, quando l'iperbolico si accoppia allo steampunk, che ci si inizia a divertire, perchè al linguaggio del cinema altrui Anderson sostituisce la necessità di narrare lasciando alla straordinaria fotografia di Glen MacPherson (a metà tra un dipinto e Photoshop) il compito di creare l'atmosfera più corretta, quella cioè che si accoppia con le capigliature improbabili dei personaggi e i colori sgargianti che già gli avevamo visto maneggiare in Resident evil: afterllife, sempre di Anderson.
Dunque al netto delle velleità cinematografiche, di un 3D inesistente, dei momenti più legati al romanzo d'origine e delle performance degli attori (tutti svogliati, Christoph Waltz compreso ma Milla Jovovich esclusa), ci si può anche divertire.

I Care a Lot (2021) I Care a Lot (2021)
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Praticamente la Pike ha solo due espressioni. Una da scema e l'altra pure. Peggior interpretazione femminile del ventennio in assoluto.
Sul film stendiamo un velo pietoso. Inizia pure bene ma si perde in un estenuante ricerca del colpo di scena che affonda invece la pelliccola sempre più nel banale