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Latest reviews:

La casa dei fantasmi - The Haunted Mansion (2003) La casa dei fantasmi (2003)
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La famosa attrazione del parco divertimenti di Disneyland
– The Haunted Mansion, per l’appunto – è l’ispiratrice della nuova sfida del regista Rob Minkoff. Minkoff cerca di riportare in scena una versione più moderna e scanzonata della classica e abusata storia d’orrore e fantasy, incentrata su una casa infestata da fantasmi imprigionati sulla terra a causa di una maledizione.
Il film riprende un filone che ha attraversato diverse fasi della storia del cinema. Non si possono dimenticare, infatti, pellicole
– molto più datate – come quella interpretata da Buster Keaton del 1921, e una meno famosa del 1958, in cui la casa è infestata dai fantasmi per via di una maledizione, che costringe i suoi abitanti ad agognare il riposo eterno e tormentare i poveri umani che incappano in quella zona.
Minkoff riesce a dare una versione non particolarmente originale dal punto di vista della storia. Tuttavia emerge molto chiaramente la sua mano nelle ambientazioni e negli effetti speciali, da lui stesso creati. Pensiamo a esempio al bagliore della luna, che rivela al pubblico se il personaggio che hanno di fronte sia un fantasma o meno. Ancor di più, si ha come l’impressione che queste «anime in pena» siano state direttamente «ingaggiate» subito dopo le riprese con i pirati di Johnny Depp.
A farne le spese è soprattutto il pubblico, che può non notare queste somiglianze, ma certamente non può dimenticare una storia che – all’uscita dalla sala – ha deluso ogni attesa.
La casa dei fantasmi non ha nulla a che fare con la brillante ironia e l’originalità di riprendere e stravolgere un genere ben noto, come quello piratesco, de La maledizione della prima luna.
L’espediente di attualizzare e dare una motivazione credibile all’arrivo della famiglia Evers nella casa infestata, facendone una coppia di agenti immobiliari, finisce per non essere efficace, perché accompagnato dai soliti stereotipi sulle famiglie americane in crisi e le maledizioni, di cui possono essere vittime casate nobiliari.
Il film mette quindi in campo le solite situazioni, quali un padre che lavora troppo, una moglie comprensiva che è arrivata al limite della sopportazione, una coppia di figli di cui l’uno –Michael – è un fifone dichiarato, mentre l’altra – Megan – «sa il fatto suo» e non teme nulla.
Una volta arrivati nella casa di Edward Gracey, il «principe» dal cuore infranto, non ci si può aspettare altro che cene sontuose, saloni impolverati e bui, specchi che riflettono tutto fuorché la propria immagine, passaggi segreti.
Neanche il buon Eddy Murphy riesce a impedire allo spettatore di avvertire un retrogusto di «già visto». Nulla può il suo recente successo con L’asilo dei papà. Minkoff lo costringe a fare il verso a sé stesso, riprendendo quell’atteggiamento scanzonato e quella risata – quasi ossessionante e fastidiosa –, che tanta parte hanno avuto nei passati film come Beverly Hills Cop.
Lo spettatore più giovane, abituato alle mirabolanti avventure di Harry Potter e al sentirsi partecipe con il protagonista di un mondo di magia, rimarrà probabilmente deluso.
Tuttavia La casa dei fantasmi rimane un evergreen per famiglie, che ha il pregio di soffermarsi e ribadire alcuni valori importanti. Innanzitutto il coraggio e la fiducia in sé stessi, che ogni bambino dovrebbe acquisire nel passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ma, nel contempo, la storia richiama fortemente i genitori al proprio dovere, ossia quello di dedicare tempo e amore alla famiglia al di là di qualsiasi impegno lavorativo. In questo senso, padri e figli vengono messi sullo stesso piano e posti di fronte alle reciproche mancanze. Il tentativo è di mostrare a entrambi le ragioni di alcuni errori, così da rinsaldare l’unità familiare accettando e superando le proprie debolezze e mancanze.
Sebbene quindi il film presenti notevoli lacune e alcune sacche di monotonia, non possiamo tacere il merito dell’intenzione dell’autore di parlare – una volta tanto – alle famiglie, attraverso i loro problemi e momenti di crisi.

Hannah Montana: The Movie (2009) Hannah Montana: The Movie (2009)
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Nonostante l'ordinarietà della storia raccontanta Hannah Montana e il suo successo planetario non devono stupire assolutamente in un momento in cui i canali tematici (come il Disney Channel che originariamente ha lanciato l'omonima serie tv) arrivano ad un pubblico sempre più vasto e in cui un po' tutto il cinema americano è innamorato dei supereroi. Il personaggio della cantante pop dalla vita normale infatti non è molto lontano dall'idea di supereroe. Sebbene non in lotta con il crimine nè dotata di poteri, Hannah Montana ripete lo schema attraente e fascinoso della doppia identità che è alla base dell'immedesimazione nei supereroi.
Se i secondi sono la proiezione dei sogni virili delle tante persone normali simili ai vari Clark Kent e Peter Parker, la prima è una loro variazione al femminile dove alla virilità e alla potenza sono sostituiti la popolarità e il glamour, alle maschere e ai costumi sono sostituiti una parrucca e un astuccio del trucco con il quale passare da abiti normali a succinte vesti impossibili da mettere a scuola.
In più nel film ad essere messa in scena nelle sue problematiche e nelle peculiarità è l'effettiva vita dell'attrice Miley Cyrus, anch'essa come il suo personaggio preda di un personaggio che la eleva a star mondiale, anch'essa seguita e tampinata da una folla di ragazzine urlanti e anch'essa abituata a fare promozione ad oggetti di moda solo indossandoli.

Into the Storm (2014) Into the Storm (2014)
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Into the Storm è meglio giudicabile se lo si inquadra nel genere B movie, visto anche il budget relativamente contenuto (per un film catastrofico) e il cast che sembra composto di seconde scelte rispetto ai divi del momento (un esempio: Donnie e la sua amica Kaitlyn sembrano cloni di Tom Welling e Miley Cyrus). In quanto B Movie, si apprezzano soprattutto gli effetti speciali, che in fin dei conti sono il motivo per realizzare un film come questo: aerei, auto, edifici sollevati da terra dal vortice, oggetti volanti non identificati che sbattono contro gli spettatori, esseri umani risucchiati dalla corrente, colonne di fuoco, quasi tutto rigorosamente realizzato al computer (e si vede), ma abbastanza spettacolare da mantenere desta l'attenzione del pubblico.
Quel che invece delude, a meno che non ci si lasci andare al gusto della comicità involontaria, è la trama, zeppa di implausibilità (altro esempio: la meteorologa si ripara da una grandinata epocale con il computer portatile con cui fa i rilievi) e di improbabili melensaggini, come i discorsi di Lucas e Kaitlyn guardando in camera, come se stessero lanciando un videomessaggio.
Il tema parallelo dell'ubiquità delle riprese video, che poteva essere uno spunto interessante (ancorché non particolarmente originale), perde efficacia perché non si capisce se il regista "c'è o ci fa": molti dei personaggi si raccontano come se fossero girati in modo amatoriale e tutti, nel bel mezzo del tornado, continuano a filmare, ma questa ossessione viene a tratti definita come una dannazione, a tratti come un'arma di salvezza. Lo stesso film fa leva su ciò che condanna, cercando la botte piena e la moglie ubriaca. Ma allora, queste cineprese le dobbiamo buttare, o portarcele sempre incollate addosso come un terzo occhio?

Two Weeks Notice - Due settimane per innamorarsi - Two Weeks Notice (2002) Two Weeks Notice - Due settimane per innamorarsi (2002)
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Usando come sfondo una New York patinata, Lawrence, già sceneggiatore di successo, fa il suo esordio alla regia con una commedia senza scossoni, affidandosi al collaudato estro di Hugh Grant e alla simpatia della Bullock. Ma quando la carne al fuoco è poca, non bastano i tentennamenti del primo e i sorrisi della seconda a rivitalizzare la situazione. Il risultato è una scadente macedonia di sketches già visti, che non solo non appassiona, ma non fa neppure divertire granchè.

La bella e la bestia - Beauty and the Beast (2014) La bella e la bestia (2014)
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Alla vicenda che vede come protagonisti i due personaggi del titolo vengono attribuite molteplici origini. La versione comunque più nota è una riduzione dell'opera di Madame Villeneuve pubblicata nel 1756 da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont in "Magasin des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et plusieurs de ses élèves".
È ad essa che fa riferimento Christophe Gans il quale non ha però potuto evitare il confronto non tanto con la universalmente nota versione disneyana ma piuttosto con quella estremamente raffinata di Jean Cocteau. Il regista ha deciso di inserirsi negli spazi lasciati più in ombra dal suo illustre predecessore sviluppando così elementi in passato trascurati. Viene quindi dato ampio spazio al padre di Belle, ai suoi fratelli e alle sorelle (che sembrano le sorellastre di Cenerentola) così come si sviluppa ampiamente la causa della maledizione caduta sulla Bestia. Gans, nelle sue dichiarazioni, ha fatto ampio riferimento alla tradizione letteraria classica (a partire dai latini) nonché al versante animistico del cinema di Miyazaki. Ha anche motivato la scelta di un'ambientazione in era napoleonica che si alterna con una rinascimentale (quando la Bestia era principe). Peccato che tutto ciò non sia servito a dare un'impronta stilistica a un film che si manifesta come sovrabbondante di citazioni dal cinema altrui tanto che (a partire dalla prima immagine notturna del castello che ricorda con evidenza quello del burtoniano Edward Mani di forbice) si potrebbe indire un concorso a premi tra gli spettatori per chi ne individua il maggior numero. Tutto è in eccesso in un film che finisce con il risultare invece debole non tanto nel confronto con i suoi predecessori ma nella sua stessa essenza individuale e produttiva. Viene da chiedersi a cosa sia funzionale un tale spreco di effetti speciali in un'era di 3D per non utilizzarne la presa spettacolare. La tridimensionalità avrebbe finito con il giustificare, almeno in parte, un'operazione che così mostra i limiti di una retorica passatista in cui la stessa formula della narrazione rivela da subito, anche allo spettatore più sprovveduto, l'identità di chi narra scoprendo carte che avrebbero dovuto restare coperte.

Mucche alla riscossa - Home on the Range (2004) Mucche alla riscossa (2004)
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Tempi di vacche magre in casa Disney. Battute a parte, il sistematico e continuo annientamento dell'animazione bidimensionale, oggetto del killeraggio dei film a tre dimensioni, è dovuto in maniera oramai evidente all'aridità creativa degli sceneggiatori, incapaci di ideare storie avvincenti e personaggi memorabili. Mucche alla Riscossa, rientra nel novero delle pellicole di animazione (abbastanza) divertenti, simpatiche, carine ma assolutamente non indimenticabili.
Il film si presenta come ibrido e forse compromesso, tra due nature diametralmente opposte, ponendosi a metà tra Le follie dell'imperatore (piccolo e misconosciuto cult), di cui imita e riprende lo stile grafico irregolare e scarno, alla Hanna & Barbera, ed i grandi classici del passato, con le loro ridondanze musicali, le canzoncine e motivetti che, da qualche tempo, sembravano essere state messe in un angolo. Quello che lascia perplessi è lo spreco di materiale a disposizione: l'ambientazione western e la storia, semplice ma efficace, avrebbero potuto dare origine ad una sequela ininterrotta di gag, slapstick e battute a raffica, mentre alla fine degli 85 minuti di proiezione, ci si alza con l'impressione di aver assistito al film Disney meno brillante di sempre.
Mucche alla riscossa mette alla berlina il vero problema della Disney degli ultimi anni: quello di non riuscire più a creare personaggi di spessore tale da sopravvenire ai film, di cui sono essi stessi protagonisti.

L'altra donna del re - The Other Boleyn Girl (2008) L'altra donna del re (2008)
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Prendete un regista che si è fatto le ossa in numerose serie televisive e mettetegli a disposizione un trio formato da Bana, Portman e Johansson. Offritegli poi una costumista (Sandy Powell) con 2 Oscar sullo scaffale (Shakespeare in Love e The Aviator, degli interni di forte impatto visivo e un libro di successo (di Philippa Gregory) a cui ispirare la sceneggiatura e il gioco è fatto.
L'altra donna del Re interviene in modo romanzesco sul dato storico offrendo due ore circa di onesto spettacolo da fruire prima in sala e poi assolutamente godibile sullo schermo televisivo così come lo sono state le varie 'Elizabeth' che lo hanno affollato in questi ultimi anni. Nulla di straordinario dunque ma neppure di mediocre come una critica supponente potrebbe suggerire. Il cinema è (e deve essere) anche entertainment. Questo, con i suoi colpi di scena in ambito familiar-dinastico, assolve al compito.

Una proposta per dire sì - Leap Year (2010) Una proposta per dire sì (2010)
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Il regista Anand Tucker, alla prima prova nella commedia sentimentale, e gli sceneggiatori (invece già colpevoli per Un amore di testimone) hanno perciò gioco troppo facile nell'opporre la metropoli, luogo dei condizionamenti sociali e dell'apparire per quel che non si è (la protagonista arreda appartamenti da vendere o affittare per renderli più appetibili, salvo poi svuotarli al momento della consegna), e la campagna, che si preoccupa di sporcare (prima) e di togliere (poi) questi abiti per rivelarne l'esclusiva natura di copertura. Poco aggiunge anche l'incomprensione linguistica - che la versione italiana probabilmente appiana - e culturale in genere, che poggia sullo stereotipo dell'irlandese polemico e superstizioso.
Ciò e molto altro nonostante, la commedia non è affatto da buttare. Il personaggio di Matthew Goode funge sì da detonatore nel rompere la rigidità di Amy Adams, ma lei fa esattamente lo stesso, costringendolo al superamento del suo trauma. Nella verde terra di Maureen O'Hara, Anna non condivide con lei molto altro che la chioma fulva, ma entrambi, uomo e donna, sono in qualche modo, anche in questo caso, delle bisbetiche da domare. In virtù di questo coprotagonismo sincero, il film trova ad un certo punto un gradevole equilibrio: parte da un'istanza fintamente femminista (la proposta di matrimonio "concessa" all'iniziativa della donna), passa per l'umiliazione senza sconti dell'eroina e approda, rassicurante, al ristabilimento dei ruoli di genere, ma nel mezzo conosce comunque un piacevole piccolo combattimento. I due giocano, nel doppio senso del verbo inglese "to play": sia fingendo di essere marito e moglie, e recitando dunque una parte, sia giocando il gioco dell'amore, sempre più consapevolmente.
Non mancano, va ripetuto, le cadute di tono, ma c'è spazio per un tocco di classe: Louis - come Declan chiama affettuosamente la valigia di Vuitton della ragazza - diventa un vero e proprio terzo incomodo, simbolo di quel promesso sposo che, man mano che il viaggio avanza, si fa di più e soltanto un peso da portarsi appresso.

Sinbad - La leggenda dei sette mari - Sinbad: Legend of the Seven Seas (2003) Sinbad - La leggenda dei sette mari (2003)
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L'uscita del cartone natalizio made in Dreamworks rappresenta, a suo modo, un fatto storico. Sinbad infatti sarà l'ultimo personaggio animato a calcare le scene disegnate in maniera "tradizionale":dato lo straordinario (ed immeritato) insuccesso al botteghino, anche lo studio di Spielberg si concentrerà, dal prossimo anno e per sempre, sull'animazione digitale (vedi l'imminente uscita del secondo episodio di Shrek).
A dire il vero, il tasso di perfezione tecnica raggiunta dagli animatori americani, rende comunque Sinbad una gioia per gli occhi: un mare limpido e credibile, mostri giganteschi e ben "caratterizzati", piccole gemme citazioniste e una sana dose di umorismo, resa convincente da un buon doppiaggio (a parte una caduta di stile cui si accennerà più avanti) garantiscono la digeribilità della pellicola.
Ovviamente non ci si aspetti nessun colpo di scena o distonia dalla tradizione paludata made in Disney anche Dreamworks si è appiattita su canoni triti e ritriti e sebbene dotato di dialoghi più brillanti della media, anche Sinbad si prende delle lunghe "pause di riflessione". In certi momenti la somiglianza con L'isola del tesoro, è quasi sconcertante.
Il film s'incanala perfettamente nella tradizione dell'avventura piratesca ispirata dalle pellicole di Errol Flynn, recentemente rilanciate dal blockbuster Pirates of the Caribbean.
C'è l'eroe, c'è l'eroina (mai così avvenente, stavolta i grafici si sono scatenati!), c'è il cattivo, anzi la cattiva e l'animaletto buffo e la colonna sonora è avvincente e perfettamente sincronica ai momenti topici del film.
Tutto liscio insomma, ma evidentemente questo tipo di cinema ha fatto il suo tempo.
Più che un problema di confezione, l'animazione americana sembra essere caduta in una sterilità creativa senza precedenti e la splendida grafica, il ritmo serrato, le animazioni fluide e stupefacenti non riescono a sostenere un plot narrativo scontato e banale.
Sinbad, se fosse un film "vero", apparterrebbe al filone dei cosiddetti "film di genere" che, solitamente propongono, a basso costo, ottime scene d'azione, umorismo e soprattutto empatia tra pubblico e attori. Qui mancano empatia, simpatia e soprattutto il prezzo da pagare per i produttori è alto, troppo alto.
Detto ciò, si riconoscano i giusti meriti a Sinbad e si spendano pure i soldi del biglietto: piacerà certamente sia ai grandi che ai piccoli. Ci si goda pure la magniloquenza grafica del pirata più famoso dopo Harlock (ma quello era spaziale) e si inarchino pure e nuovamente le sopracciglia nel sentire un membro della ciurma parlare in dialetto napoletano. Tanto poi nelle sale ci andranno Opopomoz e compagnia brutta. L'animazione è morta? Evviva l'animazione (estera... ovviamente).

We Were Soldiers - Fino all'ultimo uomo - We Were Soldiers (2002) We Were Soldiers - Fino all'ultimo uomo (2002)
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lui è già lontano. Non si capisce come il regista che ha firmato Braveheart abbia collezionato tanti luoghi comuni. È indubbio che molti dei 138 minuti del film sono "sbagliati", faticano di retorica e di già visto. Strano, perché l'investimento è stato cospicuo. E strano che Gibson, che non sbaglia un colpo, abbia legittimato tutto questo. Siamo nel 1965, la storia è quella del colonnello Moore, paracadutista, eroe della Corea, al quale viene affidato il compito di aprire le ostilità col Vietnam. Gran parte del film riguarda la cruenta battaglia intorno a una collina, con rovesciamenti di fronte e tutta la violenza, il napalm e gli elicotteri che abbiamo visto nei vari film sul Vietnam, con in più la nuova tendenza-iperrealista-violenta alla Soldato Ryan, alla quale ormai nessun film di guerra può più sfuggire. Le perdite sono terribili ma il colonnello fa il suo dovere di eroe. Notata una Stowe, che fa la moglie eroina-a-suo-modo di Gibson, stereotipata e davvero troppo segnata dalla chirurgia. In virtù del lungo spettacolo di guerra, certo ben fatto, non ci sentiamo di penalizzare troppo. Mezza stella in più di quelle ufficiali.

Max Payne (2008) Max Payne (2008)
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Se la vera forza di un'avventura videogiocata sta nella sua giocabilità e nella sensazione di entrare gradualmente in un mondo altro, la forza di un film risiede piuttosto nella fantasia narrativa e iconografica. Da una parte la lentezza di un'esplorazione dove è facile perdersi alla ricerca di una chiave nascosta o di un nemico da abbattere sotto l'effetto di una droga sintetica, dall'altra la crescente frenesia della fruizione cinematografica. John Moore, sulla scia del successo del videogame cinematografizzato, videogamizza il film, mutuando strutture e forme dal "Max Payne" game. Max Payne è un'(anti)eroe virtuale che si disanima incarnandosi nel corpo di un attore, l'armato ragazzaccio in action di Mark Wahlberg. Il regista recupera e reinnesta nella sua "trasposizione" la tradizione del genere noir, che sin dalle origini si configura come potente macchina estetica e narrativa, sospesa sull'indecidibilità tra bene e male. Nero, nerissimo, Max Payne è un personaggio oscuro, un cacciatore implacabile con cui è impossibile non identificarsi. Cosa c'è di più romantico della vendetta per amore? O di un poliziotto mai pacificato che combatte il crimine e l'ambiguità della giustizia? Come "Il Punitore" (The Punisher), creato da Gerry Conway, Ross Andru e John Romita Sr., Max Payne è sopravvissuto alla sua famiglia ed è deciso a vendicarsi, sostituendosi alla legge, perseguendo la punizione e trasformandosi in giudice e boia.
La trasposizione di Moore non produce un significativo scarto rispetto ai precedenti film tratti da videogame (Lara Croft- Tomb Raider, The Hitman, Resident Evil) procedendo a una semplice e pura translazione semantica, ovvero la "traduzione" di una storia dai codici propri del gioco tridimensionale a quelli dell'immagine in movimento. Non realizza insomma un vero e proprio innesto della grammatica del videogame di partenza all'interno di un diverso sistema di comunicazione. La computer graphic, lo slow motion e le riprese in soggettiva non sono sufficienti a restituire l'universo stilistico del gioco originale. Le straordinarie abilità atletiche di Payne nel film appaiono esagerate. Se nel gioco sono credibili, al cinema richiedono quanto meno una giustificazione narrativa: Max non è un supereroe extraterrestre come Superman, né il Neo della resistenza contro l'universo virtuale di Matrix, che conosce l'artificiosità delle leggi fisiche di quel mondo e quindi può superarle. Nel film Max Payne appare come un piatto stereotipo in un sistema narrativo tanto scontato quanto inconsistente. Soltanto in un videogioco la storia è quasi superflua se non addirittura ignorata a beneficio dell'azione. No, Max non è apparso sullo schermo. Max Payne si rivela soltanto a chi ha la pazienza di entrare nel suo ruolo e dentro l'esperienza ludica, soffrendo e giocando per lui.

Non è un'altra stupida commedia americana - Not Another Teen Movie (2001) Non è un'altra stupida commedia americana (2001)
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Il film vorrebbe essere una parodia demenziale dei tanto acclamati High School movies più recenti. Essendo il filone degli high school/college movies dal canto suo già demenziale e parodistico è inutile chiedersi quale sia il senso di questo prodotto($). Troviamo tutti i clichè all'eccesso: Il campione della squadra di football finisce in panchina(?), lo sfigato di turno è sfigatissimo, la leader delle cheer-leaders è stupidissima, la ragazza lasciva è una ninfomane dalle brame incestuose e così via. C'è anche la classica scommessa che il capo della banda fa con il suo gruppetto di amici: riuscirà o no a portare al ballo la cenerentola della scuola? Ci troviamo davanti a un incoerente pasticcio a tutto tondo che dimentica in breve i propri propositi di originalità dando vita a volgarità e brutture di bassissima lega, finendo col confondersi, sfigurando, con i titoli dai quali si vorrebbe distinguere. Il tentativo di canzonare/celebrare i vari American Pie e cloni fallisce miseramente col sorriso (ebete) sulle labbra; non dello spettatore, si intende. Basta togliere il "non" e il gioco è fatto: un'altra stupida commedia americana.

Contraband (2012) Contraband (2012)
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Prima di analizzare le qualità comunque evidenti del drama-thriller diretto dall'islandese Balthazar Kormakur vale la pena spendere due parole sulla bontà dell'operazione che ha portato a questo film. Voluto dalla star e produttore Mark Wahlberg, Contraband è costato soltanto 25 milioni di dollari ed ha puntato, oltre che sulla presenza della star e di un gruppo di attori di consumata affidabilità, soprattutto sull'efficacia e la spendibilità del prodotto sul mercato interno. Un'ambientazione poco battuta ma affascinante come la zona portuale di New Orleans, una storia in grado di fornire al pubblico sia la tensione del genere che la necessaria possibilità di riconoscersi nei personaggi.
Insomma, Contraband può a buon diritto essere preso come esempio di quell'adeguato prodotto medio che sul mercato americano continua a funzionare a meraviglia e sostenere le Major per gli sforzi economici e produttivi più importanti. E infatti il lungometraggio sul solo mercato statunitense ha incassato più di sessanta milioni di dollari, doppiando abbondantemente il costo della sua realizzazione. Come accennato, il film merita ampiamente il successo ottenuto. Non che si tratti di un capolavoro alla maniera dei migliori Scorsese o Coppola, ma allo stesso tempo è un'opera che lascia trasparire una professionalità evidente.
Kormakur, già regista in patria di alcuni film d'azione, imposta il suo stile di regia in maniera precisa, attaccata ai personaggi ma mai inutilmente isterica. La messa in scena consente quindi agli spettatori di calarsi nel cuore dell'azione senza rimanerne travolti o peggio ancora storditi. Almeno un paio di sequenze sono poi splendidamente girate e montate, come ad esempio quella della rapina nella parte centrale. Oltre che sicuro nella gestione del ritmo e dello spettacolo, Kormakur si dimostra anche sapiente direttore d'attori, in particolar modo dei numerosi e valevoli caratteristi che lavorano come spalla a un Mark Wahlberg che senza strafare si dimostra ben calato dentro il suo ruolo. Su tutti a svettare però è la coppia formata da Ben Foster e Giovanni Ribisi, due attori che si sono evidentemente divertiti a interpretare i propri ruoli. Una nota stonata del cast una Kate Beckinsale che appare non particolarmente centrata nel proprio ruolo.
Cinema intelligente e confezionato con lucidità, che evita di sperperare in roboanti momenti di spettacolarità ma preferisce puntare sulla tensione delle situazioni e della trama. Tra strizzate d'occhio al cinema urbano e accaldato di Michael Mann - la rapina sopra citata - e il riferimento estetico abbastanza preciso a una serie TV di culto come The Wire, il film di Kormakur intrattiene senza particolari cadute di ritmo e con un senso dell'immagine di discreta efficacia. Merita dunque pieno consenso la volontà di Mark Wahlberg di puntare su opere più piccole ma costruite e girate con indubbia sapienza.

Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno - Mean Streets (1973) Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno (1973)
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Quando De Niro fa il suo ingresso nel cinema di Scorsese sulle note di Jumpin’ Jack Flash, molto è già stato scritto: ci sono la fluidità della macchina da presa nel seguire (e scrutare) i protagonisti, l’abilità di sposare la musica e le immagini, il retroterra italoamericano e non manca l’ossessione per gli insegnamenti e le pratiche della religione cattolica.
Insomma, a trent’anni il regista mette in mostra già alcuni dei filoni portanti del suo modo di narrare e lo fa raccontando la storia di figure di quartiere che vivono sul limite della legalità: il forse aspirante boss Charlie (Harvey Keitel) che si muove nell’ombra dei traffici dello zio Giovanni (Cesare Danova); Michael (Richard Romanus) che presta i soldi a strozzo; Tony (David Proval) che gestisce il bar che fa da punto d’incontro; Johnny Boy (Robert De Niro) che è la scheggia impazzita e incontrollabile tanto da (rischiare di) far saltare il banco.
De Niro tende a rubare la scena – pure in lui si vedono già i prodromi di ‘Taxi driver’ e del Michael vietnamita de ‘Il cacciatore’ – al protagonista Keitel, il cui Charlie vede attraversata la sua strada di piccolo criminale dai sentimenti – l’amore di Teresa (Amy Robinson), l’amicizia per Johnny Boy – e dalle frequentazioni in chiesa: il suo percorso ondivago si sviluppa comunque in una vicenda corale di un gruppo di personaggi che vive soprattutto di notte.
Scorsese – con l’improbabile capigliatura di quei dì – si riserva la parte dello sparatore silenzioso, mentre l’edizione italiana (il cui doppiaggio d’epoca Netflix ripropone) è abbastanza insopportabile: lasciando stare il demenziale sottotitolo, la lingua utilizzata è una sorta di broccolino intessuto di termini inglesi che sfiora a volte la comicità.

Il Rito - The Rite (2011) Il Rito (2011)
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Come al solito, quando si tratta di film esorcistici, non mancano le citazioni papali e l'affermazione che il film è ispirato a fatti reali. E, come è tendenza dominante in questo sottogenere, sin dai tempi de L'esorcista, l'approccio è realistico, tendente a dimostrare come la presenza del demonio si insinui senza sforzo nel quotidiano. Il contrasto tra il sacerdote anziano che ha visto di tutto e quello giovane che ancora non ha visto niente (e perciò, con una certa supponenza, non crede a nulla) ricorda - con opportune modifiche - quello dei due sacerdoti protagonisti del classico film di Friedkin: l'utilità del confronto è quella di favorire l'immedesimazione dello spettatore, che si avvicina alla storia con gli occhi scettici di Michael e viene coinvolto dagli eventi. Gli esorcismi mantengono la loro inquieta drammaticità, ma sono temperati da qualche tocco bizzarro non sempre azzeccato (come l'improvvisa chiamata al telefonino di Padre Lucas).
L'enfasi non è sugli effetti speciali, ma sulla vicenda e sul confronto con la sfuggente presenza del Maligno, assai simile agli esiti di svariate patologie mentali: "Non ha bisogno di un prete, ma di uno psichiatra" opina infatti Michael di fronte alla ragazza posseduta dal demonio. Il problema principale del film è però che la procedura dei film esorcistici viene seguita in modo piuttosto pedissequo, senza particolari novità: la principale è il retroterra esistenziale del giovane prete, efficace nel dare profondità alla sua disillusione. Un'altra, più relativa, appartiene alla svolta finale e le dona un'appropriata cupezza, pur senza sorprendere troppo.
Un film come questo basa molta della sua credibilità sull'efficacia degli interpreti e in questo senso il cast è di buon livello, con punte di eccellenza in Anthony Hopkins che conferma la sua versatilità: lontano dall'esuberanza di Hannibal Lecter, dona una sofferta umanità al suo esorcista gallese, stanco ma non demotivato. Brava anche Marta Gastini, nel ruolo della ragazza indemoniata. Rutger Hauer, nel piccolo ma significativo ruolo del padre di Michael, è incisivo e capace di toccare le giuste corde dei sentimenti senza indulgere in quella recitazione sopra le righe o svogliata che ha caratterizzato diverse delle sue prove degli ultimi anni. In un piccolo ruolo si rivede Maria Grazia Cucinotta.

Bad Moms 2 - Mamme molto più cattive - A Bad Moms Christmas (2017) Bad Moms 2 - Mamme molto più cattive (2017)
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Se si conferma ancora il trio Mila Kunis, Kristen Bell e Kathryn Hahn, questa volta invece le mamme da temere sono le nonne, interpretate da una sorprendente Susan Sarandon, Christine Baranski e Cheryl Hines. Una commedia natalizia che mette da parte il buon gusto e fa ridere dei clichés sulle madri e sulle figlie, sul loro rapporto di eterno amore-odio e sull'ossessione del Natale perfetto dettato dalla società del consumismo.
Così se le giovani madri sognano di trascorrere delle feste tranquille, senza preoccuparsi troppo degli addobbi, né di cosa fare se non per il piacere di stare insieme, le nonne, che arrivano a sorpresa a casa delle figlie, hanno tutta un'altra idea delle feste, ognuna nel proprio stile. Veglione di Natale con buffet di sushi e il miglior musicista del momento, una serata a teatro a vedere lo Schiaccianoci in versione integrale in russo, giri sfrenati tra i negozi in cerca del miglior albero di Natale. Madri e figlie non sono d'accordo mai su niente. Il momento dei regali, infine, è il più pericoloso. Terrificanti soprese potrebbero verificarsi, come per esempio una mamma che annuncia alla figlia di trasferirsi nell'appartamento affianco al suo per poter stare sempre insieme.

Sixteen Candles - Un compleanno da ricordare - Sixteen Candles (1984) Sixteen Candles - Un compleanno da ricordare (1984)
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Si tratta del primo film diretto dal regista di Breakfast Club, realizzato per piacere agli adolescenti.

Le ragazze del Coyote Ugly - Coyote Ugly (2000) Le ragazze del Coyote Ugly (2000)
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Favoletta del successo ben fatta, che non si lascia toccare dagli stereotipi cattivi di quegli ambienti -nemmeno uno spacciatore o un travestito-: scatenata, ingenua e pulita, divertente, quasi vecchia maniera.

Babylon A.D. (2008) Babylon A.D. (2008)
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Dalle seicento pagine del thriller futuristico "Babylon Babies" di Maurice Dantec, Mathieu Kassovitz estrae i novanta minuti di Babylon A.D., pellicola a base di ipercinetismo delle immagini e sintesi narrativa degli ultimi punti fermi del genere, dalla pioggia acida di Blade Runner allo spunto che già mosse I Figli degli Uomini di Cuaròn. La compressione, però, è massima e la qualità ne risente.
Ottenuto con Gothika e il suo parterre di stelle (e strisce) il permesso di soggiorno presso i grandi studios e il nulla osta per capitanare un film high budget come B.A.D., il regista francese si è parallelamente aggiudicato una discreta dose di diffidenza da parte dello spettatore esigente, che lo ha visto dimenticare in fretta gli esordi promettenti a favore di pellicole di sicuro richiamo ma di esito incerto.
Qui Kassovitz conferma l'attitudine spiccata per l'azione e il possesso di un cronometro personalizzato, che non solo rispetta ma crea tempi e scarti esatti. Dice la sua anche in termini di cast: Michelle Yeoh, Charlotte Rampling, Gérard Depardieu e Lambert Wilson sono le salde colonne al centro delle quali può azzardare l'inserimento di Vin Diesel, decisamente più efficace in lingua originale.
Attori speciali, effetti speciali, una storia che ruota attorno a un essere speciale, geneticamente modificato per salvare o annientare quel che resta della nostra specie: grandi pretese e non poca confusione, per un'opera che non riscrive la storia e non entra in quella del cinema. Dopo un inizio folgorante, che ci ricorda l'abilità dell'autore nel descrivere con occhio antropologico i mondi ai margini, il film inciampa in ogni trappola della retorica e ben presto vende il cuore per un surplus di stucchi e pittura.
Babylon A.D. è il Quinto Elemento di un cineasta che si è avviato sulla terza via inaugurata da Luc Besson, possibile ma più che mai rischiosa. Con una differenza: là Milla Jovovich piangeva sincera sul mondo, qui sgorgano lacrime artificiali.

Jack e Jill - Jack and Jill (2011) Jack e Jill (2011)
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Con la cadenza metodica e puntuale di un cinepanettone, le commedie di Adam Sandler si presentano annualmente sul mercato americano, alternando, con la stessa precisione, storielle romantiche a prodotti demenziali. Jack and Jill appartiene a questa seconda categoria e per Sandler diviene l'occasione di pagare quel pegno che, presto o tardi, tocca a tutti i comici americani più popolari: creare un proprio doppio femminile, sgraziato e dalla voce in falsetto. Il fatto che in una sequenza del film si proietti A qualcuno piace caldo non deve far pensare a un omaggio alla commedia brillante di Billy Wilder (e non solo perché i due gemelli non perdono occasione di riempire la sala di peti). Per il pubblico americano, l'attore è l'incarnazione della commedia popolare e il trasformismo en travesti è solo un pretesto per mostrare Adam Sandler al quadrato e concedergli di esporsi contemporaneamente nei suoi due registri preferiti: l'Adam Sandler cinico e sarcastico e l'Adam Sandler infantile e petulante.
Assolutamente nullo come commedia, Jack and Jill funziona infatti solo come monumento di Sandler e come documento del suo peso nella pop culture statunitense. L'attore newyorkese costruisce attorno a sé una parata di testimonial e di marchi famosi, che vanno a puntellare una storia in verità più patetica che divertente, ma comunque capace di trascinare tanto la gente comune (le interviste ai gemelli che aprono e chiudono il film) che le più importanti celebrità. Stelle dello sport in panchina come John McEnroe e Shaquille O'Neal, amici in visita di cortesia come Johnny Depp e Dana Carvey, perfino un mostro sacro dell'Actor's Studio come Al Pacino. Quest'ultimo fa ben più di una semplice comparsata e sta al gioco al punto da ridicolizzare la sua icona di furioso attore shakespeariano vendendosi per un caffè e una ciambella da Dunkin' Donuts.
L'aura dell'attore di Scarface e del Padrino non riveste certamente il film di un nuovo valore, ma serve a ricordarci, a più di cinquant'anni dai due musicisti travestiti di Billy Wilder, che nessuno è perfetto: né i film né gli attori, ma solamente il loro ascendente.

Il presagio - The Omen (1976) Il presagio (1976)
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moltissima suspence

Triangle of Sadness (2022) Triangle of Sadness (2022)
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Parasite 2.0? non è ambientato in una lussuosa villa, ma l'idea si avvicina...Ho trovato interessante la differenziazione dei capitoli e dei differenti messaggi che ognuno di essi vuole trasmettere. Tra i personaggi quello di Charlbi Dean ha reso molto l'idea dell'attuale era digitale, forse troppo. Il finale lascia l'amaro in bocca cadendo nel cliché. Nel complesso un bel film ma con scene già viste.

L'ultimo re di Scozia - The Last King of Scotland (2006) L'ultimo re di Scozia (2006)
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"Sua Eccellenza Presidente per la Vita, Federmaresciallo Al Haidji Dottor Idi Amin, Signore di tutti gli animali della terra e dei pesci del mare, e Conquistatore dell'Impero Britannico, In Africa e particolarmente in Uganda". Così si autoproclamò l'uomo che è stato accusato del massacro di centinaia di migliaia di persone. MacDonald, al suo primo lungometraggio dopo un'intensa attività di documentarista, ce lo mostra così come appare allo sguardo 'ingenuo' di un occidentale pronto inizialmente a chiudere gli occhi su alcune 'stranezze' dell'affascinante personaggio. Ancor più affascinante perché interpretato da un Forest Whitaker assolutamente straordinario nell'offrirci l'ambiguità della follia coniugata al potere. Se in La caduta Bruno Ganz alternava, nei panni dell'Hitler degli ultimi giorni, la cordialità riservata agli intimi con gli scatti della più incontenibile ira, l'attore afroamericano ha di fronte a sé una materia ancora più complessa. Le battute, l'ammirazione per la Scozia, la voglia di vita e il desiderio di giustizia di cui Amin fa sfoggio esteriore si velano pian piano dell'ombra della follia. Una follia al contempo determinata e insicura che viene resa con grande sensibilità in modo da non rendere mai il dittatore del tutto 'simpatico' ma neppure di delinearlo come il Mostro da esorcizzare. Nel far questo è coadiuvato da James McAvoy (il fauno de Le cronache di Narnia) che, insieme allo spettatore, compie un viaggio alla scoperta del lato oscuro del fascino esercitato dal potere.

Monte Carlo (2011) Monte Carlo (2011)
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C'è una genesi curiosa dietro questa commedia romantica per pre-adolescenti sognatrici, difficilmente identificabile con le ordinarie produzioni in ciclostile di genere teen. Partito come l'adattamento di un romanzo di Jules Bass che doveva coinvolgere Nicole Kidman e incentrarsi su un gruppo di donne americane in vacanza in Europa alla ricerca di prede facoltose, Monte Carlo ha col tempo aggiustato il suo target dal pubblico di Sex & The City a quello di Disney Channel, puntando su tre giovani celebrità acerbe del panorama televisivo americano e su una favola più melliflua e addestrata. Il risultato di questa completa riscrittura è una commedia romantica con tutti i bassi standard e le alte dosi zucchero del prontuario cinematografico adolescente, ma con un'accumulazione di idee tale da renderla quasi un patchwork narrativo, una villa di Barbie con la tappezzeria ottocentesca. Al suo interno: un trio malassortito che non si lancia in vane celebrazioni dei valori della famiglia o dell'amicizia; un'avventura europea che sposta all'improvviso il suo sguardo trasognante da Parigi a Montecarlo; uno scambio di personalità a senso unico fra povera e principessa dove non c'è redenzione per i ricchi snob e viziati. Ma soprattutto, un romanzo di formazione che da uno si fa trino e segue in parallelo i differenti percorsi delle tre ragazze.
Il regista del natalizio La neve nel cuore si converte allo spirito dell'avventura estiva attraverso la favola di una Cenerentola texana e delle sue due sorellastre di buon cuore, ognuna alle prese con il proprio principe azzurro. Alla più giovane e bonaria Selena Gomez spetta la strada maestra e, oltre al duplice ruolo della cameriera gentile e dell'odiosa ereditiera britannica, anche il cuore dell'aristocratico dall'accento francese. Alle altre due, il destino riserva invece una morale opposta, uguale ma contraria: quella del "no place like home" per la solare Katie Cassidy e del colpo di fulmine, dell'avventurosa romantica, per l'ombrosa Leighton Meester. Si respira quindi un'aria da vecchia fiaba hollywoodiana in Monte Carlo, una tendenza quasi perduta a privilegiare i cambi di scenari e di situazioni come fossero abiti e collane, rispetto ai conflitti con gli antagonisti al fine di creare più movimento e più azione. Un'aria forse un po' troppo stantia per una favola teen contemporanea. Ma a cui si arriva a essere grati per il solo fatto di preferire Grace Kelly a Paris Hilton.

Eddie the Eagle - Il coraggio della follia - Eddie the Eagle (2016) Eddie the Eagle - Il coraggio della follia (2016)
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Eddie the Eagle è un biopic e un film sportivo, ma questa volta il protagonista è un ragazzo normale, come diremmo oggi un nerd che diventa un eroe, superando una sfida quasi impossibile, spinto dalla sua grande forza di volontà e da un allenatore fuori dagli schemi: l'ex campione Chuck Berghorn (Hugh Jackman). Chuck è l'antitesi di Eddie (Taron Egerton), è un edonista, un viveur che appena si sveglia si attacca alla bottiglia, ma come Eddie ha avuto un grande sogno, finito poi a causa del suo essere un ragazzo poco disciplinato. Tra Eddie e Chuck si instaurerà un grande rapporto di amicizia e di rispetto, quello tipico tra l'allievo e il suo maestro. Eddie cercherà di superare la sfida impossibile, Chuck ritroverà se stesso ripercorrendo un percorso che anni prima lo aveva portato al successo.
Il film di Dexter Fletcher non esce fuori dagli schemi della biografia convenzionale ma sa essere divertente e spassoso; il protagonista è un uomo che ciecamente crede in qualcosa pur essendo a conoscenza delle proprie debolezze, non si lascia buttare giù dalle prese in giro degli altri atleti o dai 90 metri del trampolino, Eddie continua testardo per la sua strada e ciò gli permetterà di diventare una leggenda. Eddie the Eagle è la salita e il grande salto verso un sogno che, seppur con qualche limite e il susseguirsi di azioni più o meno prevedibili, regala allo spettatore una lezione di rivincita di un ragazzo spinto da una grande forza interiore. Piccola particina per il grande Christopher Walken nei panni dell'ex allenatore di Chuck.

Inkheart - La leggenda di cuore d'inchiostro - Inkheart (2008) Inkheart - La leggenda di cuore d'inchiostro (2008)
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Il ponte tra cinema e letteratura esiste da sempre, ma oggi è ormai un'autostrada e la trasformazione porta con sé pregi e difetti. Se poi non si è un minimo avvezzi alla fuga di fantasia, tentanti dal brivido e permeabili al sentimento, come nell'insuperato La Storia Infinita, non restano che i difetti. È più avventuroso farsi strada su un ponticello di corda traballante o raggiungere la stessa meta su un'automobile, fermandosi solo per pagare il pedaggio al casello? Il problema di Inkheart è proprio qui: quando tutto è possibile - leggere un paragrafo del "Mago di Oz" e sollevare un tornado, inventare tre frasi poco ispirate e lasciare a loro il compito di (ri)scrivere il finale - resta ben poco di appassionante.
Quando ci si spaccia per amanti dei libri ma, invece che liberare il desiderio, si passa il tempo a ribadirne la pericolosità, si mente ai libri e ai lettori; quando si mette in scena un superpotere ma non gli si dà modo di far danni ed esigere grandi responsabilità, si mente al cinema e agli spettatori.
Là dove in Lemony Snicket la passione del giovane Klaus per i libri era strumento di soluzione dei problemi della quotidianità, in Inkheart la quotidianità è il sogno e i libri sono il problema. Sono belli solo se non letti ad alta voce, come belli e inutili ai fini della storia sono i personaggi che la popolano: il coccodrillo di "Peter Pan", l'unicorno, l'adolescente scappato da "Le Mille e una Notte" e la terribile Ombra, sorta di potteriano gigante dissennatore.
Il romanzo di Cornelia Funke, primo di una trilogia, ipotizza l'esistenza di narratori in grado di gettare un incantesimo sul pubblico con la sola pronuncia della parole, malauguratamente, però, il film diretto da Iain Softley ha a disposizione tutti gli ingredienti ma non sa compiere l'incantesimo. Il cast ha dell'incredibile, il resto no.

Killer Elite (2011) Killer Elite (2011)
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Gary McKendry è al suo esordio nel lungometraggio dopo aver diretto diversi spot pubblicitari e un cortometraggio che ha ricevuto la nomination per l'Oscar. Per questa sua opera prima si rifà a un libro scritto da Ranulph Fiennes che si basa su vicende che l'autore (citato anche nel film) dichiara come realmente accadute quando lavorava per l'esercito britannico e per il SAS (Special Air Service). Il libro, edito nel 1991, creò molteplici polemiche in Gran Bretagna.
In questi casi il riferimento vero o presunto al reale è però secondario così come accadde per Confessioni di una mente pericolosa che attrasse un George Clooney anch'egli all'esordio dietro la macchina da presa proprio per il labile confine che sussisteva tra riferimento a fatti reali e invenzione pura nella biografia di riferimento. McKendry rispetta i canoni classici sin dall'inizio con quel bambino dal volto insanguinato che ricorda da vicino il ragazzino ucciso per sbaglio dal killer interpretato da Colin Farrell in In Bruges.
La presenza di De Niro e i numerosi inseguimenti in auto fanno poi tornare alla mente Ronin di John Frankenheimer. In questa occasione però la star hollywoodiana si ritaglia un ruolo di contorno che emerge nell'ultima parte della narrazione e gli permette di lavorare su quell'understatement che è ancora uno dei suoi punti di forza.
Il film impernia il plot sull'azione da compiere che implica il confronto tra due gruppi specializzati in azioni rischiose e complesse. Jason Statham e Clive Owen sono decisamente funzionali ai rispettivi ruoli con la differenza che al primo viene narrativamente offerto un background psicologico maggiore. Ciò che poi crea attenzione nello spettatore appassionato al genere è il fatto che attorno al settantacinquesimo minuto l'intera missione sembra essersi conclusa ma restano ancora 40 minuti di film. È a questo punto che la sceneggiatura compie lo scatto in più passando a un livello inatteso che implica un mutamento sostanziale della vicenda ampliandone la dinamica.

Il mio grosso grasso matrimonio greco - My Big Fat Greek Wedding (2002) Il mio grosso grasso matrimonio greco (2002)
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La produzione fa sapere che si tratta "della commedia romantica che ha incassato di più nella storia del cinema USA, più di Pretty Woman, più di Notting Hill, più di Bridget Jones. In effetti il film è costruito con tutti, proprio tutti i possibili ammiccamenti al pubblico. Sai che tutto finirà bene, che tutti i nodi saranno sciolti, che tutto andrà per il meglio. Sei sempre rassicurato. Sai come si comporteranno tutti i personaggi, sai che i genitori del ragazzo, perplessi, schizzinosi all'inizio, alla fine saranno conquistati dalla pittoresca -e tanto non convenzionale da essere convenzionale- famiglia greca.

Lei è troppo per me - She's Out of My League (2010) Lei è troppo per me (2010)
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Opera prima di Jim Field Smith, Lei è troppo per me è una commedia sentimentale che riflette sul pregiudizio indotto dalla bellezza o dall'esserne privi. I due protagonisti incarnano sullo schermo la bella e il nerd, condizioni esistenziali contrarie (eppure scopriremo compatibili) che subiscono nel film lo stesso trattamento. Il felice debutto del regista inglese chiamato alla corte di Hollywood lavora sull'accoglienza riservata dal mondo a coloro che sono ordinari o straordinari. Kirk è il ragazzo più mite e pavido del mondo che porta con gravità l'impegno di una faccia indifferente e di un profilo debole, Molly è una giovane donna raffinata che infonde nella pienezza greve della carne una candida levità. Per caso o per azzardo si incontrano in un non luogo, l'aeroporto in cui è occupato lui, e si piacciono contro ogni convenzione, che vuole il nerd introverso e misantropo e la pupa preda d'elezione del ragazzone di turno.
Di fatto, secondo inflessibile clichè di genere, Kirk e Molly impersonano la coppia che non può stare insieme. Nell'eccezione, che contravviene la regola fissata dalla romantic comedy, sta allora l'eccezionalità di questo film che lavora per innamorare le parti altrove destinate a ignorarsi. Per confrontare credibilmente i due mondi, Kirk dovrà necessariamente scoprire di essere più attraente di quanto abbia mai stimato e Molly di essere meno perfetta di quanto sia mai stata giudicata. La ricerca della misura e il tentativo degli amanti di pareggiare lo svantaggio o di accorciare il vantaggio producono da una parte una commedia improntata sulla relazione ideale e dall'altra una comicità bassamente corporale, che sembra omaggiare il cinema politically uncorrect dei fratelli Farrelly.
Alla fine in Lei è troppo per me sarà però la commedia a soppiantare il comico. Kirk si assumerà la responsabilità della crescita superando la condizione infantile di eterno nerd single. E reprimendo la sua prossima erezione volerà con la sua bionda verso il più rosso dei tramonti.

Sex and the City (2008) Sex and the City (2008)
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Quattro anni dopo l'ultimo episodio della sesta ed ultima stagione, le "ragazze" di Sex and the City , capitanate da Sarah Jessica Parker, sbarcano al cinema, con un aumentato bagaglio di anni, scarpe e segreti da raccontarsi e da raccontare.
Scritto e diretto da Michel Patrick King, perché quel che è giusto è giusto, Sex and the City centra il bersaglio: con grande rispetto dei seguaci della serie, non riprende l'abc del "vivere da single nella città della moda e dell'amore" e nemmeno si contorce per far rientrare il capitolo cinematografico dentro la domanda della settimana, come faceva, con squisitezza architettonica di sceneggiatura, l'episodio tv, ma si lancia in una vera e propria nuova stagione, condensandola in tre atti che hanno il sapore di tre ricche puntate visionate una di fila all'altra, in sintonia con il modo di fruizione del momento (concesso dalla rete e dai dvd).
Lungi dall'essere una minestra (di noodles) riscaldata, il film è dunque "up to date" e insieme un classico nato, summa di una grande città - New York, da Brooklyn a Park Avenue -, di grandi temi - tradimento, perdono, legami e paura degli stessi, indipendenza sentimentale e tendenza recidiva a credere alla favola - e di grandi griffe, da Vera Wang a Oscar de la Renta, da Manolo Blahnik a Vivienne Westwood.
La menzionata nuova stagione è quella dei quarant'anni, buoni per pagare da bere, come i venti lo sono stati per divertirsi e i trenta per imparare la lezione. Le quattro eroine sono alle prese con la declinazione del verbo "ricominciare", ognuna a suo modo, che sarebbe un sacrilegio svelare qui. Sempre all'insegna dell'intelligenza, della sana ambizione, del dialogo brillante e smaliziato (ma la presenza della piccola Lily funge da censore), il percorso del film non dimentica la morale o, per dirla diversamente, il risultato della lezione di autocoscienza, e sposta in secondo piano il superattico, il super abito e la super macchina per celebrare il matrimonio tra autenticità e semplicità.
Più romantico che graffiante, Sex and the City si regge in equilibrio su un tacco a spillo e così dovrebbe restare, fermo, come il pezzo di moda che finisce (sempre più spesso) al museo. La sola idea di un sequel equivale ad uno sgambetto e gli spezzerebbe le caviglie.