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Latest reviews:

Il quarto tipo - The Fourth Kind (2009) Il quarto tipo (2009)
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È interessante notare come, negli ultimi tempi, dopo il pionieristico Blair Witch Project, l'horror miri spesso a dare l'illusione che quelli che vediamo sono orrori reali, ottenuti in modo confuso o casuale da testimoni che non si aspettavano di fronteggiarli. Rec - La paura in diretta e Rec 2, Diary of the Dead, Cloverfield, Paranormal Activity sono altri esempi di questa tendenza. Il pubblico sa che il "reale" è finto, ma è interessato a vivere l'illusione.
Immerso in un clima plumbeo e cupo, Il quarto tipo utilizza in modo efficace le desolate scenografie naturali per generare un senso di solitudine e smarrimento. Ma è anche un film claustrofobico, spesso confinato nei piccoli spazi degli studi, degli uffici, delle camere che sembrano preda di qualcosa di sfuggente e terribile. L'atmosfera che il film crea anche mediante la sua particolare struttura - da peculiare docudrama - è talvolta efficace, ma supplisce solo in parte alle carenze narrative. Il film tenta di creare suspense e mistero attraverso l'iterazione di momenti ripetitivi - le varie ipnosi, per esempio - ma non riesce ad arrivare al dunque, resta in superficie, accumula fatti senza uno sviluppo narrativo che superi la prevedibilità.
Viene tentato qualche approfondimento psicologico accennando ai problemi di Abbey con i figli: dopo la morte di Will, la piccola Ashley è diventata cieca, mentre il fratello Ronnie ha sviluppato una forte ostilità verso la mamma. Però più che rappresentativi del lato umano del personaggio, questi problemi sono visti come meri ostacoli alla ricerca della verità, che è in fondo l'unica cosa che la protagonista sembra davvero volere.
Lo split-screen è usato più volte per far vedere in parallelo le immagini "reali" e quelle ricreate. La ricerca di realismo è però futile. Produce soprattutto immagini screziate per simulare riprese amatoriali e ondeggiamenti ubriachi della camera che ormai non sono più una novità. Un paio di "spaventi" non mancano, ma sono il minimo sindacale in un horror. In certi momenti si ha la sensazione di una curiosa contaminatio tra il filone fantahorror e quello esorcistico per le conseguenze della "possessione" aliena, ma non ci sono sviluppi adeguati. La svolta finale in un accenno riecheggia confusamente quella mistico-pessimistica di L'astronave degli esseri perduti, ma è probabile che, dopo tanto montare la storia e il suo mistero, la conclusione del film provochi soprattutto delusione nello spettatore.
Nella fase terminale della guerra fredda, gli alieni - metafora di un ordine sociale diverso - cominciavano a essere visti, soprattutto nei film di Spielberg, come qualcosa con cui si poteva trattare. Ora, quando taluni vedono profilarsi un altro scontro di civiltà, sono tornati a rappresentare quel diverso minaccioso con cui non è possibile confronto. Dal punto di vista sociopolitico ciò non è confortante, da quello dell'intrattenimento dipende dai casi. In questo, le cose non funzionano troppo.
Milla Jovovich si sforza di farsi prendere sul serio come attrice: qualcuno deve averle detto di recitare per sottrazione, ma il risultato è la monotonia espressiva.

Una separazione - A Separation (2011) Una separazione (2011)
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Nader e Simin sono una coppia borghese in crisi. Lei torna dai suoi e lui, per curare il padre non autosufficiente, assume Razieh, religiosissima donna del popolo. Dopo una discussione con Nader, Razieh perde il bambino che ha in grembo: interviene suo marito, l’irruente Hodjat, e inizia una sfibrante serie di accuse incrociate tra le due famiglie. Un soggetto semplice e lineare sulla base del quale Farhadi ha costruito un sceneggiatura di incantevole equilibrio e un film di grande qualità che con ogni merito ha fatto incetta di premi all’ultimo Festival di Berlino (Orso d’oro e affermazione collettiva degli interpreti che si sono divisi i premi per la recitazione). Merito del grande ritmo che il regista ha saputo imprimere, grazie a un’ottima scrittura di dialoghi mai banali e a un lavoro continuo di camera a mano, che segue per la maggior parte del tempo i personaggi cogliendone ogni sfumatura. Sono soprattutto le donne a essere protagoniste, più duttili e comprensive al confronto di uomini che, pur in maniera diversa, dimostrano la propria cocciutaggine. In ogni caso, la ragione e, soprattutto, i torti non sono mai da una parte sola: non pare un caso, allora, che testimoni di tutta la faccenda siano gli sguardi delle figlie delle due coppie, soprattutto la preadolescente Termeh (interpretata dalla figlia del regista, Sarina) che, dopo aver potuto sperimentare chi siano davvero i suoi genitori, sarà libera di scegliere tra continuare a vivere con Nader o con Simin. Il film è ambientato a Teheran, che però quasi non si scorge, considerata l’assoluta preponderanza degli interni: in fondo, a parte alcuni aspetti di contesto più specifici, la storia potrebbe svolgersi in tante altre città, anche Napoli ad esempio (la mimica dei personaggi certo aiuta). Fra gli ‘aspetti di contesto’, c’è anche il velo per le donne, indossato sempre, anche in casa: una concessione per non doversi scontrare con la censura ammessa da Farhadi, che poi è andato a cercarsi qualche guaio con il regime parlandone e ricordando, proprio in occasione della premiazione alla Berlinale, il collega e amico Panahi, ancora nelle carceri iraniane.

Revenge (2018) Revenge (2018)
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Film di dichiarata vendetta, Revenge è a metà tra l'exploitation e il femminismo, due cose in aperto contrasto. La vendetta, infatti, non è solo della protagonista sui maschi ma pure idealmente dello sguardo femminile sull'exploitation. La regista e sceneggiatrice francese Coralie Fargeat, qui all'opera prima, firma con gran classe una intelligente e divertente provocazione.

Il genio della truffa - Matchstick Men (2003) Il genio della truffa (2003)
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Matchstick Men è una commedia lontanissima dai kolossal di Scott con un solo effetto speciale: una scena di allucinazione. Costruito con una sceneggiatura di ferro (battute esilaranti e ritmo perfetto), ricco di colpi di scena, il film vuole mettere in scena il lato comico delle manie e delle deviazioni dei comportamenti umani. Il regista schiva con leggerezza le trappole del cinema americano contemporaneo, senza perdere la lucidità nel descrivere la sotterranea corruzione dell'Occidente

Criminal (2016) Criminal (2016)
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Anziché raccontare la vicenda, più solita, di come un essere umano viene vessato e brutalizzato psicologicamente al punto da non provare più alcuna emozione e regredire ad uno stato animalesco in cui il male subito si restituisce senza indugio duplicato, Criminal, pur accennando a questo come ad un antefatto presente, si cimenta nel racconto inverso, di come un uomo possa ricominciare a sentire e a scegliere il bene, nonostante una base di presupposti mentali e culturali contrari. Basta veramente poco, però, per intuire che, da qualsiasi verso si guardi il percorso, l'intento è comune ed è un intento morale, nel migliore dei casi, se va male, moraleggiante. Ci spiace, dunque, se nell'intenzione di regista e sceneggiatori c'era una sorpresa di sorta, ma non crediamo nemmeno un minuto alla log line promozionale che vorrebbe Kevin Kostner per la prima volta nei panni di un super cattivo: non solo non ci inganna, ma non è nemmeno "disegnato così".
Eppure, l'intrattenimento offerto dal film è tutto lì, nel cattivone che comincia a sciogliersi, nei grugniti del condannato a morte che si fanno improvvisamente parole pronunciate con perfetto accento francese o ringraziamenti di cui il malcapitato non conosceva nemmeno l'esistenza. In questi frangenti il film ha un sapore noto ma pur sempre efficace e Kostner può riproporre con successo il suo sguardo sofferto e malinconico, quella solitudine che faceva innamorare il pubblico nella sua golden age e torna a dire che non ha esaurito tutte le cartucce.
Il problema è che, a sorreggere questo delicato equilibrio e questo accenno di commedia dei sentimenti, occorreva un thriller credibile, che ne facesse una parentesi molle dentro un meccanismo di ferro e di genere, ma proprio qui il film di Ariel Vromen fa acqua, non solo per il pressapochismo della parte fantascientifica (siamo nell'ordine degli stessi temi e problemi di Self/Less di Tarsem Singh, complice lo stesso Ryan Reynolds) ma anche perché non si era mai visto, per esempio, un capo dalla CIA tanto imbranato e un Gary Oldman di conseguenza tanto impacciato. Le code inutili e i facili sentimentalismi prendono a questo punto il sopravvento con disinvoltura, scombinando del tutto gli equilibri ideali del film.

The Iron Lady (2011) The Iron Lady (2011)
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Se si può solo restare ammirati da un talento che non scema e anzi probabilmente cresce, come quello di Meryl Streep, qui nella performance che ne farà un'icona elevata alla seconda, il resto del film controbilancia tanto entusiasmo e si dispiega su un binario pianamente biografico: pianeggianti sono, infatti, la regia di Phyllida Loyd e la scrittura di Abi Morgan, forse più felice in sede televisiva che cinematografica.
Le idee di fondo sono due: da un lato, l'adozione di una focalizzazione interna, vale a dire del punto di vista della protagonista, in modo da sospendere (o quasi) ogni giudizio esterno sul suo operato politico; dall'altro l'idea di raccontare la Thatcher anziana, preda di una malattia progressiva e allucinogena che le fa mescolare il presente ai ricordi del passato, kronos e kairos, e in questo modo la costringe a ripercorrere una vita e a fare un bilancio (solo) in parte doloroso di se stessa.
Non c'è dubbio che lo sguardo sul personaggio esca da un lavaggio con dosi massicce di ammorbidente, ma parlare di agiografia non è onesto, perché man mano che il film procede la determinazione della giovane Margaret Roberts lascia sempre più chiaramente il posto alla cecità di una donna che obbedisce ad una convinzione monomaniacale (no al compromesso, in nessun caso), mandando per questo a morire la sua gente e mettendo in ginocchio una nazione. È un passaggio silenzioso ma presente. E tra le righe bisognerebbe leggere almeno un altro dato che il film non commenta: la sua rielezione da parte dei cittadini brittanici per ben tre mandati, nonostante fosse la donna più odiata del mondo.
Al di là di trucco e parrucco, The Iron Lady ha dunque una sua ragione d'interesse non solo in Jim Broadbent, che si conferma un efficacissimo salvagente, ma soprattutto fuori dallo schermo, oggi che l'Inghilterra non è meno Broken England di allora e di certo non è la sola. La confusione tra passato e presente potrebbe non essere solo un espediente di scrittura, ma affondare qualche volontaria radice nella realtà.

Prima o poi me lo sposo - The Wedding Singer (1998) Prima o poi me lo sposo (1998)
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Come mille altre volte al cinema (e in tv). Con la variante di un Buscemi non accreditato che canta e un Billy Idol a fare da vecchia gloria ospite.

Defiance - I giorni del coraggio - Defiance (2008) Defiance - I giorni del coraggio (2008)
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Film d'intrattenimento per costruzione e di riflessione per contenuto, si appoggia ad una storia vera importante ma non ne indaga né per scelta né per sbaglio le nascoste profondità, piuttosto mostra e, facendolo, problematizza. Solido prodotto d'azione, sfrutta il contenitore del genere per poter parlare fuori di polemica. Zwick, che non è tipo da tirarsi indietro e in Blood Diamond aveva sporcato DiCaprio nel nome di una denuncia che chiedeva visibilità, con Defiance mette in scena - nel confronto tra Tuvia e il rabbino del ghetto, ma non solo- la disputa di chi si chiede se gli ebrei non avrebbero fatto meglio a resistere e risponde con un episodio di resistenza estrema, ci dice delle donne che volevano una pistola per potersi difendere da sole e della fatica fatta per aprirsi un varco nelle acque, perché non tutti sono Mosé, ma tutti hanno il diritto di provare a raggiungere l'altra riva.
Peccato che nel film tutto avvenga come ci attendiamo che avvenga, che il violino suoni sempre a proposito, l'amore si faccia strada discreto, la retorica s'insinui nel dialogo, la debolezza del protagonista non duri mai più di un minuto d'orologio.
Come già nell'Ultimo Samurai, però, la forza che muove il protagonista è dilagante, nasce da un eccesso di violenza che macchia l'anima, supera la razionalità, la scarta, e assurge a mito, pur nascendo e restando una forza innanzitutto fisica, che lo spettacolo cinematografico dispiega e omaggia. In Defiance questo discorso si fa in due e s'incarna nei corpi di Daniel Craig (Tuvia) e Liev Schreiber (Zus), senza dispersione ma anzi giocando al raddoppio. La storia di come queste due forze della natura tengono faticosamente a bada la tentazione e trasformano una vendetta in un preciso progetto di salvezza è il cuore emotivo del film e regala gli squarci più interessanti, come quando Tuvia si lascia convincere dall'intellettuale del gruppo che non basta organizzare la divisione del lavoro ma occorre nutrire il senso di comunità e sale timidamente sul cavallo del condottiero, in un moto di coraggio.

Ember - Il mistero della città di luce - City of Ember (2008) Ember - Il mistero della città di luce (2008)
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Ember - Il mistero della città di luce è un racconto di (ri)fondazione che narra di come due giovani, trovandosi in eredità una società imperfetta -corrotta, istupidita, letteralmente accecata- si mettono in gioco per migliorarla, sfidando la proibizione e andando ad osservare il mondo al di fuori del loro. Così facendo disobbediscono imperdonabilmente al giuramento che vorrebbe l'artificiale Ember "l'unica luce in un mondo di tenebre". Quest'idea progressista si esplicita in una metafora più che mai natalizia e quasi didascalica per cui al termine della caccia al tesoro dei due protagonisti c'è la promessa di una luce vera e di una rinascita collettiva.
Il nuovo millennio è arrivato ma non c'è dubbio alcuno che viviamo ancora un'atmosfera fin de siècle, speriamo che ci sia un nuovo inizio alle porte ma non abbiamo ancora trovato le chiavi. Il film di Gil Kenan sembra dirci che lo strumento magico di questa umana ricerca sono le relazioni, cadute in disuso o temute (perché, per esempio, non è il caso di raggiungere la casa di un amico quando lungo la strada può sorprenderti un blackout): non per niente Lina è una messaggera e Doon un addetto alle tubature (la rete), mentre la nonna di Lina vive in un negozio di lana che altro non è se non un enorme groviglio, un'architettura di cui si è perso il senso, sineddoche della città abbandonata dai costruttori al suo destino.
Tratto dal romanzo di Jeanne DuPrau, scritto negli anni Ottanta ma frutto del ricordo giovanile della scrittrice di un'era di paura legata allo spettro del nucleare, Ember non scomoda un paragone con il Village di Shyamalan né con le dark stories di Tim Burton sceneggiate dalla stessa Caroline Thompson che ha trasformato il libro della DuPrau in film. Si situa al di sotto, fantasioso nel concepire l'idea di una città che ha superato la data di scadenza, suggestivo nell'impianto visivo, ma imperdonabile nelle motivazioni iniziali, vaghe, e nella coincidenza finale, inverosimile. Non si fa.

Masterminds - I geni della truffa - Masterminds (2016) Masterminds - I geni della truffa (2016)
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Ispirato alla reale rapina avvenuta alla Loomis Fargo nel 1997, il rocambolesco colpo sembra nascere come totale fallimento fin dal principio, con protagonisti talmente inetti da lasciare increduli di fronte a improbabili accadimenti che sanno più di coincidenze che di una rapina studiata per andare a segno. Con il romanticismo che contraddistingue l'ingenuo protagonista, Jared Hess confeziona un film in cui vorrebbe dar voce ancora una volta ad eroi improbabili nel loro essere ultimi, tristi e inappagati in una società di vincenti. A emergere però in questo caso non è la visione autoriale del regista quanto più la gag tesa alla dimensione caricaturale della commedia americana, in cui è totalmente assente una forza creativa eccellente, piegata agli istinti più immediati e bassi del pubblico. Una quasi moglie di David - ingombrante e sociopatica - è unica perla rara di cui si nutre la componente meno superficiale dell'opera, raccontando di un modus vivendi inappropriato e inconsapevole, riconducibile alla visione bizzarra e insieme tenera tipica del regista, che va man mano perdendosi dietro sketch abbastanza dozzinali. La marginalità del protagonista suscita solo a tratti la compassione che in casi come Gentlemen Broncos lasciava la freddura in equilibrio sul registro grottesco. I personaggi, gli ultimi, i disadattati, qui vengono trattati come tali, facendo emergere una sensibilità costruita ad hoc su un soggetto che, pur avendone la possibilità, non ha niente di originale neanche quando vorrebbe farsi parodia degli abilmente citati action-movie.
Con una messinscena in cui vige comunque una certa attenzione al dettaglio, Zach Galifianakis - il tenero e sensibile David- appare l'unico in grado di far guadagnare al film in termini di credibilità. Tra pallottole vaganti e improbabili lotte a colpi di crema vaginale, i seppur esilaranti equivoci e le gag già viste si susseguono cancellando la possibilità per il film di diventare cult soggetto all'originale citazionismo futuro.

Notizie dal mondo - News of the World (2020) Notizie dal mondo (2020)
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Tratto da un romanzo del 2016 di Pauletta Jiles, il western che Paul Greengrass ha diretto per la Universal Pictures e Netflix aggiorna alla contemporaneità un genere fuori dal tempo, tra echi del trumpismo e la questione delle origini di una nazione.
In Notizie dal mondo, western tradizionale e monumentale nonostante la normalizzazione stilistica del cinema ipercinetico di Greengrass, la presenza di Tom Hanks è qualcosa in più della semplice adesione al progetto di una star: è un tramite, la garanzia dell'efficacia del processo democratico che a fine XIX secolo portò all'integrazione degli stati del sud nell'unione e oggi, nel XXI secolo, gestisce le pulsioni razziste e anti-statali della destra eversiva.
Da sempre incarnazione dei valori paternalisti dell'ideologia americana, Hanks interpreta la parte di un messaggero; non un giornalista e nemmeno un semplice lettore, ma un uomo d'ordine e un divulgatore; un vinto integratosi nel nuovo sistema dei vincitori e in grado sia di capire il malcontento della popolazione del sud, sia di frenarne gli istinti selvaggi.
La casa del capitano Kidd è la strada, quel paesaggio americano piatto e desertico che secondo la tradizione del western (viene in mente il cinema di William Wellman) è uno spazio da attraversare e conquistare, laddove per le tribù di nativi è invece un tutt'uno con il cielo e la natura. Allo stesso modo, la famiglia dell'uomo, cancellata dalla guerra ormai terminata da cinque anni, è un mondo da riformare e riscrivere grazie all'incontro con Johanna, bambina angelica e insieme selvaggia (la bravissima Helena Zengel) che apre a una lettura chiaramente simbolica della vicenda.

Another Cinderella Story (2008) Another Cinderella Story (2008)
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Negli ultimi anni la combinazione teenager e musica si è rivelata vincente. Non fa eccezione questo musical, ennesima variazione sul tema della fiaba di Cenerentola.

Take Shelter (2011) Take Shelter (2011)
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Già passato con successo al festival di Cannes, questo film di Jeff Nichols illustra con sorprendente potenza visiva e notevole senso per l'atmosfera la psiche deviata dell'uomo qualunque, spaventato da forze che gli sono oscure e allo stesso tempo tangibili. Il senso di minaccia che la fotografia, le musiche stridenti e gli effetti speciali efficaci nella loro semplicità restituiscono allo spettatore è immediato e angosciante. La progressione drammatica della vicenda è precisa e funzionale, e subisce pochissime cadute di tensione o ritmo narrativo. A supportare il film con una prova d'attore notevolissima è Michael Shannon, interprete che sembra ormai specializzato in personaggi dalla psicologia disturbata: rispetto a lungometraggi come Bug, Revolutionary Road o la serie TV Boardwalk Empire però l'attore riesce a sfumare ulteriormente la sua prova, costruendo una figura che capisce di essere in difficoltà e per questo è ancora più drammatica. Invece di rappresentare un uomo che cede alla follia, Shannon dipinge il suo Curtis LaForche come una persona che comprende di essere malato e in qualche modo affronta le proprie paranoie. I momenti più belli, più toccanti di Take Shelter sono proprio quelli in cui il protagonista sofferente lotta con il cuore contro i fantasmi della sua mente distorta. Accanto a Shannon troviamo un'intensa Jessica Chastain, sicuramente la scoperta del 2011, perfetta nella sua semplicità ma capace allo stesso tempo di infondere spessore al suo ruolo nei momenti che contano. Da segnalare nel cast anche la presenza di ottimi caratteristi come Shea Wingham, Ray McKinnon e Kathy Baker.
L'anima dell'America è ancora ferita, si sente ancora assediata e sotto attacco. Il nemico è sempre più oscuro, non ha un volto preciso, ormai è diventata una sorta di entità minacciosa. Take Shelter in filigrana racconta l'ossessione americana di sicurezza, e lo fa con un senso del cinema d'impatto molto forte ma mai eccessivo. Il film possiede una notevole forza drammatica, sa irretire il pubblico e immergerlo nella storia personale del suo personaggio principale. E poi c'è il finale poderoso nel suo essere enigmatico e insieme profetico: cosa provoca la paranoia in una persona? Quanto sono lontane dall'essere reali le minacce che si insinuano nella mente di un uomo? Domande senza risposta, perché oggi a regnare è il dubbio.

Primo contatto - Star Trek: First Contact (1996) Primo contatto (1996)
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Il secondo tentativo è quello giusto: come già acaduta con ‘L’ira di Khan’, seconda avventura del gruppo originale, anche per la il nuovo equipaggio la migliore apparizione sul grande schermo è quella che segue l’esordio in ‘Generazioni’.
Entrambi i film hanno in comune pure una notevole cupezza di fondo qui garantita dalla presenza dei Borg, uomini-macchina avversari che sono stati il vero colpo di genio di TNG.
Ne esce un lavoro più ricco di azione e tensione della media trekkiana al cinema con la storia che si svolge su tre piani – il difficoltoso processo per convincere il pioniere della curvatura Zefram Cochran (un divertito James Cromwell) a volare, la prigionia di data presso la regina Borg (Alice Krige), la lotta di Picard e dell’equipaggio contro i Borg che hanno invaso l’Enterprise – con l’ultimo che risulta prevalente, più efficace e sfoggia una citazione di ‘2001. Odissea nello spazio’ nella camminata sulla superficie della nave.
Frakes conferma amcora una volta di essere assai meglio come regista che come attore bilanciando bene i momenti e le sequenze malgrado gli effetti speciali siano buoni ma non eccezionali: il resto lo fa la recitazione di Stewart che, senza rinunciare al ponte ologrammi in ‘noir’, può giovarsi di un ruolo molto più ‘fisico’ di quello della serie televisiva.

Ritorno a Cold Mountain - Cold Mountain (2003) Ritorno a Cold Mountain (2003)
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Il Sud e la guerra di Secessione continuano a tenere banco (anche nel nuovo millennio) sul grande schermo. Questa volta tocca a Minghella, dopo essersi procurato un bel po` di riconoscimenti con Il paziente inglese (dove ci narrava una guerra piu`recente) affrontare il tema. Lo fa in apertura mostrando di aver appreso la lezione di Braveheart e di Soldato Ryan applicandola alla battaglia di Petersburg che apre il film. Lì viene ferito Inman che, non appena ripresosi, decide di disertare per raggiungere l`amata Ada che sta difendendo con le unghie e con i denti la sua fattoria dopo la morte del padre. A sostenerla con un atteggiamento da maschiaccio una cowgirl di nome Ruby interpretata con spirito dalla Zelwegger. Mentre la Kidman non ha un capello fuori posto (come nei film di una volta) la narrazione procede in alternato narrando del viaggio dell`uno e della lotta dell`altra. Storia di due innamorati che quasi non si conoscono, girata in gran parte in Romania, perche`gli States non sono più quelli di una volta, Cold Mountain vorrebbe essere cinema classico. Talvolta ci illude di esserlo ma poi torna a narrare come la Hollywood di oggi vuole. Minghella, ce lo ha mostrato anche con Ripley sa come si fanno i compromessi. Film d`apertura della Berlinale. Tre stelle per la confezione.

In viaggio con una rock star - Get Him to the Greek (2010) In viaggio con una rock star (2010)
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Nicholas Stoller deve avere fatto una scommessa con se stesso: riuscire a far sì che Russell Brand (che aveva già avuto come coprotagonista molto più contenuto in Non mi scaricare, film che qui omaggia con una clip, ovviamente riferendosi al titolo originale che è Forgetting Sarah Marshall) recitasse se stesso senza inibizione alcuna. Perché se si va a leggere la biografia dell'attore ci si accorge che tra lui e Aldous Snow ci sono molti meno dei classici sei gradi di separazione. Brand si è messo a totale disposizione realizzando al contempo un ritratto ironico ma anche realistico delle sregolatezze di una rockstar. Stoller (che ha Apatow come produttore) sa però bene che sopra le righe bisogna saperci andare e per farlo (spingendo anche in più di un'occasione sul pedale della volgarità) si ha bisogno di un contrappeso in grado di affrontare le situazioni più scabrose con il massimo della leggerezza. Lo trova in Jonah Hill che, ancora una volta, dimostra come si possa recitare il ruolo della 'vittima' senza sfociare inevitabilmente nel grottesco.
Aaron ha avuto l'idea giusta con il boss sbagliato che ora pretende da lui l'impossibile (sottolineato da un counter a tutto schermo che ogni tanto ci ricorda il tempo a disposizione come nel più classico dei thriller). Dovrà infilarsi in una kermesse che rischierà di fargli perdere anche l'affetto della sua compagna. Tutto ciò però per conseguire un risultato che non sarà solo esteriore. Perché aiutare indirettamente qualcuno ad avvertire ciò che cova sotto la cenere dell'esibizionismo può essere una buona azione. Jonah/Aaron con Brand/Aldous questa buona azione la porta a termine. Riuscendo anche a divertire.

Un gelido inverno - Winter's Bone (2010) Un gelido inverno (2010)
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Gli allori del Sundance prediligono le storie ai margini e cingono solitamente la testa del film più programmaticamente lontano da quell'America radical-chic dipinta dal circuito mainstream. Winter's Bone è un perfetto emblema del "Sundance Style": oltre a condividere con gli ultimi vincitori Frozen River e Precious alcuni elementi chiave (rispettivamente, una forte tematizzazione della stagione invernale e un'adolescenza coraggiosa), racconta un contesto miserabile e infausto utilizzando un linguaggio livido e cupo. Tuttavia, tutto il fascino che questa opera è capace di esercitare non fa leva su una storia improntata al forte realismo o su di un'indagine sui ceti più indigenti della provincia montuosa. Al contrario, è nella fosca atmosfera di un vero e proprio thriller che Winter's Bone trova il suo stato ideale. Il film si presenta come un'esplorazione fra le nebbie e la desolazione delle zone montuose del Missouri, ma, di porta in porta, di volto in volto e di minaccia in minaccia, la ricerca del padre da parte della giovane Ree diviene un incubo denso di misteri, di spettri e di risvolti inquietanti.
La giovane Jennifer Lawrence affronta con maturità il ruolo di un'adolescente cresciuta troppo presto per sottostare agli schemi del romanzo di formazione. Da sola, con l'ausilio di qualche ottimo quanto spietato comprimario, affronta la discesa inquietante dentro una fiaba dark che scava a fondo fino a mostrare l'osso della cultura popolare americana. Perché l'elemento di maggior pregio dell'opera di Debra Granik è quello di mostrare una possibile realtà dolorosa e drammatica lavorando intelligentemente su un certo immaginario della provincia americana. Un immaginario in cui confluiscono tanto zotici drogati e pericolosi quanto struggenti ballate di musica country, tanto gli oscuri fondali delle zone paludose quanto la crudele ironia di un sacchetto di plastica contenente resti umani che recita "Have a nice day!".

A cena con un cretino - Dinner for Schmucks (2010) A cena con un cretino (2010)
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C'era una volta La cena dei cretini di Francis Veber grande successo al box office d'Oltralpe, buon esito al nostro e continuità grazie alla versione teatrale fatta propria da numerose compagnie amatoriali e non. Di solito il cinema americano si impadronisce rapidamente dei diritti di questi successi europei e ne fa una versione made in Usa. In questo caso sono trascorsi ben undici anni. Il film francese denunciava una matrice di impianto teatrale e, grazie a un grande caratterista come Jacques Villeret, ormai scomparso, riusciva ad innescare una sorta di meccanismo ad orologeria degno di Feydeau. Anche perché Francis Huster, che interpretava il ruolo ora affidato a Paul Rudd, aveva un compito più facile sostenendo il ruolo di un personaggio detestabile sin dall'inizio. In questa versione invece Tim vuole sì compiacere il capo ma non è un individuo pieno di sé e i guai che gli capitano grazie al fatto di aver accettato l'invito alla cena non sono del tutto meritati.
Come poi spesso accade nei remake americani (uno su tutti Tre scapoli e un bebè rifacimento a stretto giro di ciak di Tre uomini e una culla) ci si pone il problema di 'spiegare'. Ecco allora che la programmata cena che nel film francese restava di là da venire qui invece viene mostrata con quel tanto di grottesco che forse si poteva evitare. Va sottolineata la prestazione di Steve Carell, abile nell'offrire accenti stralunati ma anche una fondamentale umanità al suo personaggio.
Per quanto riguarda le stelle: 2 e mezzo. Nonostante il successo al box office americano solo perché siamo europei e l'entusiasmo di Noam Chomsky, che l'ha definita la miglior commedia dai tempi di Luci della città (probabilmente senza aver visto l'originale) ci sembra eccessivo? Forse. O forse perché al film di Veber ne avevamo date tre.

C'era una volta un'estate - The Way Way Back (2013) C'era una volta un'estate (2013)
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Giusto guardando da un'altra parte rispetto a dove guardano altri Duncan poteva incontrare lo sguardo di Owen, solo stando nel posto che il suo patrigno gli ha assegnato, l'ultimo sedile di una vecchia Buick (che oltre ai sedili davanti e quelli dietro ne ha anche degli altri, ancora più dietro cioè "way way back", rivolti verso il bagagliaio), poteva guardare il mondo da un'altra prospettiva e trovare quelli come lui.
Nella storia del 14enne Duncan che vive un'estate di svolta per la fiducia in se stesso e quindi per il resto della sua vita, gli attori qui esordienti autori Jim Rash e Nat Faxon, infondono una sincerità di sguardo e un'onestà intellettuale in grado di far fare al loro lungometraggio il salto da filmetto adolescenziale (come pare essere stato pensato) a film di formazione.
La poetica del guardare da un'altra parte, essere diversi in un mondo che preme fortissimo per l'omologazione di tutti (specie i ragazzi) al costume imperante, è spesso stata affrontata dal cinema sfruttando toni estremi (la diversità di razza, di preferenza sessuale, di censo e via dicendo), qui invece Duncan è semplicemente un outsider, che non ama raccogliere le sfide (specie quelle lanciategli dal patrigno) nè desidera cambiare come tutti sembrano desiderare per lui.
Nel piccolo mondo che Rash e Faxton dipingono l'essere introversi, la timidezza o anche solo lo strabismo (insomma ogni caratteristica che crea una differenza) sono buoni motivi per accoppiare gli sfigati e così renderli tali, ghettizzati e privati della dignità. Lo si capisce subito, dal fulminante quasi monologo con drink che segna l'entrata in scena di Allison Janney (straordinaria caratterista nel ruolo della vicina di casa) che in quel luogo e in questo film tutti desiderano essere come gli altri e annullare le proprie asperità e che chi non è così sta in un angolo e non parla.
È invece nel Water Wizz, il parco acquatico che pare un microcosmo alternativo, in cui il diverso è parte del sistema, che è possibile scoprire come l'etichettamento sia una pratica di dominio e quanto poco basti per rompere le catene imposte da chi emette giudizi.
Non lesinando in ruffianeria e semplicismi C'era una volta un'estate, appoggiandosi alle idee dal bellissimo Adventureland (precursore del genere commedia adolescenziale & parchi gioco), fa il lavoro di questi piccoli film, diverte moltissimo (con un umorismo sia fisico, sia di parola) e riesce a dire quel che gli preme senza il didascalismo genitoriale delle massime pronunciate come battute enfatiche ma con l'invisibile trasparenza del quotidiano. Per lo spettatore l'impressione è sempre di aver capito da solo le motivazioni dietro ogni evento, come se non ci fosse una sceneggiatura che lavora in questa direzione o dei registi ad orchestrare tutto, come se si assistesse a un racconto di un fatto reale.

Margin Call (2011) Margin Call (2011)
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È una storia nota quella che il film dell'esordiente J.C. Chandor ci racconta. Una storia di cui paghiamo e pagheremo a lungo le conseguenze. Lo fa con i mezzi che il cinema ha a disposizione e con un cast di alto livello capace di trasformare la fiction in una efficace rilettura del vero. Ci aveva già provato (riuscendoci) Oliver Stone con Wall Street - Il denaro non dorme mai. Ci riesce con ancora maggiore efficacia questo film perchè non ha nel proprio bagaglio un precedente successo planetario a cui fare riferimento come invece Stone aveva.
Chandor sceglie la via della didattica grazie a dialoghi efficaci tra cui risultano particolarmente illuminanti quelli che si intrecciano con il boss dei boss John Tuld interpretato da un Jeremy Irons in piena forma luciferina. C'è un mondo là fuori che sta per essere travolto da uno tsunami finanziario senza precedenti per la forma e le modalità. Quegli uomini debbono decidere della sorte dell'umanità dovendo valutare se anteporvi o meno la propria.
Con la fluidità del cinema di denuncia di alto livello a cui il cinema americano riesce periodicamente a fare ritorno Margin Call riesce a farci comprendere come il destino di miliardi di persone finisca con il concentrarsi nelle mani di pochi nonostante tutte le discettazioni sulla democrazia. È nello stupore del giovane Peter come nell'amarezza di segno diverso dei veterani Sam ed Eric che leggiamo l'amara verità dei nostri tempi. Chandor riesce a spiegarcelo (come gli chiede in riunione Tuld) come se lo dovesse far capire a un bambino o a un Golden Retriever. Gli va riconosciuto questo merito non secondario.

Che cosa aspettarsi quando si aspetta - What to Expect When You're Expecting (2012) Che cosa aspettarsi quando si aspetta (2012)
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Molto spesso avere a disposizione una grossa quantità di ingredienti potenzialmente gustosi non significa comunque riuscire a cucinare un piatto prelibato. La metafora gastronomica serve in questo caso per stabilire immediatamente che Che cosa aspettarsi quando si aspetta, il nuovo film di Kirk Jones - i suoi precedenti lavori sono Svegliati Ned, Nanny McPhee e il remake americano di Stanno tutti bene con Robert De Niro - nonostante un cast di "all star" non riesce quasi mai ad interessare lo spettatore.
La pressoché totale assenza dell'alchimia capace di dare sapore alla pietanza è dovuta principalmente all'adattamento del best seller di Heidi Murkoff: la sceneggiatura tratteggia in maniera superficiale personaggi e situazioni, e peggio ancora non tralascia di cospargere molte scene di pesante retorica buonista, come nell'episodio riguardante il problema dell'adozione che vede protagonisti gli imbambolati Jennifer Lopez e Rodrigo Santoro. Le differenti problematiche riguardanti il periodo della gravidanza vengono raccontate in maniera piuttosto banale, sia nei pochissimi momenti seri sia quando si vorrebbe cercare di far ridere il pubblico. Le vicende riguardanti le varie coppie sono legate da un filo narrativo sottilissimo, e questo non sarebbe neppure un ostacolo insormontabile se il senso specifico dell'operazione fosse stato delineato con lucidità. La sensazione sgradevole è che invece si sia adoperata la tematica per costruire una serie di situazioni e scenette da commedia senza avere un quadro totale di cosa si stava realizzando. Jones mette in scena il tutto con poca convinzione, puntando su una confezione stereotipata e così in grado di abbracciare il pubblico più ampio. Alcuni guizzi di regia e una sana "cattiveria" nella messa in scena di almeno un paio di momenti sarebbero stati un notevole tonico per il film.
Se Che cosa aspettarsi quando si aspetta non risulta una totale delusione è dovuto al fatto che, in mezzo a un cast di attori in cui non tutti sembrano sapere bene come si fa commedia, quelli che invece sono capaci a gestire il genere spiccano per bravura ed efficacia. Stiamo parlando di Chris Rock, che si riserva una particina piccola ma esilarante, e della troppo sottovalutata Elizabeth Banks, vera e propria mattatrice del lungometraggio con la sua vena comica sfrontata e umana. Male, malissimo Cameron Diaz, oltretutto pesantemente ritoccata al computer nei primi piani. Perché non concedersi il lusso di un fascino debitore del tempo che passa? Stranamente poco incisiva anche Anna Kendrick, di solito convincente quando si confronta con la commedia dolceamara.
Sfruttando la scia dei prodotti corali come La verità è che non gli piaci abbastanza o Appuntamento con l'amore, questa nuova commedia si rivela assemblata con scarsa ispirazione, e la professionalità di alcuni consumati caratteristi non riesce a salvare del tutto il prodotto dal peggiore dei difetti quando si tratta di cinema leggero: la prevedibilità.

Benvenuti al sud (2010) Benvenuti al sud (2010)
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Fra l'esagono francese e lo stivale italiano, la cartina socio-culturale del pregiudizio appare specularmente rovesciata. In Francia la commedia popolare brama il sole del Mediterraneo e le palme della Costa Azzurra, mentre teme il freddo della Manica e i cieli grigi delle regioni del Nord; in Italia il sogno dell'uomo padano vive all'ombra della Madunina di Milano e rivolge tutte le possibili stigmatizzazioni verso il Sud pigro e parassitario. Da Giù al Nord a Benvenuti al Sud, l'attraversamento delle Alpi dell'"opera buffa" di Dany Boon ristabilisce una connessione fra discesa geografica e declino civile mediante lo stesso percorso bonario e leggero di sovvertimento dello stereotipo. Il film si presenta infatti come un vero e proprio remake nel senso americano del termine: una replica puntuale degli snodi narrativi e delle principali gag dell'originale francese, adattata al linguaggio partenopeo e allo scontro con la cultura meneghina. Nella "traduzione" va persa molta della comicità surreale e strampalata della mimica e delle boutade di Dany Boon e Kad Merad, a favore di tempi comici più in linea con l'impostazione cabarettistica di Claudio Bisio e Alessandro Siani.
L'adattamento scritto da Massimo Gaudioso ricalca e parafrasa laddove serve, lisciando e addolcendo l'eccessivo schematismo della sceneggiatura originale soprattutto nei rapporti fra i vari personaggi. Per il resto, lo sceneggiatore di Gomorra si limita a convertire i vari elementi che caratterizzavano il Nord-Pas de Calais nel loro diretto corrispettivo cilentano (i formaggi puzzolenti diventano mozzarelle di bufala, i distillati alcolici e le birre corpose diventano caffè e limoncelli, mentre la tradizione dei carillon delle torri campanarie si converte nella pirotecnica barocca del folklore campano) e ad aggiungere qualche lieve elemento caricaturale sul razzismo leghista o di autoironia in merito allo stesso film di Garrone. Da parte sua, Luca Miniero aggiunge alla messa in scena piuttosto basica di Dany Boon un certo virtuosismo tecnico e uno spettro di colori più ampio e caldo, in linea con le tonalità della costa cilentana.
In definitiva, laddove ognuno - protagonisti, comprimari, caratteristi e autori - gioca il proprio ruolo a dovere e gestisce senza falli né malizia il gioco leggero della commedia, resta un dato non troppo confortante: il fatto che anche le idee, per ridicolizzare affettuosamente il nostro piccolo paese, abbiamo bisogno di importarle dall'estero.

Smetto quando voglio (2014) Smetto quando voglio (2014)
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Sydney Sibilia, il regista, è un esordiente, giovane salernitano con in testa il sogno del cinema. Smetto quando voglio oltre ad essere un film che intercetta una condizione sociale diffusa, il precariato d'eccellenza, è anche un tuffo vertiginoso nel cinema contemporaneo di genere, soprattutto americano. Questa strana combinazione, ovvero una storia tipica della commedia italiana, certo rivista ai tempi della crisi, messa in scena come fosse un film hollywoodiano è il suo elemento di originalità.
Per essere all'altezza di questo mandato, ed evitare la figuraccia del "vorrei ma non posso", Smetto quando voglio garantisce sin dalle prime inquadrature aeree su di una Roma notturna, che a momenti sembra la Los Angeles, una qualità rilevante. Parliamo della fotografia (una color correction tipo "flou pop", acida e satura), degli effetti speciali (misurati), della regia fresca, del montaggio ritmato e vivace. C'è inoltre un lavoro piuttosto riuscito sui personaggi, ben caratterizzati, soprattutto quando si pesca nel coro, nella banda, nelle seconde linee.
Edoardo Leo, il protagonista, è trascinante, a volte troppo, mentre Valeria Solarino che interpreta la sua fidanzata fa non poca fatica a smussare i caratteri di un personaggio troppo rigido e monocorde. Tutto ben assortito, tranne che a un certo punto il film si ferma, galleggiando sicuro sulle sue premesse per trovare un'accelerazione finale fin troppo vigorosa. È un problema di sceneggiatura, probabilmente.

Frozen (2010) Frozen (2010)
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Se volete godervi appieno la paura che progressivamente vi farà sentire seduti non su delle comode poltrone ma sul ferro ghiacciato del sedile di una seggiovia avrete bisogno di tre cose. Innanzitutto dovrete pazientare per i primi venti minuti che servono a presentare i caratteri dei personaggi: Joe impiccione e spesso fuori misura ma incapace di una relazione stabile, Dan boyfriend di Parker ma piuttosto introverso e la ragazza innamorata e reattiva quanto basta. Sarà poi utile l'esperienza: se vi è già capitato di trovarvi sospesi seduti su una seggiovia per un temporaneo stop (magari dovuto al trasferimento di uno sciatore infortunato) sapete di cosa si sta parlando e cosa si prova. Terzo elemento (ma non ultimo in ordine di importanza) evitate di leggere altri commenti o recensioni oltre a questa 'prima' di vedere il film.
Per il semplice motivo che meno saprete su quanto accade sullo schermo e maggiormente potrete avvertire la sensazione di un disagio che si trasforma in paura nel contesto di una quotidianità 'realistica'. Perché il punto di forza della regia di Adam Green consiste proprio nel prendere le mosse dalla banalità di una gita in montagna per poi progressivamente mettere a nudo le pulsioni più profonde. Certo: forse si potevano approfondire di più le reazioni psicologiche dei protagonisti messi di fronte alla possibilità di una morte atroce. Ma non era questo l'elemento su cui puntare quanto piuttosto quello della banalità delle condizioni per cui chiunque di noi può trovarsi all'improvviso in una situazione che può essere senza vie d'uscita. Green non usa effetti speciali, sospende attori e troupe in aria e si fa perdonare anche qualche inverosimiglianza. Perché complessivamente Frozen adempie al suo compito: raggelarci (magari anche solo per pochi secondi) il sangue nelle vene.

Laguna blu - The Blue Lagoon (1980) Laguna blu (1980)
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Da un best seller (1903) di Henry De Vere Stacpoole, già portato sullo schermo in Inghilterra nel 1949 con Incantesimo nei Mari del Sud. Kleiser, regista buono a poco e capace di tutto, ne ha cavato uno sciropposo fotoromanzo sentimentale, tutto imperniato sull'attesa: quando fornicheranno? Bella fotografia di Nestor Almendros. Seguito da Ritorno alla laguna blu.AUTORE LETTERARIO: Henry De Vere Stacpoole

Paycheck (2003) Paycheck (2003)
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Dopo una prima parte decisamente avvincente (e come potrebbe non esserlo un film tratto da una qualunque delle idee di Philip K. Dick?) il film si fa prevedibile e a tratti scialbo, nonostante la trama sia un crescendo di rivelazioni, inseguimenti e sparatorie - cosa che da John Woo certo non ci si aspetta. Ma il film tutto sommato regge, e diverte. La vera pecca, semmai, è l'ennesima improponibile interpretazione del peggior attore dei nostri tempi, Ben "ho-solo-quest'espressione" Affleck, e la caratterizzazione piuttosto insipida di una mal sfruttata ma sempre brava Uma Thurman.

District B13 (2004) Banlieue 13 (2004)
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Non tragga in inganno l'ambientazione futuribile del film: Banlieue 13 è essenzialmente un action-movie che ripropone vagamente l'intreccio di Escape From New York prendendo spunto - con scelta di dubbio gusto - dalla recente cronaca dell'emarginazione sociale nei quartieri sottoproletari di Parigi. Impostato secondo i modelli dello spettacolo hollywoodiano, è un susseguirsi di rocamboleschi inseguimenti e pirotecniche sparatorie sviluppate a ritmo di videogames, con personaggi convenzionali ed esiti prevedibili. Gli stuntmen rubano la scena ai caricaturali protagonisti e le spericolate inquadrature studiate dal regista Pierre Morel - fotografo di The Transporter e Danny the Dog - correggono in parte l'insufficiente tensione del racconto. Per Besson, autore della sceneggiatura, è un lavoro di routine: obiettivo del film è l'intrattenimento puro e semplice, in linea con le proposte commerciali della Europa Corp.

Old School (2003) Old School (2003)
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Un'altra commedia americana sul mondo del college costellata però di risvolti nostalgici e incentrata sulla sindrome di Peter Pan. Nonostante l'originale (...) cambio di focalizzazione faccia ben sperare, vengono strappati pochi sorrisi in una cornice dove banalità,volgarità spicciola e luoghi comuni trionfano. Solo un brillante e schizzato Will Ferrel (Frank nel film), ruolo azzeccato e alcune gag divertenti, salva la compagnia dal baratro dello zero assoluto. Occasione per riflettere sull'infelicità quotidiana di persone schiave di ciò che "devono" essere? Inno a "godersi la vita"? No, semplicemente ennesimo mediocre prodotto di un filone squallido ma economicamente sicuro.

Lockout (2012) Lockout (2012)
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Stephen St. Leger e James Mather hanno un ruolo che è molto prossimo a quello del prestanome per questo film che porta molteplici firme di Luc Besson. Un giorno qualcuno dovrà impegnarsi a studiare approfonditamente la factory Besson. Ne risulteranno di sicuro dei rilievi interessanti. Si riuscirà, tra l'altro, ad individuare con precisione analitica le strategie registiche e/o produttive con cui il più americano dei registi francesi riesce a imporre sul mercato prodotti di genere, spesso catalogabili come b-movies, che riescono però ad avere quasi sempre un quid che li diversifica dai concorrenti. Perché anche in questo Lockout ci viene chiesto in maniera perentoria di sospendere l'incredulità sin dalla prima sequenza in cui il protagonista riceve degli sganassoni che neanche Bud Spencer e Terence Hill ai bei tempi.
Tutto è di conseguenza sopra le righe (ivi compresi gli occhi del cattivo che più cattivo non si può) e non ha bisogno di giustificazioni. Anche perché l'ennesimo utilizzo del McGuffin di turno (una valigia) favorisce l'architettura di uno script in cui, quando ci si ferma per un dialogo tra il bruto e la bella, si deve conservare il ritmo. Sempre. Anche nelle situazioni più pericolose.

Tata Matilda e il grande botto - Nanny McPhee and the Big Bang (2010) Tata Matilda e il grande botto (2010)
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Dopo i sette figli del vedovo signor Brown, Tata Matilda -altrimenti nota come Nanny McPhee- torna a colpire il suolo col suo bastone magico per far apprendere ai tre Green e ai loro ospiti, Cyril e Celia Grey, le cinque nuove lezioni di cui hanno disperatamente bisogno. La nera bambinaia dell'esercito britannico sa dunque come mettere in ordine i colori fuori posto e abbellirsi a sua volta di riflesso grazie all'amore dei pupilli, non si sa se davvero o solo nel loro sguardo, ma d'altronde la scuola di magia cui s'ispira è quella di Mary Poppins, che alla piccola Jane che chiedeva: è un gioco, vero (mettere a posto la stanza)? Rispondeva: be', dipende dal punto di vista.
Sceneggiato, co-prodotto e interpretato da Emma Thompson, a partire dalla serie di libri "Nurse Matilda" di Christianna Brand, questo secondo capitolo è appassionante nella sua estrema semplicità, teneramente old-fashioned senza essere stucchevole. Il personaggio della protagonista, col suo corvo Edelweiss che da solo cita tutto un universo di riferimento, quello di Tutti insieme appassionatamente, ammantata dell'aura del sacrificio e della disciplina militare, richiama alla memoria sia quel Pomi d'ottone e manici di scopa che con il concept di Mary Poppins ha niente meno che il natale in comune, sia quelle nonne che hanno fatto la guerra, che hanno tenuto a balia o cresciuto figli non loro e di cui stiamo perdendo la memoria.