Dopo parecchi anni Disney torna a fare davvero film per famiglie, rispolverando un brand molto famoso negli anni '70. 35 anni sono passati invano sul fronte della sceneggiatura, che è sempre la stessa ma in fondo perché cambiarla? La formula funziona sempre: un maggiolino simpatico e credibile nella sua umanità, corse, qualche effetto speciale non poi così speciale, comicità slapstick e tanti buoni sentimenti. L'eroina di turno, la teen-star Lindsey Lohan (anch'essa passata dal gommista...) è perfetta per il ruolo, i comprimari sono abbastanza insulsi da farla risaltare sulla scena, i cinefili potrebbero restare basiti nel vedere la china che ha preso la carriera di due grandi come Dillon e Keaton, ma tant'è: per una volta ad annoiarsi saranno i grandi ed è giusto così.
Guns Akimbo è quel film di cui il mondo del cinema aveva davvero bisogno. Lo riassumerei con una sola parola: "divertente".
Perchè Guns Akimbo diverte dall'inizio alla fine, e non importa se per 90 minuti ti chiedi costantemente cosa caspita stai guardando, perche sarà anche folle, ma perfettamente integrato nel mondo del film e mai eccessivo gratuitamente.
Il film è una gioia per gli occhi di chi ama le atmosfere punk. La fotografia spazia dal desaturato e triste delle quotidianità, ai neon blu e rossi delle scene piu violente e relative all'underground. peccato solo che le scene piu belle erano molto scure, niente di fastidioso comunque.
La trama è semplice e forse scontanta, ma a mio avviso volutamente, perche strutturata quasi come un videogioco, quasi a voler sfottere la vita stessa del protagonista che di professione è un progratore di pessimi videogiochi e troll del web. In fin dei conti veicola un messaggio importante, sulla violenza intrinseca e ignorante dello spettatore medio del web.
La regia, la definirei eccitante, la cui peculiarità maggiore risiede nelle numerose scene volteggianti, che cercano di farti sentire la sensazione di nausea del progrotagonista nel vivere una situazione spiazzante. Le scene d'azione sono molto coreografiche e fluide, quasi una danza, sanno esaltare. Un po sotto tono le scene in auto, per fortuna non tantissime.
Mi ha fatto tantissimo piacere, come i videogiochi vengono citati, in maniera velata, ma con il rispetto che meritano, tracciando una linea netta tra la violenza e il divertimento che si può provare davanti ad un monitor e la violenza aberrante della vita reale. Uno dei pochi casi al cinema della storia.
E alla fine c'è lui, Daniel Radcliff, tanta stima per lui, che si presta a film di nicchia, mai banali, la sua presenza in questo film è semplicemente perfetta, non potrei immaginare nessun altro.
In conclusione: se volete un po' spegnere il cervello, intrattenervi, e divertirvi in maniera semplice e sincera, e soprattutto amate i videogiochi e le atmosfere punk, questo film è un MUST, e diventerà un piccolo cult.
Essendo di poco più vecchio dei protagonisti, ho vissuto appena uscito dall’adolescenza la stagione difficile piazzata nel mezzo degli anni Ottanta; in compenso, ho sempre cordialmente detestato i Duran Duran, gli Spandau Ballet e tutto il sedicente movimento ‘new romantic’. Non si tratta di un attacco di protagonismo, bensì di precisazioni necessarie a chiarire che non ho guardato ‘Sing street’ con gli occhiali rosa della nostalgia: eppure, seppur musicalmente discutibile, il nuovo lavoro di John Carney si rivela un semi-musical ben girato che non si vergogna di usare i clichè, ma anzi ne sfrutta al meglio le potenzialità, e si vale di interpreti che, pur quasi tutti alle prime armi, danno vita a una prova senza pecche che genera immediata empatia. Come nel precedente ‘Tutto può succedere’, il regista firma un ‘feelgood movie’ in cui la musica è uno strumento per affrontare, o quantomeno rendere sopportabile, la quotidianità: la differenza sta nel fatto che qui non ci sono attori di nome e, soprattutto, nel ritorno a casa da parte dell’autore (sue sono pure la sceneggiatura e, in collaborazione con altri, le canzoni originali) che ambienta gli avvenimenti in un quartiere residenziale di Dublino. A causa dei problemi economici dovuti all’imminente separazione dei genitori (l’istituzione familiare nella cattolicissima Irlanda ne esce malissimo in qualsiasi classe sociale), il giovane Conor, a cui presta il viso da bravo ragazzo l’esordiente Ferdia Walsh-Peelo, finisce in una scuola privata di basso e bigotto livello situata nella quasi eponima Synge street. L’ambiente fa cascare le braccia, ma le circostanze gli regalano l’incontro con Raphina, un’incantevole Lucy Boyton di cui è impossibile non innamorarsi all’istante: per avvicinarla, il giovanotto si inventa di essere in una band e perciò gli tocca metterla insieme in qualche modo. Il gruppetto è raccogliticcio, ma s’impegna e i brani che Conor scrive assieme a Eamon - Mark McKenna pare un Elvis Costello in età scolare - riescono a farsi conoscere forse perché scritti dopo i compulsivi ascolti dei dischi prestati da Brendan (Jack Reynor assai più efficace che nei panni di Malcolm in ‘Macbeth’), il fratello maggiore del protagonista che gli fa (o si atteggia) da maestro di vita e ha la migliore battuta del film: ‘nessuna ragazza può amare davvero uno che ascolta Phil Collins’. Tra alti e bassi, l’umore rimane dolceamaro – ovvero felicetriste, come da traduzione letterale, abbastanza indovinata, di happysad – ma, nello spirito della storia, lo svolgimento rotola verso l’inevitabile lieto fine con un’impennata sopra le righe tanto improbabile quanto in sintonia col tono vagamente fiabesco che pervade la vicenda. Si tratta di un percorso che implica rischi notevoli, ma Carney li evita tenendo sotto controllo un ritmo che non mostra mai momenti di stanca e utilizzando con cura gli elementi di contorno: i dosati movimenti della macchina da presa (la fotografia è di Yaron Orbach) allargano il campo dai primi piani fino a comprendere gli elementi periferici che servono a limitare i voli pindarici, come nella scena della madre di Eamon nella stanza da letto mentre i ragazzi provano oppure il ragazzo che vomita togliendo epicità alla fuga di Conor e Raphina. Sulla stessa linea, si situano i passaggi umoristici o anche solo sorridenti, come nell’estrema volubilità dei gusti musicali di Conor che si riflettono nel suo modo di vestire e atteggiarsi o nel sogno a occhi aperti di star suonando a un ballo di fine anno negli Stati Uniti, magari negli anni Cinquanta, come testimonia l’abbigliamento di Brendan nell’occasione: senza contare che non si capisce mai bene quanto Conor tenga davvero al gruppo e quanto sia solo un mezzo per giungere alla ragazza dei suoi sogni.
Il cinema di Baz Luhrmann è musica per gli occhi. Tutti i suoi film, a ben guardare, sono dei musical: Ballroom si insinuava nel mondo ortodosso del ballo di sala sconvolgendolo con un paso doble esagerato, Romeo+Juliet si consumava in un melodramma virato in incubo acido, Moulin Rouge si esibiva in un rock-mélo imbellettato che guardava alla tradizione hollywoodiana e a quella indiana, mescolando in un ensemble colorato e iperreale azione, dramma, canto e coreografie. Senza essere propriamente un musical, accade anche in Australia che i personaggi parlino con una canzone. "Over the Rainbow" è intonata dalla Lady Sarah della Kidman, indugia sulle labbra di Nullah, suona nell'armonica di un contabile finalmente sobrio, esplode nel cuore del mandriano di Jackman. L'aria più celebre del Mago di Oz è il fil rouge di un kolossal in cui nulla è ritenuto più importante dell'amore, della cura e dei bisogni degli esseri umani.
Il tema dell'amore che si oppone alle regole possessive di un potere contrario è un altro elemento ritornante del cinema di Luhrmann, nascosto dietro i divieti familiari che irretiscono gli adolescenti shakespeariani, fra le bizze di un duca smanioso di una "traviata" Satine o dietro la smoderata ambizione di un barone del bestiame. Nel meraviglioso mondo di Oz, collocato nel cuore dell'Australia, si realizza l'estremismo emotivo, l'eccesso formale e il gigantismo espressivo di un melodramma epico prossimo a Via col vento. Se il kolossal firmato da Fleming, avviato da Cukor e concluso da Wood si dimostrò un prodotto da venditore a dispetto della creatività e dell'autorialità, Australia non smentisce il suo autore e il suo cinema totale e totalizzante, che può essere riempito di qualsiasi storia e di qualsiasi citazione filmica, letteraria, musicale. Sotto il sole e in fondo all'arcobaleno troverete allora una pentola di monete d'oro, di immagini già viste, di accumuli selvaggi, di stridenti (ma mai stonati) accostamenti. Mentre sulla superficie dello schermo si agita una storia tutta cinematografica e si esibisce la materia del narrare, nel secondo piano della visione si denuncia lo scandalo delle "generazioni rubate", un piano governativo del Commonwealth per assimilare gli indigeni nella dominante comunità bianca. Dietro ai mulini a vento, l'autore australiano "protegge" e rivela i bambini (quasi tutti meticci) sottratti alle famiglie e consegnati a istituzioni assistenziali religiose per "sbiancarne" il colore e la cultura. Dichiarando la propria poetica imitativa, che finge di mostrare cose mai viste, Baz Luhrmann esplora la sua terra con sentimento smisurato, smascherando i colonizzatori inglesi che "epurarono il nero" e annullarono il tempo del Sogno degli antenati. Uomini magici che facevano esistere il mondo cantandolo.
Ispirato ad una storia realmente accaduta, il film racconta di una rapina organizzata in una banca londinese nel 1971, per cui non fu arrestato nessun colpevole, una vicenda che in pochi giorni fu insabbiata. Firmato da Roger Donaldson - che ha fatto il suo debutto nel 1977 con Unica regola vincere, che ha diretto in seguito Il Bounty (1984),Senza via di scampo e, più recentemente, La regola del sospetto(2003) -, La rapina perfetta con un sapiente montaggio intreccia e rielabora alcune pagine non troppo gloriose della Storia del Regno Unito che vede coinvolti mafia, Black Power, Servizi Segreti e rampolli della famiglia più in vista della nazione.
Efficace la ricostruzione attenta di una Londra primi anni Settanta, che ne svela il lato oscuro, i retroscena della vita malavitosa, i vizi e le"scarse" virtù di chi sta dietro alle scrivanie del Potere, il clima culturale (tra le "facce" e i personaggi noti che compaiono nella pellicola, la coppia John Lennon eYoko Ono che di lì a breve emigrerà negli States). Un poliziesco ben scritto, da vedere.
Petersen e Clooney raccontano quella storia. I "sei" vanno a pescare come si trattasse di un sortilegio per la vita e per la morte: simboli e metafore. In realtà è solo una battuta di pesca vivacizzata dagli effetti speciali come il sessanta per cento del film. Onde di cento metri, barche, ed elicotteri nell'inferno. Il contorno delle compagne eroiche dei pescatori è ridicolo: fanno sempre la stessa cosa, amano, lo dichiarano, poi si disperano, in ritornello. Solo spettacolare.
Con un soggetto già di per sé delirante, sarebbe stato un miracolo confezionare un film equilibrato. Il regista Antoine Fuqua, dal canto suo, usa la mano pesante e produce una pellicola di un manicheismo talmente fuori da ogni logica da risultare aberrante. Se si aggiungono le non-recitazioni di un Bruce Willis tornato a svolgere un ruolo di action-hero, e di una Monica Bellucci troppo bella per la giungla africana, il risultato è scontato: un film senza capo né coda, banale nello svolgimento, perfino noioso nell'intreccio nonostante esplosioni e colpi di fucile. E dall'epigrafe (in cui si sollecitano "i buoni" all'azione, affinchè il male non trionfi) guarda caso affine al Bush-pensiero. Capolavoro trash, ma cinematograficamente nullo.
Un film che unisce sorpresa e delizia, e racconta una bella storia. Non si sofferma su inutili tematiche, mostra una struttura facilmente seguibile e soprattutto racconta bene una bella storia.
Daniel è come sempre molto bravo, ma non ci sono solo attori bravi qua, c'è anche un'amore raccontato a mo di fiaba, come quelle storie dove quando succede qualcosa di brutto non ci vuoi credere, perchè vuoi che vada tutto bene.
Il regista è stato in grado, dietro un film essenzialmente semplice, di fare un lavoro certosino per dare proprio questa senzazione, quella di essere tornato piccolo e voler tifare per il bene, e perchè la bella e il cavaliere si bacino.
Non fatevi fuorviare dagli effetti speciali, non a livello Marvel, c'è molta più sostanza di quel che sembra.
**Verdetto** : Come ho detto è una storia semplice, quindi non aspettatevi il Padrino, ma se cercate un film che racconta molto bene una storia d'amore e azione, e tiene in serbo due o tre belle sorpresine, questo fa proprio per voi.
**Ottimo per** : Quando si ha voglia di qualcosa di positivo con un pizzico di azione. Perfetto davanti a una pizza piccante
La rivolta delle ex è un viaggio impossibile nel tempo, quello della seconda chance e dell'opportunità riparatrice, che impegna il protagonista a riformulare la propria vita e a compiere il desiderio inesaudito dell'amore. Esperto della commedia romantica metafisica (Se solo fosse vero), Mark Waters replica formula e atmosfera aprendo faglie temporali nel presente di Connor Mead. Percorrendo una via fantastica, il "sogno" del dragueur mai appagato lascerà residui palpabili e tracce nel suo cuore e risarcirà le lacrime versate dalle troppe amanti. La progressione del discorso amoroso tra il cinico Connor di Matthew McConaughey e l'ostinata Jenny di Jennifer Garner, è affidata al fantasma dello zio Wayne, amatore recidivo, morto in solitudine e deciso ad ammonire e redimere l'intraprendente nipote. Se i flashback ripercorrono il passato sentimentale del protagonista, mostrando il vivace campionario femminile desiderato, amato e abbandonato nel corso della sua esistenza, o meglio della sua vocazione, i flashforward gli anticipano un futuro tragico, risultato di un'esistenza spesa a deprezzare le donne. Alla base della sua "cattiva abitudine" c'è un trauma adolescenziale che lo ha reso un seduttore a caccia della quantità e mai della qualità. Una sola volta, al ballo della scuola, gli accadde di soffrire e fu un errore da non ripetere e addirittura esorcizzare. Quell'errore è la donna che Connor ha realmente amato e per cui ha troppa paura di rischiare una terza volta. La prima restò senza fiato, mentre uno spasimante più scaltro invitava Jenny al primo lento e al primo bacio, la seconda batté praticamente in ritirata prima che l'alba li sorprendesse abbracciati "a cucchiaio". L'ironia della prima metà del film, che rianima le memorie screwball (guerra dei sessi, inseguimenti e situazioni imbarazzanti), si disperde sul traguardo, negando l'epilogo amaro e concedendo via di fuga e strategia di riscatto agli amanti, tormentati, lasciati e ritrovati sull'altalena della loro infanzia.
The Watch - questo il titolo originale di Vicini del terzo tipo - dimostra purtroppo come in alcune circostanze molti ingredienti saporiti non sempre alla fine si trasformano in un piatto gustoso. Gli elementi per una commedia esilarante c'erano tutti: uno spunto di partenza potenzialmente esplosivo; un regista proveniente dal più acclamato degli show comici, il Saturday Night Live. Un trio di attori pienamente affermato nel genere come Ben Stiller, Vince Vaughn e Jonah Hill, più un altro emergente e geniale come Richard Ayoade. Tutto questo però come anticipato non basta a far sì che il film trovi una sua vera e propria dimensione comica. Il primo problema è una sceneggiatura eccessivamente verbosa, che si dedica eccessivamente alla ricerca di scene ad effetto dove gli attori possono costruire situazioni e gags adatte ai dettami comici contemporanei, e tralascia quasi totalmente la costruzione di una storia spigliata e incisiva. Messa in scena e montaggio poi non contribuiscono a trovare il ritmo giusto per la narrazione, e così Vicini del terzo tipo stenta a decollare, trascinandosi fino a una conclusione che pur funzionale non innalza però più di tanto il livello di efficacia del prodotto.
Imbottigliati in ruoli non particolarmente originali né scritti con il brio di altre commedie di questo tipo, Stiller, Vaugh e Hill non riescono a regalare al pubblico il meglio delle loro capacità di intrattenitori leggeri. Leggermente meglio riesce a fare Richard Ayoade grazie al suo british touch e al suo tono sempre vagamente surreale. Peccato poi sprecare un talento attoriale importante come quello di Rosemarie DeWitt in un ruolo di puro contorno. Il cinema comico americano di cassetta sa fare molto peggio di Vicini del terzo tipo, ma anche decisamente meglio. Passato attraverso molte riscritture di sceneggiatura e diversi registi, il film sembra non avere un centro ben preciso né un'idea specifica su cosa vuole essere, se un film di fantascienza o una commedia ridanciana. Nel tentativo di cercare di mescolare il tutto, perde una sua fisionomia precisa. Rimane l'intrattenimento superficiale, ma con questo materiale a disposizione era lecito aspettarsi molto di più: un piccolo film con un soggetto simile come l'inglese Attack the Block, regalava agli spettatori una variazione sul tema di ben altra efficacia.
Innegabile che alla base di un'operazione come questa si agitino i fantasmi di decenni di commedia demenziale americana. Se il modello verso il quale si tende, almeno per quanto riguarda l'impaginazione, rimane quello del glorioso e ineguagliato Ridere per ridere, diretto da John Landis, ma scritto dal trio Zucker-Abrahams-Zucker, gli oltre trentacinque anni trascorsi hanno lasciato solchi facilmente rintracciabili. A partire proprio dai fratelli Peter e Bobby Farrelly - che qui guidano la ciurma dei diversi registi - a Judd Apatow e soci fino ad una comicità televisiva masticata e riscritta da internet, Comic Movie ha assorbito modelli e tendenze, facce e tempi, intercettando il gusto del pubblico per la gag fulminea e escrementizia in cui l'irriverenza e la parodia di ieri cedono il passo al riferimento sessuale continuo così come ad un'idiozia sempre più coatta.
Ibrida come tutte le pellicole dirette a più mani, ad episodi riusciti si alternano altri deprimenti, quest'antologia del buonumore volutamente scorretto è inoltre una lunga parata di star hollywoodiane ritratte a corda libera. Perfettamente a loro agio Kate Winslet e Hugh Jackman nell'episodio apripista e altrettanto accordati Liev Schreiber e Naomi Watts, abbastanza sfocato, invece, Richard Gere nel frammento dedicato ad un lettore MP3 dalle fattezze femminili; divertente anche Gerard Butler nei panni di due gnomi fratelli così come Uma Thurman nel ruolo di una Lois Lane che, lasciatasi con Superman, va ad un appuntamento al buio con Batman e Robin. Va ad Halle Berry, comunque, il premio per il ruolo più estremo, un altro incontro al buio si trasforma in una forsennata sfida a "obbligo e verità" con tanto di tatuaggi osceni e chirurgici cambiamenti di fisionomia.
Nel complesso giudicabile come un film da dimenticare, Comic Movie non cerca né l'approvazione del pubblico né il placet della critica. E in questo trova la sua forza.
Prendendo spunto da una serie di libri fantasy (in totale 15), iniziata nel 2002 e finita nel 2008, ad opera della naturalista Kathryn Lasky, Il Regno di Ga'Hoole, sembra l'ennesimo tentativo di far partire una nuova saga dai grandi incassi, dopo gli analoghi esperimenti miseramente falliti di Pusher, Ember o Percy Jackson, con in più la maggiorazione al botteghino del 3D. La scelta di un regista come Zack Snyder, dallo stile caricato, commerciale e a suo agio con la spettacolarità, sembra quindi azzeccata.
La vera sorpresa però è che Il Regno di Ga'Hoole non è solo un divertimento per preadolescenti, target cui il film è palesemente indirizzato, ma anche un sollazzo per gli amanti del cinema.
Se è vero che il regista di 300 si è concesso questa piccola deviazione nel cinema per l'infanzia e nell'animazione computerizzata durante il breve intervallo tra due impegni più grossi (Watchmen e Sucker Punch), è anche indubbio che Il Regno di Ga'Hoole costituisce uno dei suoi exploit più interessanti. Sul cannovaccio di un tipico racconto di formazione all'americana, tra sconfitta e seconda occasione, predestinazione, lotta contro la propria nemesi (in questo caso un fratello, il doppio per eccellenza), contrapposizione manichea di bianco e nero ed elogio di valori virili, Snyder architetta un film che mette da parte le caricature e le sovrimpressioni estreme degli spartani di Leonida (salvo recuperarle nel momento della grande battaglia finale assieme a stupefacenti ralenti da National Geographic) e prende la più improbabile delle decisioni: concentrarsi sui volti dei protagonisti, cioè gufi animati con molto realismo e poche concessioni fumettistiche.
Ma la volontà di guardare in faccia protagonisti che per definizione (e per disegno) sono poco espressivi è solo la prima di una lunga serie di scelte spiazzanti, sulle quali domina quella di girare un film in 3D puntando su luoghi stretti e piani ravvicinati. Contro ogni aspettativa si tratta di una sequela di idee vincenti che riescono a restituire il senso di grande epica di un minimondo, più con la profondità imprevista delle tane dei gufi, degli antri dei malvagi o delle cime di alberi talmente dense di rami da sembrare affollate metropoli, che con quella prevedibile degli ariosi voli.
Con attenta costruzione drammaturgica infine Snyder riesce anche a consegnare al pubblico, tra tanti personaggi che paiono sagome incolori utili solo ad incarnare una funzione (il fato, la provvidenza, le avversità, l'aiuto insperato...), almeno una figura indimenticabile: il grande guerriero Ezylryb, guercio e mezzo monco dopo mille battaglie, quasi impazzito per i colpi presi eppure ancora capace di stupire ed osare, dotato di una punta di follia nichilista che mancava ai 300 spartani e che, distinguendolo dal coro di perfetti soldati che popolano la storia, lo avvicina di più ai drogati di adrenalina del cinema di Kathryn Bigelow.
I fatti sono ben fissati nella memoria e le figure pubbliche fortemente caratterizzati: una combinazione ad alto rischio nella cui trappola i film biografici tendono a cadere. La sceneggiatura di Noah Oppenheim riesce nell’esercizio di equilibrio concentrandosi sui giorni tra Dallas e il funerale di JFK (Caspar Phillipson) così che il lavoro di Larraín può analizzare a fondo i personaggi con al centro i dubbi di Jackie (Natalie Portman), giovane donna dalla vita fortunata che si ritrova a vacillare dopo l’omicidio del marito, amato malgrado i conosciuti difetti.
La visione in lieve flashback attraverso il dialogo con il giornalista senza nome (Billy Crudup) che si ispira una reale intervista rilasciata a ‘Life’ consente un ulteriore filtro oltre al dover soppesare la realtà e la leggenda.
Ne esce un melodramma trattenuto che cresce col passare dei minuti: non è facile sintonizzarsi perché la regia si sforza di trasferire nello spettatore l’oppressione interiore della protagonista riecheggiata nella colonna sonora ansiogena di Mica Levi e nella fotografia autunnale di Stéphane Fontaine, ma il risultato è davvero notevole grazie a una scrittura al limite della perfezione e a una Portman strepitosa: l’immedesimazione va ben al dilà della somiglianza fisica – lo stesso vale per Peter Sarsgaard nei panni di Robert Kennedy – e Larraín se ne giova come meglio non si potrebbe.
In particolare, risultano emozionanti i duetti dell’attrice con John Hurt che, in una delle ultime interpretazioni, dà vita al sacerdote che raccoglie - con un certo scetticismo – la confessione dei tormenti della smarrita Jackie.
Tratto dal successo editoriale dell'esordiente francese Marc Levy, la commedia sentimentale di Mark Waters riesce nella pure ardua impresa di far rimpiangere il Ghost di Patrick Swayze. A cui rimandiamo fosse anche per il coraggio di andare fino in fondo, senza concessioni allo spettatore, che assisteva mesto e straziato alla separazione dei due amanti. Questa volta Hollywood ci solleva dal peso greve della rielaborazione del lutto, che era in fondo l'interessante implicazione drammaturgica di Ghost, rimandandoci a un finale rosa e stucchevole dove naturalmente l'amore trionfa sulla morte. Nell'immaterialità letterale del film, perfidamente funzionale al film, a essere reale è il talento dei due protagonisti: il premio Oscar Reese Witherspoon, che pare trovarsi a suo agio in personaggi che camminano on the line, e Mark Ruffalo, attore drammatico che già in Vizi di famiglia aveva mostrato la sua versatilità e la congenialità alla commedia.
Il grande classico di Disney è del '53. Dunque, quasi mezzo secolo dopo ecco il sequel. Come molto spesso accade i sequel non dovrebbero esistere, ma in questo caso invece l'iniziativa funziona, ed è quasi benemerita. Resta da vedere cos'è rimasto nelle nuove generazioni di giovanissimi dell'ingenuità di allora. Il quesito è infatti, intelligentemente, il nodo del film. I vari personaggi sono cresciuti, Wendy è diventata mamma. Jane, la figlia dodicenne, ascolta con scetticismo i racconti della madre, insomma non crede alla "fantasia". Viene rapita dal solito Uncino sempre pronto a fare il cattivo, e non può essere liberata da Peter Pan proprio in virtù della sua diffidenza. Tutto si accomoda quando Jane scopre, finalmente, il potere della fantasia. E come potrebbe essere altrimenti, se fai parte di un cartone di Disney?
Remake formalmente corretto del Professore fra le nuvole. Realizzato con cura e senso dello spettacolo, il film è - come tutti i prodotti Disney - gradevole e innocuo. L'interpretazione di Williams, divertito e divertente, compensa, in parte, l'assenza della semplicità dell'originale. Irriproponibile la freschezza degli anni '60, il film punta soprattutto sugli effetti speciali. Il "Flubber", sostanza informe verdognola capace di assumere le forme più impensate, trasforma in atleti dei mediocri e timidi dilettanti, fa volare la macchina del professore e si esibisce sullo schermo sdoppiandosi in forme fantasiose e danzando a ritmo di mambo. La novità più originale è costituita, tuttavia, dal robot femmina Weebo, premuroso automa segretamente innamorato del suo inventore, che si sacrifica per la sua felicità rileggendo sullo schermo che ha incorporato spezzoni di celebri film, con intelligenza e passione da cinefilo.In un cameo appare l'attrice Nancy Olson, protagonista insieme con Fred MacMurray del film del 1961.
Gli ingredienti ci sono tutti per fare di [S]ex list un esempio trascurabile della nuova tendenza lanciata dalla commedia romantica americana, con partenza a base di sesso usa e getta anche da parte del mondo femminile, un tempo dententore assoluto del primato dei sentimenti, e finale addolcito dal sapore irrinunciabile dell'innamoramento. Con una sfumatura di colore rosa che mancava tra le incursioni nel genere esplorato da Mark Mylod, in toni demenziali con il film di esordio Ali G e in versione più noir con The Big White.
Una nuova incursione che non porta grandi novità, con una storia che si sa già come andrà a finire nel momento preciso in cui - a pochi minuti dall'inizio - la protagonista (Anna Faris), aprendo la porta di casa, si imbatte nel bel vicino, Colin (Chris Evans), fisico statuario in bella mostra, in fuga anche lui dall'ennesima avventura di una notte. A partire da un'iniziale reciproca solidarietà tra consumatori di sesso occasionale, infatti, i giochi sono presto fatti, tanto che il regista e le due sceneggiatrici (Gabrielle Allen e Jennifer Crittenden) cercano di inventarsi una serie di escamotage disseminati lungo la via del racconto, per arrivare al finale senza troppe inibizioni o sottintesi. Imbastendo una sorta di caccia all'uomo portata avanti dalla protagonista con l'aiuto del suo nuovo amico, appassionato di tecniche investigative, e proponendo una carrellata di personaggi e situazioni che, tutto sommato, tengono sotto controllo il rischio di annoiarsi. Tra flashback che rimandano Ally indietro nel tempo per presentare l'ex di turno e viaggi attraverso l'America per scoprire come e se gli anni lo hanno cambiato. Situazioni che strappano qualche risata, più dei dialoghi a base di battute colorite che suscitano qualche perplessità sulle scelte di doppiaggio, e teneri ammiccamenti con il fascinoso Colin, che come da copione svela poco alla volta la vera personalità della sua "darling" Ally, sullo sfondo di una Boston romantica che ruba la scena ai protagonisti.
Sesso e amore, dunque. Ma anche amore e sesso, secondo tradizione. Perché cambiando l'ordine degli addendi il romanticismo non cambia.
Non è più solo la scrittura della Pixar a riuscire ad incrociare i pubblici, a proporre cartoni per bambini che intrattengano gli adulti con un livello di lettura diverso. Ci prova con tantissimo gusto anche la Warner Animation Group che con Cicogne in Missione replica l'idea vincente di Lego - The Movie, cioè unire demenziale e intelligente, farcire una torta a strati in cui ad ogni piano si possa trovare un pubblico differente.
Non interessato ad una dimensione effettivamente sentimentale, lontano da qualsiasi idea di commozione o di coinvolgimento emotivo, Cicogne in Missione è un film tutto d'intelletto, un trattato sul potere, sulla la sua attrattiva (esilarante la maniera in cui tutti reagiscano con gli stessi pensieri all'idea di una promozione) e sugli effetti che ha sulle persone. O meglio sulle cicogne.
Le cicogne di questo film sono più umane degli uomini, non ne hanno cioè solo sentimenti e difetti come qualsiasi personaggio antropomorfo, ma sono proprio gli uomini. Con un'allegoria molto esile, questi animali votati al commercio e convertiti alla new economy della grande distribuzione, vittime dell'etica del successo e delle strategie aziendali, si presentano quasi subito come più umani degli uomini. A furia di cambiare ed evolversi hanno perso la propria missione originaria e non sanno più chi sono, almeno fino a che qualcuno non glielo riesca a ricordare. Stoller e Sweetland non sono registi di incredibile raffinatezza, eseguono con dovere ma arrancano di fronte alle possibilità di creazione di immagini dell'animazione. Il loro film quindi punta tutto sulla scrittura, dunque a rendere umanissimi questi uccelli è la maniera in cui si maltrattano, sono le debolezze reciproche su cui cercano di fare leva, i difetti che mostrano non individualmente ma collettivamente. Come specie.
Cicogne in Missione si ricorda bene come Disney abbia prosperato decenni grazie ad animali che si comportano come uomini. Ciò che nessun cartone animato potrebbe far fare a degli uomini, forse lo si può far fare a degli animali. Visti attraverso la lente deformante della metafora gli atteggiamenti riconoscibili ci appaiono così più distanti eppure estremamente chiari. Questo cartone aziendale in cui ogni essere vivente è definito in quanto parte di un branco (i lupi non fanno eccezione) o esterno ad esso, in cui anche la famiglia di umani che attende il nuovo nato è in bilico tra creare un gruppo o non riuscire a stabilire l'unione che dovrebbe, tratta i bambini come adulti, ne rispetta l'umorismo semplice e ne stimola l'intelletto con qualcosa di più sofisticato.
E' un film decisamente fuori dal comune questo Pandorum. Lo è in quanto si pone a mezza via tra il decisamente già noto, la citazione classica e il B Movie di buona qualità. L'inizio infatti ci fa pensare a una nostalgia di Solaris (quello 'vero' non l'esperimento soderberghiano) con i due astronauti privi di memoria ma con la progressiva consapevolezza di aver avuto qualcuno con cui condividere la vita e la cui presenza (fisica o no) potrebbe essere parte dell'astronave. La quale, come in Alien, è a sua volta un personaggio sempre più incombente e minaccioso con la sua labirintica e ferrigna imperscrutabilità. C'è poi tutta la rivisitazione dei più noti temi legati alle riflessioni esistenzial-ecologiche che la sci-fi ci ha già proposto in miriadi di versioni. Il problema è che a un certo punto tutte le premesse iniziali che facevano pensare a quanto sopra vengono convogliate in una strenua lotta per la sopravvivenza tra il Caporale Bower (Payton rischia meno perché è nella sua cabina) e i mostri in cui si sono trasformati i passeggeri dell'astronave. Il che non significa che i colpi di scena manchino. Anzi, aumentano ma si incanalano su un percorso decisamente più legato all'azione veicolando la storia verso un finale in parte prevedibile. Il mix comunque rimane interessante.
Dopo un ventennio di film insignificanti o soltanto alimentari, torna alla ribalta l'americano Frankenheimer con un "non-stop action thriller" in cui esibisce al meglio il virtuosismo tecnico, la dinamica tattica, la balistica pirotecnica degli scontri a fuoco, l'efficace organizzazione dello spazio nelle sequenze di massa (l'arena di Arles, l'attentato al Palazzo del Ghiaccio di Parigi). Troppi, però, due interminabili e forsennati inseguimenti in auto. A dare spessore all'azione c'è una bella galleria di personaggi dei quali si preserva sapientemente una parte di mistero. Qui emergono le qualità della sceneggiatura di J.D. Zeik e Richard Weisz. In giapponese ronin sta per samurai senza padrone. I 47 Ronin citati in un dialogo sono quelli di una famosa storia del Giappone medievale, filmata innumerevoli volte tra cui un film epico in due parti del 1941-42 con la regia di Kenji Mizoguchi, non distribuito in Italia.
Elicotteri che sfiorano ghiacciai, Stallone nudo sotto la neve, funi che trasportano gente fra i picchi, violenza inaudita di tutto, natura compresa. Ma è un buon prodotto di evasione a patto di non soffrire di vertigini. Il film è girato sulle Dolomiti, ritenute dalla produzione più fotogeniche delle vere Montagne Rocciose.
Neveldine e Taylor colpiscono ancora e pretendono di farlo affondando i colpi sotto la cintura sperando che l'arbitro non se ne accorga. Ci propongono così un Michael C. Hall che fa di tutto (riuscendoci) per farci dimenticare il suo ruolo in Dexter nei panni del perfido Castle. Il quale però somiglia pericolosamente (che a loro piaccia o meno) proprio ai due registi. I quali realizzano un film subdolamente ambiguo. Mentre infatti si pretende di mettere in guardia lo spettatore dalla degenerazione di cui i media sono pervasi se ne esaltano le potenzialità proprio con lo stile di ripresa e con i ritmi di montaggio.
Gli interpreti sono abili a mimetizzarsi, a partire da Gerard Butler, ma resta la spiacevole sensazione di assistere a una truffa ideologica che punta proprio sugli spettatori più giovani e meno attrezzati culturalmente. La virtualità che finge di denunciare se stessa in realtà vuole solo produrre assuefazione.
La costruzione di un amore (le puntate precedenti) coinvolge di più. Ma qui, dove si racconta non più il desiderio/sogno ma la realtà, la difesa dello stesso è altrettanto ben raccontata anche se a dominare è un sottofondo amarognolo.
La scena del pranzo è forse qua e là banale, ma il lungo e duro confronto nella stanza d'albergo (che fa pensare che Baumbach abbia preso qualche nota per Marriage Story) vale da solo il prezzo del biglietto.
Il film di Brian Robbins autore tra gli altri di Hardball, è pensato, costruito e realizzato addosso a lui, il camaleontico e trasformista Eddie Murphy, che qui interpreta ben tre dei personaggi principali. Come già successo ne Il professore matto, Murphy, che inoltre figura come produttore e sceneggiatore del film insieme al fratello Charles, tenta la strada del one man show cinematografico. Insieme a una regia che non riesce appieno ad assecondare le esigenze della trama, infatti, convive uno script che si fa petesto per mostrare le doti attoriali dell'istrionico Murphy con una serie di gag caustiche, provocatorie e politicamente scorrette.
Così l'irriverenza e il grottesco non riescono a venire fuori nella loro genuina essenza, ma rimangono imbrigliati in una rete in cui l'unico a emergere è Eddie Murprhy e la sua volontà di eccedere.
Opera di denuncia umano-burocratica, con la tesi che le cose funzionano talmente male che occorre provvedere da sé. Film corretto, decolla ma non si alza molto.
C'è molto poco di "I viaggi di Gulliver" in questo adattamento indirizzato principalmente a un pubblico preadolescenziale. Non solo è affrontata solo la prima e più famosa parte, quella dei lillipuziani (con un vago accenno all'isola dei giganti), ma scompare anche qualsiasi velleità di critica sociale alla società attuale dietro la metafora di Lilliput. I fantastici viaggi di Gulliver come li ha pensati la 20th Century Fox sono un racconto d'avventure esotico-fantasiose per ragazzi e assolutamente nulla più. In questo senso il film funziona e molto (anche grazie alla durata di soli 85 minuti resa possibile da un montaggio che procede talmente per ellissi da far pensare che in origine ci fossero molte più scene poi selvaggiamente rimosse in fase di postproduzione) e Jack Black è forse l'interprete oggi più azzeccato per un ruolo simile.
L'adulto sempre infantile può finalmente esserlo senza doppi significati o doppie letture. Tra le molte cose Gulliver millanta di essere il presidente del suo paese, racconta la sua vita attingendo pesantemente e senza senso dalla storia del cinema ("Ehi! Ma tu non sei morto!" sbotta uno dei lillipuziani davanti alla scena finale di Titanic raccontata come fosse la vera vita del gigante) e spaccia per propri i riff di chitarra dei Guns n' Roses. Nel Lemuel Gulliver di questo adattamento c'è infatti un Bignami di tutti gli elementi più superficialmente e immediatamente divertenti di quella figura che in quasi 10 anni Jack Black ha costruito per sè. Un personaggio unico che coincide con l'attore e che egli declina a seconda del ruolo da interpretare (devastante in Alta fedeltà, romantico in L'amore non va in vacanza, serioso in King Kong, demenziale in Tenacious D, cretino in Be kind rewind e via dicendo).
Ma è nel rapporto tra grandezze che I fantastici viaggi di Gulliver sembra cercare di osare un po' di più. A partire dai titoli di testa girati con un effetto ottico che fa sembrare le vere immagini di New York piccole miniature, fino al 3D (aggiunto in postproduzione e non realizzato in fase di ripresa) usato per rendere l'idea della distanza tra i lillipuziani e Gulliver quando si guardano dall'alto verso il basso o viceversa, il film cerca in ogni modo di suggestionare enfatizzando il contrasto piccolo/grande. Cosa che raggiunge l'apice quando un lillipuziano arriva nella terra dei giganti a liberare Gulliver dal giogo di una bambina che lo usa come bambola.
Di Kevin Smith sappiamo bene che non si è mai ripreso dal primo (e unico) grande successo di Clerks. La storia delle disavventure dei due giovani cassieri di provincia si è trasformata nel tempo in una sorta di franchise segnato da personaggi-mascotte e arricchito di volta in volta da attori famosi (In cerca di Amy), deliri pseudo-apocalittici (Dogma), parodie demenziali (Fermate Hollywood) e sequel ufficiali (Clerks 2). Se con quest'ultimo, Smith si è congedato ufficialmente dal nostalgismo per la fine del XX secolo, adesso, dopo aver scoppiato la coppia di spacciatori Jay e Silent Bob così come quella dei due commessi Dante e Randal, ne forma subito una nuova e bene assortita per proiettarla verso uno dei fenomeni indubbiamente più significativi dell'era 2.0: l'esplosione della pornografia amatoriale. E per apparire ancor più connesso al contemporaneo, scrittura il più popolare attore comico sotto i trent'anni e un'attrice bella e simpatica quanto basta a produrre una tensione sessuale. Da questo punto di vista, Seth Rogen ed Elizabeth Banks sono una coppia perfetta: sboccati, cialtroni e divertenti, tanto che Zack & Miri potrebbe ambire ad essere un Harry, ti presento Sally al tempo della precarietà creativa. E invece, di questa alchimia fra comicità e sensualità, Smith utilizza solo la grana grossa e si diverte a giocare con la componente più greve e ritrita. Certo, è vero che tanto il porno che le commedie romantiche condividono un'idea alquanto precisa di "lieto fine". Ma nel mettere assieme il sentimentalismo e la pornografia, i "sette veli" di pudicizia della commedia romantica con un linguaggio disinibito e una sessualità esplicita, Smith non punta affatto sulla convergenza e la negoziazione, ma sugli estremismi di ognuno dei due generi.
Così, l'immaginario a luci rosse diventa il pretesto per creare infiniti giochi di parole a sfondo sessuale (per cui la saga di Star Wars diventa "Star Whores" e i personaggi di Lucas trovano una loro storpiatura erotomane) e per liberare gag scatologiche senza riserva; mentre la componente affettiva segue tutte le fasi standard della più tipica commedia sdolcinata. È vero che, quando si parla di porno, non è proprio la storia quello che conta. Ma ciò non significa che si debba sempre godere di quel che si vede.
La commedia sentimentale, come il musical, non sembra godere in Italia di un successo stabile, eppure si tratta di un genere vivace e propositivo, attraversato da tensioni innovative, che mostra indubbi punti di forza. Il film di Adam Brooks, sceneggiatore di French Kiss, non dà una definizione dell'amore ma filma l'amore, argomento immenso di discussione e di analisi. A New York, luogo d'elezione del cinema alleniano, il regista adatta una commedia romantica che viaggia con il suo bagaglio di riferimenti sicuri. In Certamente, forse sono individuabili modelli celebri: il design domestico dei piccoli o grandi appartamenti newyorkesi (Woody Allen), lo spazio urbano reiventato attraverso la levità di una canzone e le stagioni sempre pronte ad offrire un climax sentimentale (Nora Ephron). Certo di Allen si tralascia lo sprofondamento amaro e la risalita grottesca, della Ephron l'implacabile tenuta dei dialoghi, eppure l'educazione sentimentale del ragazzo del Wisconsin è dotata di grazia comica, gioca in modo sottile e qualche volta trova i tempi giusti, risvegliando i sensi pigri e convenzionali dello spettatore.
Produzione propriamente hollywoodiana, Certamente, forse si costruisce intorno all'evocazione delle donne amate e perdute del protagonista fino all'agnizione finale, che svelerà alla sua bambina e allo spettatore quale delle tre fanciulle è quella della (sua) vita. La progressione del discorso amoroso tra papà e futura mamma, è affidata ad una favola, quella che il padre di Ryan Reynolds racconta alla figlia rispondendo alla sua domanda: che cos'è l'amore? L'amore è un'emozione ribelle alle regole e al "buon senso", ci dice Brooks con un film che ripercorre la felicità degli inizi e i litigi che ne anticipano la fine. L'amore come edificazione di una nuova unità sociale e come sua disgregazione.
Una piacevole commedia abitata da un "nuovo" volto, quello di Ryan Reynolds, un ragazzo di buona famiglia, adorabile perdente con scrupoli e dubbi esistenziali. La sua controparte femminile non poteva che essere Isla Fisher, la ragazza spigliata e accessibile della scrivania accanto.
Remake della commedia che era uscita in Italia nel 1977 col titolo Non rubare...se non è strettamente necessario, con Jane Fonda e George Segal, Dick e Jane - Operazione furto è una brillante commedia che, tra una gag e l'altra, distrugge sistematicamente molte delle certezze insite nel concetto di "sogno americano". Jim Carrey è una garanzia, anche se qui non è proprio al suo meglio, mentre la grande sorpresa è Tea Leoni, splendida quarantenne, che dimostra una verve comica insospettabile. Baldwin, che fa il mega boss truffaldino e cattivissimo, è sempre un piacere a vedersi (e quest'anno è già la seconda volta, dopo Elizabethtown). Si ridacchia spesso e a stupire sono le numerose e ciniche frecciate rivolte ad alcune problematiche irrisolte, tipiche dell'America contemporanea (l'immigrazione, la gestione "allegra" delle aziende, il dramma della disoccupazione e la lotta a coltello tra i candidati per lo stesso posto di lavoro). Sotto una patina di commedia, batte un cuore polemico ed irriverente. Stupendo il finale, che evita melensaggini e semina ulteriori spunti farseschi di riflessione e cinicamente deliziose le "dediche" nei titoli di coda. Davvero una bella sorpresa.
Il mare degli adattamenti cinematografici di supereroi a fumetti è in piena, ed è inevitabile che accanto ad apprezzabili versioni - vedi Spider Man, X-Men, Hulk - venga a galla anche il ciarpame. Già Daredevil era stata una grande delusione, ora a bissarla arriva lo "spin-off" Elektra, che riesce nella difficile impresa di risultare persino peggiore del suo predecessore. Qualcosa di buono qua e là c'è, soprattutto sul versante degli effetti speciali - tutto sommato ben dosati nell'economia del film, benché presenti in misura massiccia. Ma il film nel complesso è veramente insignificante e dispiace, soprattutto per la grande occasione mancata.
Il personaggio di Daredevil, infatti, sopravviveva a fatica nel carnet dei titoli Marvel, finché un giorno non ne prese le redini il più importante autore di fumetti americano - e probabilmente mondiale - degli anni '90: Frank Miller. Miller reinventò Daredevil, lo dotò di comprimari di tutto rispetto, e lo condusse dall'orlo del precipizio all'Olimpo dei grandi eroi di carta nel giro di un paio d'anni. Matt Murdock & soci divennero protagonisti di più di un capolavoro a fumetti: su tutti Born again, (illustrato da un superbo Bill Sienkiewicz) e Elektra Lives Again!. Elektra si guadagnò velocemente un posto d'onore nel cuore dei lettori, perché bellissima e dotata di una personalità ammaliante. A vedere questo film si dovrebbero tirare le orecchie a regista e autori che, invece di andare alla ricerca di un'originalità che scivola nell'insulso, avrebbero semplicemente potuto "scopiazzare" i fumetti di Miller che certo non li avrebbe denunciati, visto che è produttore del film. Dov'è finito il fascino algido di Elektra? Non certo nella mono-espressiva Garner, degna spalla di Ben Affleck.