Il libro illustrato di Max Sendack da cui il film prende quasi tutto, Where the wild things are, è un'opera tanto conosciuta e amata (nel mondo anglosassone) quanto breve. Un libricino per bambini che ha più di un perchè anche per i grandi e che doveva diventare un film di almeno un'ora e mezza, impresa non semplice per la quale viene scritturato Spike Jonze (e Dave Eggers alla sceneggiatura), il quale impiega 7 anni per capire come allargare la storia e come poter trasferire sullo schermo quella strana malinconia che pervade i disegni del libro.
La produzione però attraversa molti problemi, compresa una certa sfiducia da parte di chi i soldi ce li mette verso i toni dark che Jonze infonde nel film e alla fine il risultato come spesso capita sembra risentirne.
Nonostante infatti un inizio formidabile e una quantità di idee, intuizioni e creazioni che non hanno nulla di ordinario ma appartengono alle pagine migliori dell'arte cinematografica, l'insieme dell'opera, cioè il final cut, risulta un ibrido anche un po' noioso tra diverse intenzioni (probabilmente quelle del regista e quelle dei produttori), un pasticcio a più mani che non accontenta nessuno, tantomeno quel pubblico infantile tanto cercato dalla produzione.
Il film affronta la disillusione infantile, trasferendo la rabbia che Max ha in corpo per la frustrazione e l'incredibile solitudine che prova nella sua vita vera (lo vediamo in quelle poche ma significative scene iniziali) nelle personalità fastidiose e rabbiose delle creature selvagge. Girando in esterni nei vasti spazi australiani e quasi sempre all'ora del tramonto Jonze trova una dimensione sospesa che rende perfettamente l'equilibrio tra fantasia e realismo, donando un senso panico ad ogni scena. Ancora di più il regista già responsabile di raffinatezze come Il ladro di orchidee e Essere John Malkovich riesce a contaminare ogni inquadratura con una tensione drammatica che ha poco a che vedere con una favola rassicurante rendendo complessi e sfaccettati anche semplici scambi di sguardi.
Tutto questo però rimane nel reame delle intenzioni perchè poi non ce n'è attualizzazione per colpa di una struttura e un'organizzazione del racconto che disperdono le trovate invece che coalizzarle verso un unico fine. Verso metà tutto sembra perdersi, la noia comincia a regnare e anche la ricercata colonna sonora sembra appiccicata per risolvere la stagnante stanchezza in cui il film precipita inesorabilmente.
Tutto ciò che doveva essere la seconda parte di film, ovvero il viaggio all'interno di Max (e per esteso della psicologia infantile) attraverso la metafora delle creature selvagge, si perde e al massimo può colpire alla testa ma di certo non al cuore.
Dal romanzo Eaters of the Dead (Mangiatori di morti, 1976) di Michael Crichton, J. McTiernan, specialista di cinema d'azione, ha cavato un notturno film epico-avventuroso da 85 milioni di dollari, rimodernato con effetti speciali e risvolti orrorifici, girato nel 1998 in esterni della British Columbia. Adattato da William Wisher e Warren Lewis, rimase bloccato per un anno per insanabili contrasti tra il regista e Crichton, uno dei produttori. Pur non privo qua e là di pagine suggestive, soccombe sotto il peso di troppe e contraddittorie intenzioni in cui la partitura musicale del vecchio Jerry Goldsmith (1929) cerca vanamente di mettere ordine. Si distingue, comunque, dalla stereotipata spettacolarità hollywoodiana per un'insolita nota filoaraba, non priva di accenti ironici, al servizio del protagonista.
Innocua favoletta capace di suscitare più di un occasionale sorriso, Il magico mondo di Ella dà una salutare rinfrescata al genere "favole per ragazzi" e si inserisce a pieno merito tra le pellicole più riuscite in un genere che sta purtroppo lasciando sempre più spazio a produzioni stupide, volgari e fracassone. Del film colpisce l'accuratezza tecnica e la cura per i particolari: fotografia, costumi e scenografie sono davvero ben realizzati e meritano più di un complimento. Il cast, su cui svetta l'ex stellina del cinema per famiglie, ora passata a film di maggiore spessore come Brokeback Mountain, Anne Hathaway, è simpatico e funzionale alla storia, una moderna versione della bella addormentata nel bosco che fa il verso a tutte le fiabe antiche e non, che non passano mai di moda. Semplice ma non banale.
A colpi di spada ritorna sugli schermi il celebre barbaro nato dalla penna di Robert Ervin Howard negli anni della Grande Depressione. Eroe longevo dell'heroic fantasy, Conan trovò vendetta e gloria al cinema nell'interpretazione di Arnold Schwarzenegger, che puntò al cielo degli dei corazzandosi fino a mutare la carne in acciaio. Ventinove anni dopo sono i muscoli ben oliati di Jason Momoa a solcare il cielo mitologico dell'Era Hyboriana e a rinnovare l'appeal del barbaro Conan. Archiviato il cubismo muscolare di Schwarzenegger e il panteismo epico di John Milius, Conan - The Barbarian è una rivisitazione di un classico che procede lungo la strada della citazione-allusione ma nondimeno inventa nuovi personaggi, eventi e relazioni declinandoli nell'epoca storica e nel luogo geografico dei racconti originari. Recuperando i fasti e le convenzioni del genere epico-mitologico, il fantasy di Marcus Nispel rimette al centro del racconto l'eroe assoluto che abita un mondo immaginario e rigidamente manicheo, che vive e ama appeso a una lama rossa di sangue, impugnata per fare scempio di re malvagi, spettri reali e mostri ancestrali. Dentro una geografia ideale, disegnata su una mappa presentata nei titoli di apertura, e dentro una geografia umana, brulicante di nani, giganti, schiave lascive o sacerdotesse castissime, si svolge l'avventura umana di Conan, colpito personalmente dal cattivo di turno, le cui azioni precedono da sempre quelle del buono, giustificandone la violenza. Pervaso da un respiro 'democratico' (la liberazione degli schiavi e dei condannati ai lavori forzati), il Conan di Nispel, già creatore di guerrieri vichinghi (Pathfinder) e riesaminatore di invincibili psychokillers (Non aprite quella porta, Venerdì 13), miscela agilmente divertimento e azione senza raggiungere la maestosa epicità delle battaglie di Jackson (Il signore degli anelli). Se a mancare è il coinvolgimento emozionale, i personaggi si fermano all'epidermide, l'aspetto senz'altro più godibile è il gusto per il dettaglio esaltato dalla tridimensionalità e dall'altissima tecnologia, che frantuma le ossa e fende la carne investendo verosimilmente occhi e orecchie dello spettatore.
Drive angry dunque è un film che inizia con una panoramica dell'Inferno, una voce fuoricampo che racconta di una fuga e un'automobile americana dal design anni '70 che scappa sfondando i cancelli in volo (sic!). Questo per dire che bisogna avvicinarsi al film con lo spirito giusto e che se lo si fa ci si può davvero divertire.
Patrick Lussier non si prende mai sul serio, in nessun momento, gira un film che vuole essere l'equivalente moderno e molto autoironico dell'exploitation anni '70 "macchine e donne". Per fare queste guarda molto al referente contemporaneo più immediato, Quentin Tarantino, da cui prende le donne forti, le macchine di stuntman Mike, il culto dei piedi, i personaggi ad effetto e da cui cerca di trarre quel senso globale di coolness, che è uno dei pallini dell'autore di A prova di morte.
Quello che di certo non si trova in Drive angry 3D è una lettura che vada più in profondità di un'esplosione, un nudo o un sano inseguimento davanti a un green screen. Quello che si trova è tanta onestà e voglia di divertirsi assieme allo spettatore. In questo è perfettamente funzionale l'uso di un 3D barocco che spara in faccia allo spettatore una miriade di oggetti lungo tutto il film.
Benchè sia un film teoricamente serio, Drive angry 3D sembra infatti prendersi in giro volutamente in ogni momento, calcando la mano nella maniera più ironica su tutti i grandi luoghi comuni di un genere (l'action di serie C americano) fondato sulla ripetizione e riproposizione di personaggi e situazioni risapute.
Se la parodia classica, quella di Mel Brooks, si basa sull'esposizione della demenzialità insita in alcuni topoi filmici, questo tipo di film finge la massima serietà e la massima aderenza a quel genere che prende in giro con lo scopo di ottenere il massimo della parodia.
In tutto questo appare perfetta la scelta di un protagonista come Nicolas Cage, attore che dalla metà degli anni '00 ha cominciato a moltiplicare le sue apparizioni e i suoi ruoli, prestandosi a tali e tanti film di serie B da essere, lui e le sue mille diverse parrucche, ormai il simbolo contemporaneo di quel tipo di produzione.
Peccato soltanto che il divertimento non duri quanto la pellicola. Dopo una prima mezz'ora di indubbio coinvolgimento, si comincia ad avvertire la stanchezza della formula e la continua esagerazione. Il permanente eccesso senza la benchè minima sostanza possono generare un po' di noia nello spettatore meno avvezzo.
Tutto già rivisto (non solo visto), i soliti passaggi al limite del ridicolo, ma grandi attori, anche se ognuno va per conto suo.
La prima sceneggiatura originale di Cormac McCarthy non poteva finire in mani migliori di quelle di uno dei più grandi collettori di talenti del cinema. Completamente nascosto dietro il verbosissimo script, Scott riesce nel doppio movimento di rispettare la parola nel momento in cui viene messa in immagini e riuscire, attraverso la messa in scena, a creare l'atmosfera migliore per un film dal villain invisibile che incombe sui protagonisti come la personificazione stessa del destino. In una storia in cui solo la morte ha un senso e tutto il resto è assurdità, iperbole sessuale e scene stranianti che lasciano di stucco gli stessi personaggi al pari del pubblico, McCarthy mostra come la cosa peggiore che possa esistere sia la volontà di chi non accetta il caos del mondo: un cartello sanguinario che gioca con i cadaveri con il massimo disinteresse per la vita e che, come spiega Brad Pitt: "Non è che non credano nelle coincidenze, sanno che esistono, solo non ne hanno mai vista una".
In questo film che appare tanto dello scrittore di The road e Non è un paese per vecchi (nei personaggi, nell'assenza di senso e tantomeno di giustizia in un mondo in cui l'unica cosa tangibile e seria pare essere l'efferatezza della morte), quanto di Ridley Scott (nella scelta di luci, colori, montaggio, interni e abbigliamento il più possibile splendidi e raffinati da usare in opposizione a quel che si dice e succede), esiste un senso profondo di terrore che lo avvicina paradossalmente a territori con i quali non dovrebbe avere nulla a che vedere, ovvero quelli dell'horror. La maniera in cui aleggia nei discorsi, nel terrore delle espressioni e nella rievocazione di agghiaccianti imprese precedenti "il cartello", entità che non vediamo mai nè si manifesta direttamente se non in corrispondenza della morte, dona a The counselor un tono unico che gonfia di senso i dialoghi, impedendogli di essere sterile esibizione di scrittura e recitazione. Tale è l'abilità nel costruire di minaccia in minaccia, di aneddoto in aneddoto, un mondo a parte, invisibile a tutti se non a chi è minacciato di morte e in cui tutto è possibile, che alla fine, in controtendenza rispetto all'abitudine didascalica del cinema hollywoodiano, Ridley Scott può anche permettersi il lusso di "non mostrare". Non ci sarà bisogno di guardare il contenuto del DVD che viene recapitato all'avvocato, l'atmosfera disseminata in tutto il film tra interni moderni, hotel di lusso, bestie feroci lanciate nel deserto e racconti terrificanti ha già lavorato a sufficienza e ciò che si intuisce è peggio di qualsiasi visione.
In questo senso, in una galleria di personaggi esagerati e non sempre riusciti che girano intorno all'unico normale (considerato poco più di un'idiota), Cameron Diaz viene caricata con l'incombenza maggiore, quella di dar credibilità al carattere più paradossale di tutti. La maniera in cui riesce nell'impresa di rendere umano l'incredibile ha del formidabile, la sua donna-ghepardo dalla spaccata formidabile permea il film di quella sostanza che invece sfugge sempre al protagonista (Michael Fassbender). A fronte di tutti i dialoghi vacui e ricercati, ordinari e minacciosi anche quando si parla di ordinazioni al ristorante, la sua famelica affarista giunge con un pugno di sguardi alla meta del film: affermare che l'unica verità incontrovertibile del mondo è la sua assenza di senso, coerenza e giustizia di fronte alla vita umana.
Gli ultimi giorni del povero Cucchi raccontati in modo provinciale e piuttosto piatto. Recitazione "all'italiana".
Commedia piacevole ricca di citazioni dai "classici del genere", anche se dal regista di Smoke e Blue in face c'era da attendersi qualcosa di più. A proprio agio la Lopez, meno riuscito il personaggio di Christopher che mette in evidenza le difficoltà del pur bravo Ralph Fennies con i ruoli brillanti. Certamente perde in confronto con il connazionale Hugh Grant. Il personaggio meglio riuscito e più originale è senza dubbio il piccolo Ty (Tyler Garcia Posey) che ha un ruolo centrale in tutta la storia.
La commedia diretta da Josh Gordon e Will Speck sulla base dell'adattamento di Allan Loeb del racconto "Baster" di Jeffrey Eugenides, ha la bellezza di quelle storie fatte interamente dai personaggi, in cui la trama non deve farsi arabesco ma semplicemente seguire la relazione tra loro, assecondare una spinta naturale. È a questo genere di storie che il cinema può talvolta far fare un balzo di dimensione, quando nel personaggio finisce per entrare un attore che ne fa qualcosa di unico, diverso magari dalla figura che s'intravedeva sulla carta, ma oramai insostituibile. Non è di Jennifer Aniston che stiamo parlando, nonostante la sua incerta collocazione nel mondo delle stelle terrene si accompagni con grande efficacia all'incertezza del personaggio che è chiamata a interpretare qui. Fu, invece, il caso di About a boy e di Hugh Grant - i due film hanno più di qualcosa da spartire -, ed è finalmente il caso di Jason Bateman. I frequentatori delle serie televisive di ultima generazione attendevano da un pezzo la sua migrazione dai ruoli minori a quello primario e Bateman, alla resa dei conti, non viene meno alle aspettative. Tanti hanno impersonato un nevrotico, prima, ma pochi si sono resi così credibilmente carichi di filosofica negatività; tantissimi hanno vestito i panni dell'adulto che non sa trattare il bambino, essendo egli stesso ancora estraneo al concetto di responsabilità, ma lui non è mai cresciuto perché non è evidentemente mai stato bambino, proprio come il figlio minaccia di fare. È un attore con lo charme di grandi d'altri tempi: nessuno vomita come lui nel cestino dell'ufficio, con la stessa eleganza innata.
Il prosieguo del film è cosa semplice e prevedibile, la scoperta della verità è rimandata fino al limite del sostenibile, l'amico di lui fa ridere (Jeff Goldblum), l'amica di lei un po' meno (Juliette Lewis).
Anna Faris (qui nel ruolo di Shelley) viene dalla scuola di Scary Movie. Sa quindi gestire molto bene quel rapporto tra battuta e volto quasi impassibile o ingenuo che era proprio anche del Leslie Nielsen/Tenente Drabin. Il problema però sta nella sceneggiatura che è al contempo così infantile che fa quasi tenerezza pensando che invece vorrebbe contribuire a schiacciare brufoli adolescenziali.
Tutto è prevedibile. A partire dal fatto che Shelley presume di conoscere ciò che gli uomini vogliono ma alla prova pratica ha qualche problema di relazione mentre le fanciulle apprendono rapidamente (compresa la bella Natalie inconsapevole del proprio appeal) ma sono anche in grado di offrire all'insegnante preziosi, anche se differenti, consigli. Suscita più di una perplessità il fatto che Hefner si sia fatto coinvolgere in un film che non si rivolge al pubblico di elezione del suo impero editoriale (contate i nudi e poi mi direte). Se si aggiunge che Fred Wolf fa rimpiangere il Jeff Kanew de La rivincita dei Nerds (con cui ha più di un punto di contatto sul piano della trama) avrete lo sconsolante quadro della situazione. Con o senza orecchie a punta.
Ispirato all'omonima graphic novel di Kevin Grevioux, I, Frankenstein è un action fantasy impregnato di umori gotici, almeno per quanto riguarda il breve prologo e la descrizione di una metropoli contemporanea in cui campeggia una cattedrale dove è ubicato il quartier generale dei gargoyle. Dell'archetipico romanzo di Mary Shelley, questa tonante e pretestuosa variazione conserva soltanto il nodo filosofico dell'esperimento di laboratorio che soffre il peso di una mancata accettazione, prima da parte del padre-creatore e poi dell'umanità tutta. Alle movenze lente e tragiche del mostro classico si sostituiscono, allora, la sveltezza e la prestanza di un corpo sul quale il tempo non lascia segno, quasi imbattibile, capace di difendersi anche mediante una speciale tecnica di combattimento con i bastoni (come lasciar fuori le arti marziali?). Se la perfetta fisicità rende incredibile l'affermazione secondo cui sarebbe composto da "almeno una dozzina di corpi differenti", il nuovo Frankenstein risulta, invece, credibilissimo per un determinato target di spettatore: parliamo di ragazzini in cerca di percorsi eroici modulati sul continuo crossover tra fumetto, videogame e rimasticature letterarie oltreché ancora in grado di lasciar correre e sopportare frasi come "lasciatelo a me!" o "uccideteli tutti!".
Ad un apparato visivo non particolarmente innovativo, ma di pregio, sia per quanto riguarda la realizzazione degli effetti speciali sia per il concept visuale globale, coincide, dunque, un'organizzazione del materiale narrativo che scorre sui binari di una progressione puerile: due fazioni, il bene e il male (si parla di "ascendere al cielo" e di "discendere agli inferi") e, al centro, un personaggio, che umano non è, a fare da ago della bilancia. Possente eppure problematico, come sono gli ultimi supereroi del grande schermo, Aaron Eckhart dà a questa pellicola strettamente imparentata con la serie di Underworld (stessa produzione) quella credibilità che manca in altri analoghi titoli. Si poteva raccontare la stessa storia da un'angolazione più adulta per avvicinare un'altra fetta di spettatori, ma Stuart Beattie ha scelto di non farlo. Forse è stato un peccato.
La Francia usciva dal maggio del '68 e i francesi avevano voglia di vacanze, sole e sogni. È in questo clima d'evasione che viene pubblicato "Papillon", l'incredibile storia di Henri Charrière, condannato ai lavori forzati, evaso più volte, promosso imprenditore in Venezuela e poi autore di un libro che venderà milioni di copie nel mondo. Scritta su grandi quaderni di scuola e inviata a un editore a Parigi, la sua autobiografia piena di immaginazione sarà il più grande successo letterario del dopoguerra, il best-seller dell'estate del '69 sulle spiagge e nei saloni letterari.
Il trionfo, la fortuna e la rivincita di un vecchio galeotto. E poco importa se le storie raccontate non sono documentate, se il suo autore si è concesso qualche libertà con la verità, il suo viaggio immobile attira l'attenzione di Hollywood che produce nel 1973 un film con Steve McQueen e Dustin Hoffman. È con questa eredità, un classico della letteratura e del cinema, che deve vedersela Michael Noer, replicando sullo schermo le avventure di un innocente rinchiuso e per tre volte evaso. Come il classico di Franklin J. Schaffner, il Papillon di Noer affronta il tema delle condizioni disumane di detenzione dei prigionieri e la parabola di un uomo più forte del suo destino, un destino implacabile che lo condanna al buio e alla solitudine di una colonia penale. Ma più del dramma sociale e la denuncia degli orrori penitenziari, è l'amicizia il motore del film e la ragione che muove il protagonista tra i personaggi e i luoghi comuni del genere: il direttore sadico, il carcerato brutale, quello che cerca scampo nell'arte o quello che lo cerca negli affetti, la minaccia della violenza omosessuale, la cella di isolamento...
Riduzione e reinvenzione dell'omonima miniserie inglese di sei ore, State of Play sposta l'azione nel cuore simbolico del potere, Washington D.C., e racconta un'appassionante partita a guardie e ladri tra politica e giornalismo, dove ognuno dei contendenti conosce ed usa gli strumenti dell'altro e fa leva sulle sue debolezze. Arbitra Kevin McDonald, che viene dal documentario (e che documentario, Un giorno a settembre) e sa trovare la verità nell'invenzione. Il mondo del giornalismo è ritratto con l'occhio dell'insider: tra la macchina da presa e il mestiere messo in scena non c'è altro filtro che una parete di vetro, trasparente; il mondo della politica, al contrario, è il regno della mediazione: schermi televisivi, obiettivi fotografici, microfoni cui affidare frasi scelte e ponderate. L'umanità della storia s'infila nel mezzo, là dove il politico bussa alla porta del reporter e viceversa.
Tutto, qui, ha almeno una doppia prospettiva e più spesso un ventaglio di prospettive: un ventaglio di penne, una per ogni versione possibile dell'articolo da scrivere. Il film stesso raddoppia, rilanciandosi nel finale, e innestando magistralmente, sul tempo "reale" del giornale che deve andare in stampa, il tempo finzionale del genere: le intuizioni dell'ultimo minuto, l'arrivo provvidenziale della polizia.
Il risultato è un presente caricato di urgenza, una situazione in costante divenire, uno "state of play" bisognoso di costante aggiornamento, per il quale, forse, il vecchio giornalismo sporco d'inchiostro non è più adatto.
Russell Crowe e Ben Affleck hanno preso in corso d'opera il posto che doveva essere di Brad Pitt e Edward Norton e ci stanno così bene che si fatica a pensarli altrove: il primo col suo mimetismo e l'aria un poco fuori moda e fuori uso - ma la sua Saab sulla strada viaggia ancora benissimo -, e il secondo con quell'aria belloccia e compassionevole in un'era in cui i bellocci non fanno più compassione a nessuno. Al loro fianco, Helen Mirren e Jason Bateman assicurano il movimento della pagina, il tocco di stile.
A metà fra Una notte da leoni e Project X - Una festa che spacca, Babysitting è un tentativo francese di inserirsi nel filone delle commedie americane dell'eccesso raccontate a ritroso e utilizza il meccanismo narrativo del found footage costruendo il racconto come se fosse stato "girato" da uno dei protagonisti. Il risultato è dunque poco originale sia nel soggetto che nello svolgimento, ma ha dalla sua una serie di sequenze rocambolesche, in particolare quella del luna park, con un inseguimento in go kart in cui non si capisce dove finiscano gli effetti speciali e cominci l'azzardo vero.
L'attore protagonista Philippe Lacheau, che è anche coregista e cosceneggiatore di Babysitting, è sufficientemente anonimo nel ruolo di Franck, e il piccolo Enzo Tomasini sufficientemente stucchevole in quello di Remy. Più coloriti Tarek Boudali, che interpreta l'amico Sam ed è anche cosceneggiatore insieme a Julien Arruti-Alex, ed Alice David, l'ex fiamma Sonia: due facce e due fisicità che vorremmo rivedere.
Si sorride, si rimane spiazzati da certe volgarità imbarazzanti (prima fra tutte il surra de bunda, uno schiaffeggiamento a colpi di natiche cui sono sottoposti gli interpreti principali del film) e occasionalmente sorpresi da alcune battute salaci che arricchiscono di ironia francese lo schema narrativo americano. Peccato per l'inutile messaggio edificante sul bisogno dei padri di occuparsi dei figli, appiccicato alla trama come per farsi perdonare il politically incorrect che caratterizza il resto del film. Molto appropriata invece la colonna sonora trash di Maxime Desprez e Michael Tordjman, già sodali di Madonna e Bob Sinclair.
Buon ritmo e buon cast. Donner sul versante thriller/poliziesco è sempre una garanzia e, negli anni, lo è diventato anche Bruce Willis, impagabile nella parte del poliziotto alla deriva che si redime per la giusta causa. Solo due ore è ricco di clichè e luoghi comuni, compreso un finale troppo dolciastro, ma la confezione è impeccabile, ci sono dei bei momenti di cinema (le sequenze all'interno dell'autobus; i duetti verbali tra il protagonista e il ciarliero Mos Def, vera rivelazione del film) e Donner aggiunge il suo innegabile talento e mestiere.
Il film conferma che il cinema americano sa ancora, se non stupire, quantomeno intrattenere e, grazie all'infinito serbatoio di caratteristi e seconde linee di pregio da cui attingere, qui Mos Def e David Morse, stupendi comprimari, offrire al pubblico spettacoli che valgano il prezzo del biglietto.
C'è stato un periodo nella carriera di Adam Sandler, durato non molti anni, in cui sembrava che la star volesse impegnarsi a variare il suo personaggio comico e proporne delle sfaccettature più drammatiche e malinconiche. Film come Ubriaco d'amore, Spanglish, Reign Over Me e Funny People stanno a dimostrare la bontà artistica di questo tentativo.
Purtroppo però il botteghino non ha sorriso all'iniziativa in nessuno dei casi sopra citati, e così Sandler è tornato a rintanarsi nei "tipi fissi" e nelle commedie ridanciane che funzionavano così bene nel mercato interno. Il fatto è che se in passato l'attore e la sua casa di produzione Happy Madison avevano sfornato lungometraggi di discreta resa e sicuro divertimento come 50 volte il primo bacio o L'altra sporca ultima meta, nell'ultimo periodo i prodotti sono diventati tristemente ripetitivi e superficiali. Se il precedente Jack and Jill era francamente inguardabile, quest'ultimo Indovina perché ti odio riesce quasi a ottenere lo stesso deprecabile effetto. Il fatto è che il "Sandler touch" ormai sembra limitarsi a credere che per costruire un personaggio comico basti accumulare una serie di gag il più possibile volgari e scandalosamente oscene per farlo risultare efficace. La sceneggiatura di questo film infatti fa soltanto questo, accumula situazioni scurrili una dopo l'altra, fino al parossistico finale. Nessuna delle figure messe in scena è caratterizzata in alcun modo, neppure il minimo indispensabile per renderla almeno definita. In questo modo risulta anche complicato giudicare le prove d'attore dello stesso protagonista oltre che di Andy Samberg, Leighton Meester e di tutti gli altri caratteristi.
La vena creativa di Adam Sandler sembra in fase calante, se non addirittura esaurita. Anche il pubblico americano, sempre fedele, sta cominciando ad abbandonarlo. Come Jack and Jill, anche Indovina perché ti odio non ha incassato quanto i suoi precedenti film. Occorre correre ai ripari ed escogitare qualcosa di nuovo, magari più fresco oppure semplicemente tornare al cinema funzionale e ideato con intelligenza dei suoi successi più grandi. Lo speriamo per un attore che, nonostante adesso appaia impigrito, apprezziamo proprio per quei tentativi più seri che lo hanno deluso in passato.
Non è certo la coerenza a mancare alla serie Step up, fondata su una struttura sempre uguale a se stessa (lo scontro tra gang, l'incontro tra stili di ballo apparentemente inconciliabili, la grande gara finale e la storia romantica che si mescola ai doveri di ballo) e centrata nei suoi casi migliori più sulla prestazione fisica che sulla vera creazione di una storia. Il quinto film della serie non fa eccezione, si propone fin dal titolo di riunire i membri del cast di tutti i film precedenti (ce n'è almeno uno per ogni capitolo ma la maggior parte è lo zoccolo duro presente dal secondo) con stavolta l'imprevedibile aspirazione di trovare un lavoro. Per coerenza con l'universo Step up la suddetta opportunità lavorativa sarà il premio in palio della grandissima gara di ballo.
Riuniti come i Blues brothers (cioè mollando i lavori a tempo di musica) i vecchi volti noti della saga tornano a far quel che sanno fare meglio. Tuttavia questa volta lo spunto della storia sembra venire dalla film commission Nevada tanto il film che ha fatto delle strade e quindi delle città in cui è ambientato un tratto distintivo indugia su Las Vegas, la sua attrattiva, le sue strade e i suoi luoghi significativi (ambientando lì anche una sequenza di ballo a due che sembra uscita da un musical classico). In questo sembra di intuire un movimento d'imborghesimento di una serie che aveva il merito indubbio di scavare in una forma d'arte di strada con storie banali ma una volontà espressiva (relativamente al ballo) molto forte all'inizio e via via sempre più fioca. Arrivati al quinto film "la strada" intesa come luogo d'autenticità, ambiente d'elezione per questa forma d'arte, sembra scomparsa, i protagonisti, che una volta si vantavano delle proprie origini e del proprio stile d'allentamento metropolitano, accettano senza problemi non solo di provare in sale di ballo tradizionale ma anche di esibirsi a Las Vegas (il luogo dello spettacolo artificioso per eccellenza) per vincere un lavoro lì, nello show business più canonico.
Anche dal punto di vista delle scene di ballo Step up all in sembra meno pregnante degli altri film. Per dare grande senso e impatto all'ultima performance vengono annacquate le precedenti, soprattutto si avverte un graduale slittamento di centralità dal ballo (quindi dalla prestazione fisica) alla coreografia (quindi alla rappresentazione). Step up aveva l'indubbio merito di rappresentare qualcosa, nel momento in cui diventa un modo per mostrare coreografie e non ballo grezzo lentamente si adegua al resto del cinema di ballo (o dei musical moderni), perdendo non solo identità ma forse anche di senso.
Terribile il doppiaggio italiano del villain affidato al rapper milanese Gué Pequeno in grado di rompere ad ogni parola la sospensione dell'incredulità ricordando a tutti di essere di fronte ad un film. Si spera che se non altro riesca a portare in sala qualche spettatore in più.
La commedia americana, proprio come un matrimonio, rimane una promessa di felicità, un voto che viene pronunciato o ribadito, qualche volta esposto a potenti scosse se non addirittura infranto. La commedia matrimoniale di Peter Billingsley, scritta, prodotta e interpretata da Vince Vaughn, riflette sulla crisi coniugale e si impegna a risolverla in paradiso. Spostando quattro coppie del Midwest in un eden terrestre lontano dagli affanni del quotidiano e dai loro ordinati quartieri residenziali, regista e sceneggiatore giocano conflitti e contraddittori su un inedito terreno. Collaudati i palcoscenici urbani, è la volta di luoghi esotici, dove seguitare la ricerca della felicità. Il film corale, fortemente voluto dall'ex single imbucato a nozze, non offre però un buon servizio a una bella idea, appianata e appiattita dentro una smaltata e inerte prospettiva turistica. Le memorie screwball (guerra dei sessi, inseguimenti) sbiadiscono sullo sfondo e affondano in lagune turchesi. Difficile in tanta luce, stordimento afrodisiaco ed esibita bellezza promozionale inserire credibilmente un affollato laboratorio sentimentale.
Tra l'incanto nervoso degli inizi e la brutalità dei finali, L'isola delle coppie si situa nel mezzo, urlando il non detto e mostrando il non mostrato d'amore, sesso e menzogne ma non basta. A mancare è la sfrontatezza, l'ironia sincopata, l'equilibrio aforismatico, tutto si risolve sulla superficie e nel gesto attoriale di Vince Vaughn e Malin Akerman, coppia protagonista, tenuta insieme da un sentimento sincero e da un'attrazione mai svanita. Da ricetta tradizionale gli antagonismi maschio-femmina si sciolgono in un rincuorante ricongiungimento matrimoniale e in una rinnovata primavera dei sensi. Il lieto fine arriva puntuale e usuale senza che il film ci abbia lasciato un'idea del mondo e un'idea del cinema.
Che qualcosa fosse cambiato nella testa e nel cinema dei fratelli Farrelly lo dichiarava a voce alta Lo spaccacuori, commedia precedente che incominciava idealmente dopo la fine di Tutti pazzi per Mary, a sua volta principio di una nuova moda del comico demenziale. Libera uscita ribadisce allora il cambiamento e il tentativo dei Farrelly di avviare la commedia demenziale degli eccessi dentro il mare quieto e liscio della romantic comedy tradizionale, dove la promessa percepibile è sempre la felicità. Al centro di un film clamorosamente sospeso su quello che vuole essere c'è un'idea vecchia quanto il mondo, la coppia di personaggi inadeguati, meglio deficienti, alle prese questa volta col sesso, quello prorogato nel talamo coniugale e quello vagheggiato nel letto sfatto di un motel. I fratelli americani arrestano la loro salita verso il basso, dentro il quale impastavano con lo sperma i capelli di Cameron Diaz, compromettendosi con una trama svenevole, incarnata dal personaggio di Owen Wilson di nuovo in versione familista, e contro cui nulla possono le intermittenti (eppure esilaranti) crudeltà politically uncorrect e le manifestazioni del caro e riconoscibile cattivo gusto degli autori. Libera uscita va oltre l'impasse asserito da Lo spaccacuori, perdurando nella commedia sentimentale più mainstream e immemore (e irriconoscente) verso una poetica sui generis capace di trattare materiali bassi e deiezioni del cinema alto.
Fragile e (ri)educato Owen Wilson, inefficace e monotono Jason Sudeikis, il corpo comico perde il suo lato oscuro ed esplosivo, smettendo di essere valvola di sfogo di una società schizofrenica. Più interessanti e sfumate le figure femminili (quelle legittime), pienamente integrate nella commedia romantica e decisamente a disagio nel kitsch esasperato e fuori regola dei consorti. E il problema è proprio lì, in quei due mondi approssimati ma inconciliabili. Di fatto, come fu per Ben Stiller prima di loro, Wilson e Sudeikis dovranno fare una scelta di mondo e di principio, quello di realtà contro quello di piacere. Senza sapere dove andare Libera uscita ha comunque il merito di sollevare una riflessione sulla relazione che il comico intrattiene con la commedia, in attesa di conoscere il futuro dei Farrelly, di sapere dove ci condurranno i cambiamenti in atto nel genere, di intendere quale senso produrranno.
Frédéric Forestier e Thomas Langmann scelgono la puntata più "cinematografica" della serie a fumetti francese per trasformarla in un kolossal moderno, ricco di effetti speciali (alquanto ridondanti e irreali), che strizza l'occhio ai grandi colossi hollywoodiani. Non paghi dell'accoppiata da Oscar Depardieu/Delon, i due registi fanno ricorso a una serie di allusioni al cinema e all'attualità (sfruttando gli sportivi Michael Schumacher e l'inseparabile Jean Todt, Amélie Mauresmo, Tony Parker e Zinédine Zidane) per svecchiare il materiale originale con continui rimandi alla nostra epoca. Il Cesare di Delon è un generale vanesio che passa il tempo ad ammirarsi allo specchio e si fa chiamare JC, come se fosse un rapper in costume.
Nel ritrarre il dittatore romano l'attore sfodera una buona dose di autoironia quando, sulle note di Morricone, afferma la sua immortalità da «gattopardo che non deve niente né a Rocco, né ai suoi fratelli né al clan dei siciliani». Nella stessa maniera, anche l'Obelix di Depardieu si improvvisa Cyrano de Bergerac dettando parole d'amore al meno dotato in romanticismo Alafolix. Tuttavia, nonostante queste trovate offrano momenti di sano intrattenimento, la sceneggiatura si rivela sin troppo semplicistica e, dimentica di quella tagliente satira sociale che René Goscinny e Albert Uderzo erano riusciti a ricreare su carta, finisce per risultare prolissa e fine a se stessa. Un vero peccato perché da un film in cui compaiono due leggende del cinema internazionale ci si aspettava qualcosa in più.
I sospiri del mio cuore è destinato a vestire perennemente i panni di unico lascito del talento di Yoshifumi Kondo, allievo prediletto di Miyazaki Hayao scomparso a soli 47 anni per un malore dovuto a stress da superlavoro. Una tragedia che portò Miyazaki ad allontanarsi per qualche anno dal cinema, afflitto dal dolore della perdita e dal senso di colpa. E che incrementa l'aura di malinconia che pervade il film, acuendo il lato "agro" rispetto a quello "dolce" di un racconto di formazione che mescola con maestria turbamenti dell'adolescenza, etica del lavoro, fede nei propri sogni e quel pizzico di magia che svolge un ruolo cruciale e maieutico nella consapevolezza di Shizuku sul proprio talento. Per Yoshifumi la suggestione di un negozio di cianfrusaglie, capace di attirare l'attenzione di un gatto sornione e di una ragazzina curiosa, è il motore di una svolta nel percorso di vita della protagonista, che si trova a mescolare la scoperta dell'amore e la ricerca della propria identità in un ottundente caos di emozioni. La delicata perizia di Yoshifumi Kondo si traduce in una messa in scena "verista" (più vicina in questo a Takahata Isao, l'altro mentore dello studio Ghibli, che a Miyazaki) della sceneggiatura di Miyazaki, in cui anche il minimo particolare è parte integrante della narrazione, contributo fondamentale alla veridicità del racconto e al potenziale di transfert tra spettatore e protagonista, in un racconto che si rivolge alle gioie e alle paure che accomunano gli adolescenti di ogni latitudine e generazione. La difficoltà di raggiungere un interruttore della luce, la necessità di un kleenex in più per un raffreddore che non se ne vuole andare sono piccoli gesti che contribuiscono al contrasto ossimorico con la sequenza "magica" (ma calata in un contesto onirico) in cui i due gatti magici Baron e Muta guidano Shizuku verso un percorso di crescita a cui manca solo un sentiero di mattoni dorati.
Lo script miyazakiano è immediatamente riconoscibile per alcuni topoi inconfondibili, a partire dalla scelta anagrafica della protagonista fino alla contrapposizione tra il Giappone come terra del Lavoro e l'Europa (specie l'Italia) come terra di Arte e Mistero: contrasto che si amalgama in uno Yin e Yang di sacrificio e talento, esemplarmente incarnati dalle contraddizioni del personaggio di Shizuku. Solo un finale sbrigativo e con ansia da happy end finisce per ridimensionare in parte gli spunti più stimolanti de I sospiri del mio cuore, quelli che si concentrano in un sinistro pre-finale che pare preludere a un futuro di disillusione, se non un presagio di morte, che resta uno spunto suggerito, ma parzialmente incompiuto. Come il talento di Yoshifumi Kondo, purtroppo, prematuramente strappato al cinema di animazione mondiale.
Il film è tratto da un manga (omonimo) di Aoi Hiiragi e i maniaci della Ghibli non mancheranno di apprezzare diversi omaggi celati qua e là al corpus miyazakiano, dalla scritta "Porco Rosso" su un orologio al pupazzo di streghetta che riecheggia la Kiki di Kiki Consegne a domicilio. I due gatti Baron e Muta ritornano come protagonisti in The Cat Returns di Hiroyuki Morita, del 2002.
Dal regista di Missione Tata, ancora una commedia per famiglie dozzinale (in tutti i sensi) con un cast di grido, dove alcuni nomi (la Duff su tutti) sono capaci di tenere in piedi la baracca al BoxOffice patrio, gettando ombra su uno Steve Martin sempre più scomposto e meno brillante. Tra crisi pre e post adolescenziali, viene dato risalto alla crescita dei singoli all'interno della famiglia Baker, in un canovaccio poco distante dal solito, fatto più di solenni disastri che di gag realmente divertenti. Uno script meno solido rispetto all'episodio precedente, con alcuni personaggi (in testa quello "interpretato" da Carmen Elektra) a vagare nel limbo delle caratterizzazioni ignave, per un prodotto che si mantiene comunque entro i limiti dell'accettabile, ma non entro quelli del consigliabile.
Alla favola di Pretty Woman mancavano solo scene da un matrimonio e marchio conclusivo "e vissero per sempre felici e contenti" per essere a tutti gli effetti una "Cenerentola a Los Angeles". Dieci anni dopo, questo complesso da fede nuziale porta a riunire la squadra per dare sfogo alla carenza di confetti, fiori d'arancio e successi commerciali. Nozze di stagno, quindi, per la triade Garry Marshall, Julia Roberts e Richard Gere (con partecipazione collaterale di Hector Helizondo), e nuova commedia romantica che stavolta mette da parte Cenerentole e Pigmalioni, prostitute e My Fair Lady, per orientarsi nella tradizione screwball.
La distanza sociale fra il mondo sotterraneo della prostituzione dell'Hollywood Boulevard e quello superattico dei finanzieri diviene distanza culturale fra cittadini newyorkesi e abitanti della campagna, mentre in primo piano assistiamo all'instaurarsi di una guerra dei sessi fra un cinico giornalista newyorkese e una country girl goffa e piena di insicurezze, ma capace di far breccia nel cuore di ogni uomo. Quel che Marshall purtroppo dimentica nel passaggio da un sottogenere rom-com all'altro, sono i principi della comicità: né il conflitto culturale, né quello amoroso hanno abbastanza verve e freschezza per uscire dai luoghi comuni della farsa, ed entrambi calano visibilmente man mano che le schermaglie lasciano il posto ai sentimenti. Ciò che funzionava in Pretty Woman è dunque esattamente quello che non funziona in Se scappi, ti sposo: la sofisticata leggerezza del primo, capace di rendere ironica e sognante anche la situazione più scabrosa, diviene sciatta faciloneria nel secondo.
I due protagonisti vengono chiamati a sopperire performativamente alle debolezze dello script e ad esibire un'inedita fisicità (Gere si fa colorare i capelli e si cimenta in smorfie piacione, mentre Roberts si reinventa in comiche slapstick). L'aspetto deteriorato delle dinamiche di coppia si riflette anche negli altri invitati alla cerimonia (comprimari più validi con poco spazio come Joan Cusack e Helizondo e meno validi senza il senso del ridicolo come la nonna erotomane) e soprattutto in una serie di mediocri scelte formali che culminano nel rimontaggio finale di alcune inquadrature, brutto video di nozze di un matrimonio già in crisi.
Le Chant du loup coniuga con audacia rara intrigo geopolitico e thriller d'azione. Un matrimonio tra riflessione profonda e immersione totale, tra azione pura e studio dei caratteri. Il film riposa sugli ingranaggi della dissuasione nucleare e sul principio dell'orecchio d'oro, ovvero un ufficiale all'ascolto di suoni sott'acqua per identificare una minaccia potenziale.
Interpretato da François Civil, giovane astro nascente del cinema francese, il protagonista si concentra su una vibrazione minacciosa che fatica a decifrare. In un qualsiasi altro film (americano) il suo lavoro sarebbe stato bypassato ma non qui. Personaggio a fior di pelle sull'orlo di un precipizio, la sua attività è sondata da vicino, con un'esattezza tecnica e un iperrealismo che serve la suspense e lo spettacolo ma apre altresì una dimensione profondamente poetica e misteriosa.
Cage calca i toni sin dall'inizio rendendo risibile un soggetto che, in altre mani, avrebbe potuto denunciare un fenomeno dolorosamente reale.
Non è tutta colpa di Stephen Daldry, dunque. Un materiale come quello redatto da Jonathan Safran Foer è fatto di scrittura e per la scrittura e il cinema, per lo meno quello narrativo tradizionale, può aggiungere davvero molto poco. O per lo meno dovrebbe.
La sceneggiatura di Eric Roth, pur all'interno di uno sforzo evidente di fedeltà al libro, opera una selezione che fa coincidere l'intero film con il suo giovane protagonista e finisce per confondere la ricchezza e l'originalità del narrato con la performance attoriale, certo eccellente, di Thomas Horn. In questo modo, la porzione di storia selezionata si rivela comunque claustrofobica e compressa: i tempi del cinema si avvertono scopertamente come innaturali. Eppure questa è ancora una scelta comprensibile, forse obbligata. Ce ne sono altre più ardue da condividere, come il modo in cui gli adulti si rivolgono al protagonista, con un portato recitativo infarcito di retorica, che getta un dubbio retrospettivo sull'effettiva, intima comprensione tra regista e personaggio. E poi c'è un secondo livello di retorica, che riguarda l'uso dell'immagine dell'11 settembre, insistito ed estetizzato. Come se ci fosse bisogno di sentimentalizzare un'immagine che parla da sé con forza inaudita, forse l'immagine che più ha parlato al mondo negli ultimi decenni.
È anche per questo, allora, perché lì non ci sono parole di troppo, strozzate nel pianto o urlate nell'isteria del momento, che la parte più bella e riuscita del film è senza dubbio quella in cui Oskar e il vecchio Max Von Sydow camminano per la citta, prendono i mezzi pubblici, bussano alle porte, si nascondono dietro una siepe: qui, su questa strana coppia che si muove nello spazio metropolitano, il cinema ha finalmente qualcosa da dire. Ma dura poco.
L'autoironia di Schwarzenegger ed alcuni effetti speciali sono le cose più riuscite di un film la cui idea di base meritava migliore sviluppo. Spottiswoode, già regista di 007 Il mondo non muore mai, dirige bene le scene d'azione ma non riesce a rendere coinvolgente una storia che risulta poco avvincente e non abbastanza divertente
**Sbroccare…**
Un bel film che illustra il medesimo evento da varie prospettive. Certo, per chi evidentemente è avvezzo ai film "impegnnnati" o "probbblematici", è solo un telefilm "americanamente consolatorio" (vuoi mettere i finali dei film con Alvaro Vitali?...). E non sono punti di vista, basta mettersi a guardare il film senza puzze sotto il naso.
Un po' Lost, un po' 24, il film di Pete Travis si ispira senza ispirazione alla produzione televisiva americana. Prova a catturare la nostra attenzione, a ottenere la nostra adesione e la nostra partecipazione emotiva, reiterando ed espandendo indefinitamente l'evento rappresentato (l'assassinio in diretta del Presidente) e lavorando sulle attese rispetto alla soluzione dell'enigma. Il regista inglese sceglie immodestamente di "rifarsi" proprio al (tele)cinema di J.J. Abrams (Lost) e di Joel Surnow e Robert Cochran (24), accumulando tutti i luoghi comuni legati ai killer spietati e perfezionisti, all'assassino redento per amore (di una bambina), all'alta tecnologia applicata al crimine, al thriller politico e così via.
Un film antologia, un assemblaggio di costanti, di tipizzazioni, di situazioni standard, che attiva immediatamente la memoria alla ricerca di una sequenza già vista e una battuta già ascoltata. Pesa sull'insieme un cast eterogeneo, attori privi di carisma, troppo carismatici o con la parte cucita addosso, una sfida fra divi che mette in gioco passato e presente. Alla fine resta poco: un thriller ordinario, risolto in modo sbrigativo e americanamente consolatorio, che genera aspettative ma non regala un surplus di qualità. Questione di punti di vista.