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Movie lists

Latest reviews:

Thirteen - 13 anni - Thirteen (2003) Thirteen - 13 anni (2003)
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Il film nasce da un fatto reale: la regista ha conosciuto Nikki Reed e ha sentito il bisogno di farle interpretare in prima persona le situazioni che la ragazza aveva vissuto o immaginato. L'idea è buona e il film vorrebbe essere scioccante. Peccato però che ricada poi nei soliti cliché con la madre tormentata, il suo compagno ondivago e non manchino tutte le caratteristiche della serie 'la mia peggiore amica.'

Another Earth (2011) Another Earth (2011)
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Vincitore del premio speciale della giuria e del premio Sloan al Sundance Film Festival del 2011 Another Earth è un'opera prima scritta, diretta, prodotta, fotografata e montata da Mike Cahill. Ha quindi tutte le caratteristiche del film indipendente da cui ci si può attendere delle sorprese. Che infatti ci sono. Anche se l'idea di base ha qualche remoto debito nei confronti di Solaris di Tarkovskij e l'immagine del pianeta che si staglia nel cielo rimanda (involontariamente perché questo film è anteriore) a quella dell'altrimenti minaccioso Melancholia di Lars Von Trier, il suo sviluppo si rivela interessante. L'altra Terra che compare sempre più incombente nel cielo è un esatto doppio del pianeta su cui viviamo non solo sul piano morfologico ma anche su quello della popolazione. Per ognuno degli umani vi è presente un doppio. Le possibilità di sviluppo di un plot iniziale di questo tipo sono innumerevoli e Cahill prova a sfruttarle concentrando la sua storia su un doppio livello. Da un lato il rapporto tra Rhoda e Burroughs che si sviluppa sul non detto (la ragazza diviene la sua addetta alle pulizie ma non gli rivela di essere la colpevole dell'incidente) e dall'altro la richiesta che Rhoda presenta per essere ammessa al primo volo diretto verso il pianeta. La riflessione su un percorso di espiazione che si intreccia con la tensione verso un confronto con un altro sé viene sostenuta per buona parte del film grazie anche all'ottima prestazione dei due protagonisti. Peccato però che un finale pacificatorio vanifichi quanto costruito in precedenza consegnando il film a una banalità che le premesse sembravano voler evitare.

Gold - La grande truffa - Gold (2016) Gold - La grande truffa (2016)
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L'oro da sempre è una calamita potente capace di attrarre masse di diseredati e ancora oggi, come ci hanno mostrato con efficacia le foto di Salgado (qui citate), è in grado di allestire bolge infernali che purtroppo non si collocano nell'aldilà. La febbre che provoca in questo caso non è quella di matrice chapliniana ma fa comunque alzare la colonnina di mercurio del mercato azionario coinvolgendo operatori attratti da un miraggio che ha i contorni della realtà. Al centro una coppia. Da un lato Edgar Ramirez/Michael Acosta che ha tutte le caratteristiche, anche fisiognomiche, dell'uomo per cui l'avventura e la scoperta di nuovi territori da esplorare costituiscono il senso della vita. Dall'altro Matthew McConaughey/Kenny Wells che, con una pancia da dieta di patate e birra per un mese e mezzo, costruisce uno di quei personaggi border line che tanto gli piacciono con un'adesione che sprizza da tutti i pori il piacere per ogni singola inquadratura.
I due, con il circo finanziario che inizia a girare loro attorno, offrono l'occasione per una riflessione su come il mondo dell'economia non solo da oggi (qui siamo negli anni'80) sia affidato a 'esperti' apprendisti stregoni che come il Mickey Mouse di Fantasia creano più danni che vantaggi. Si potrebbe sostituire la shakespeariana 'vita' con la parola economia per poi proseguire con: "è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, senza alcun significato" (Macbeth) senza timore di sbagliare. Un'ultima annotazione: nel film c'è una scena di McConaughey con un felino che è stata girata l'ultimo giorno di riprese. Non è difficile capire il perché.

Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts - The Peanuts Movie (2015) Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts (2015)
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Chi temeva che l'ennesima trasposizione cinematografica della saga dei personaggi creati da Charles Schulz fosse un'operazione kitch e priva di poesia sbagliava di grosso: nonostante gli innumerevoli compromessi per rendere Snoopy & Friends - Il film dei Peanuts appetibile ai bambini di oggi il risultato è piacevolmente naif, i caratteri sono rispettati alla lettera così come le loro interazioni, e i tormentoni della serie ci sono tutti - dal pallone di rugby sfilato all'ultimo momento da Lucy sotto il naso di Charlie al chioschetto della psicologa a 5 cent a seduta, dall'aquilone che non vola mai alla nuvola di sporcizia che circonda Pig Pen, dal Barone Rosso con cui Snoopy combatte la sua eterna battaglia all'incipit letterario "Era una notte buia e tempestosa" che appare in caratteri tipografici sopra la cuccia rossa del bracchetto più famoso del mondo.
Qualcuno obietterà che i personaggi sono stati alleggeriti di quella malinconia esistenziale che caratterizzava i nipotini della psicanalisi, ma volendo confezionare un film per bambini del Ventunesimo secolo e non un prodotto vintage per adulti nostalgici, era legittimo aggiornare le sensibilità della serie a un pubblico cinematografico meno cervellotico e più abituato a lasciarsi catturare da immagini in veloce movimento e storie raccontate con leggerezza.
La regia si sbizzarrisce soprattutto con le fantasie di Snoopy, e dunque i suoi inseguimenti aerei, i suoi appostamenti da avvoltoio, le sue esibizioni nei panni di Joe Falchetto sono pirotecniche e si concedono quella libertà creativa e cinetica che le vignette di Schulz dovevano imbrigliare nel formato statico della striscia quotidiana. I personaggi sono ben descritti nella loro essenzialità, così che anche i più piccoli e coloro che non sono cresciuti a pane e noccioline possono immediatamente identificarne le caratteristiche salienti: si tifa per Charlie, si vorrebbe essere Snoopy, si detesta Lucy Van Pelt, ci si innamora non della insulsa ragazzina dai capelli rossi ma di Piperita Patti, l'hippie supercool separata alla nascita dall'altra lentigginosa della letteratura under 13, Pippi Calzelunghe.
La sceneggiatura intesse con agilità e intelligenza gli elementi che hanno reso immortale i Peanuts: l'ironia, l'immaginazione, l'imbarazzo esistenziale, i tormenti dell'infanzia, le tradizioni dell'America anni '50, l'assenza degli adulti ridotti a brontolio fuori campo. Mancano gli agganci all'attualità, le spigolature psicanalitiche, e soprattutto il senso di ineluttabilità nel destino tragicomico di Charlie. Ma i piccoli spettatori risponderanno bene al suo riscatto finale, e si riconosceranno nel bambino dalla testa tonda e la maglietta gialla con la greca nera, più che in Linus, relegato a personaggio minore, non più icona di intellettuali nevrotici e tormentati.

Sfera - Sphere (1998) Sfera (1998)
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"...La più probabile conseguenza del contatto è la paura..." Sfera è un insolito film di fantascienza giocato sui paradossi del tempo, sulla relazione conflittuale tra subconscio e realtà, sulla dialettica tra debolezza umana e onnipotenza della scienza. Scandito didascalicamente in 11 capitoli (In superficie, Sul fondo, L'astronave, L'analisi, La sfera, La forza, Il primo scambio, Il mostro, Posti di combattimento, Ulteriore analisi, Camera di decompressione: 1° giorno) il film ha le cadenze di un dramma psicologico nel quale l'elemento fantascientifico della Sfera - simbolo iconografico della perfezione (con qualche possibile riferimento al monolito di 2001 Odissea nella spazio) - fa emergere la vulnerabile condizione esistenziale dell'uomo.Sfera non ha riscosso il successo preventivato. Più che in certe ingenuità del racconto, ciò che fa apparire il film timido e descrittivo è l'irrisolta sintesi tra istanza psicologica e avventura (si veda, al contrario, per un confronto illuminante, The Abyss). Cupa e claustrofobica nella bella fotografia di Adam Greenberg, la vicenda si snoda con cura diligente, ma senza infondere piena credibilità ai personaggi e senza toccare quelle impennate spettacolari alle quali la tecnologia degli effetti speciali ci ha abituato in questo genere di pellicole. Troppo ambizioso rispetto ad una regia avara di scatti, il film ingabbia il talento di ottimi protagonisti (il migliore è il disincantato Hoffman) e disperde episodicamente i pochi buoni momenti d'azione (il vortice del buco nero, l'assalto delle meduse e dei serpenti marini, la pioggia delle uova del calamaro gigante, l'incendio della base sottomarina).

La ragazza che giocava con il fuoco - The Girl Who Played with Fire (2009) La ragazza che giocava con il fuoco (2009)
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Cambio alla regia per il secondo capitolo della trilogia tratta dal caso editoriale di Stieg Larsson: Daniel Alfredson soppianta Niels Arden Oplev nei titoli di testa de La ragazza che giocava con il fuoco. Il materiale non gli manca, dal grandguignol psicanalitico del conflitto letteralmente di sangue tra padre e figlia, alla tensione erotica dell'indagine parallela dei due protagonisti che riescono a non incontrarsi (di nuovo alla lettera) fino all'ultimo respiro, all'intreccio propriamente poliziesco, che sfrutta la vicinanza geografica col mitico ex impero sovietico e i suoi bui segreti. I lettori lo sanno bene, che la materia scritta in questione è cibo per golosi, peccato che gli autori della trasposizione cinematografica appaiano inappetenti o, quanto meno, ospiti ingenerosi.
Film e romanzo si umiliano a vicenda, per ragioni opposte. La ricchezza di contraddizioni che fa il bello della storia, investendo tanto i due protagonisti (lui, con le sue strane regole per amare; lei, sorta di autistica geniale) quanto l'intera Svezia, società fondamentalmente democratica che contiene però sacche profonde di fanatismo e razzismo, nel film viene inspiegabilmente normalizzata, data quasi per scontata o per accidentale: si punta all'accoglienza nel club del thriller e ci si dimentica della ricerca della verità (che pure è perno del lavoro di lui e dell'essere di lei).
Alfredson sembra lavorare con un minimo di presenza solo sul corpo della protagonista, continuando il lavoro di disumano "tiraggio" dello stesso ai suoi limiti estremi: la donna che ha trasformato col ferro (dei piercing) e col colore (dei tatuaggi) un corpo inverosimilmente infantile in una macchina d'assalto si ritrova qui a metterla alla prova come mai prima, sotto i colpi dei proiettili e di una pala terminale. Roba da cinema. Ci si domanda perché snaturarla così.

The Dressmaker - Il diavolo è tornato - The Dressmaker (2015) The Dressmaker - Il diavolo è tornato (2015)
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Sostituire alle pallottole i vestiti, usare cioè le armi dell'esaltazione del corpo tramite la stoffa per vendicarsi, è la maniera in cui Jocelyn Moorhouse adatta la storia del romanzo omonimo di Rosaline Ham. Nell'outback australiano la regista cerca e trova le badlands del west, quel misto di desolazione ed isolazione che rende necessaria una presa di posizione etica. Dalla sua casa che domina una comunità stretta attorno al farmacista, al sindaco e all'insegnante elementare, Tilly è il baricentro morale del film e promette quello che il paesino non aveva mai conosciuto e invece lei ha imparato oltreoceano: la liberazione del corpo dal giogo dell'ottusità mentale.
Come in un film di Nagisa Oshima il vero potenziale di The dressmaker sta nella forza distruttiva che la legge dell'attrazione fisica esercita sugli uomini. Nonostante la dirittura morale della protagonista, alla fine ciò che incrina Dungatar sono i centimetri di pelle lasciata esposta dai suoi vestiti, i fianchi scolpiti e i look ammiccanti che crea, sono quelli a cambiare l'ordine sociale e portare i ricchi a sposare i poveri. Ma è solo un dettaglio purtroppo.
Il vera tema del film è quello del ritorno ed è illustrato perfettamente dalla prima scena che, ottemperando all'estetica western, vede un treno arrivare nella notte con un passeggero inquadrato solo per dettagli (tra cui la Singer, come fosse un Remington o un Winchester). Invece il segreto che macera nel passato della protagonista è il MacGuffin che spinge Tilly a prendere di petto la coscienza locale. The dressmaker quindi promette scintille fin da questo doppio movimento, cioè dalla maniera in cui Kate Winslet (in forma e combattiva come sempre, forse una della attici più costanti del cinema contemporaneo) combatte la piccolezza tramite la seduzione delle menti e dal modo in cui sembra che l'egoismo di provincia vinca comunque. Affascinata da Tilly e dal suo potere liberatorio ma ferma nella sua condanna bigotta, la comunità incarna la parte migliore di un film che come può evade dai propri doveri. Evade nel romantico, nel ruffiano e nel gentile. Evade nel prevedibile e nel quieto.
Purtroppo proprio queste piccole evasioni gli impediscono di mettere in scena la seconda parte con la malvagità e il cinismo che i suoi presupposti avrebbero meritato. The dressmaker aveva la trama giusta per un regista corrosivo spagnolo o anche le svolte adatte per una parodia britannica. Ancora il film poteva prestare il fianco alla satira di costume, ma Jocelyn Moorhouse rifiuta ognuno di questi possibili percorsi e, sebbene mostri di aver capito bene le parti più spinose e potenzialmente esaltanti della storia, nel lungo finale si lascia conquistare da un sentimentalismo non supportato dall'adeguata coerenza con lo spunto della trama.

Sex and the City 2 (2010) Sex and the City 2 (2010)
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Il secondo capitolo del "gonfiaggio" in scala cinematografica del serial Sex and the City riesce a deludere anche chi si affacciava senza aspettative. Snaturato di un senso, non foss'altro perché snaturato in toto degli elementi che lo costruivano (la città del titolo, per esempio, o la "quest" dell'uomo ideale, che da sola ha alimentato sei stagioni televisive) questo secondo e falso passo poggia sul niente e nel vuoto, coerentemente, precipita.
I messaggi di emancipazione femminile e lo spirito festoso, che avevano fatto l'interesse e la fortuna di Sarah Jessica Parker e socie, lasciano il posto ad un'inquietante cultura del condono, della ricchezza come risarcimento e rimedio, della sobrietà come deprimente per definizione. Il risultato è lo sciogliersi al sole dell'idea stessa di eleganza. Le inquadrature si fanno allora volgarotte e non si contano più di un paio di battute riuscite in due ore e mezza di brodo indigesto.
Le ambiguità ideologiche, poi, non si finirebbero di esplorare, e questa volta senza guadagno alcuno: dalla protagonista che ritrova se stessa solo nella fotografia del passaporto lasciato al banco delle scarpe, alla scena in cui le quattro americane si esaltano perché anche le donne arabe indossano l'ultima collezione francese sotto il burqa, non è mai dell'esistenza di un linguaggio universale e transculturale della moda che si sta trattando, bensì di come le quattro signore non facciano che usare gli altri come specchi.
E questo sì che è un problema, per il film: dei personaggi che non cambiano di un millimetro, che potrebbero andarsene ad Abu Dhabi come in Groenlandia ma non vedrebbero che loro stessi, immutabili, imbalsamati. Se lo scopo era quello di far sì che la spettatrice comune si sentisse rappresentata, si conti l'ennesimo buco nell'acqua: in questo tripudio di autoreferenzialità, non c'è certo lo spazio.

A casa con i suoi - Failure to Launch (2006) A casa con i suoi (2006)
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Paula, una Jessica Parker molto sexy e poco city, è una giovane consulente fermamente decisa ad aiutare Tripp a ritrovare se stesso e il proprio desiderio di indipendenza. La psicologia spicciola di Paula sembra funzionare ma le apparenze spesso ingannano e Tripp scoprirà presto l'imbroglio che, prontamente sciolto, diventerà amore.
Tom Dey (si pronuncia Dye), al suo terzo lungometraggio, firma una commedia gradevole che, se manca il decollo nella prima metà, prende quota e la mantiene nella seconda parte bilanciando buon umore e malinconia. Quando la vela dell'ultratrentenne protagonista finalmente si spiega, è allora che il regista s-vela la difficoltà di chi va ma soprattutto di chi resta. In un bel dialogo, sostenuto dal talento di Kathy Bates e dall'attitudine meno pronunciata di Matthew McConaughey (questo invece è impronunciabile), è la madre a confessare al figlio la paura di smettere il ruolo della mamma per tornare a confrontarsi col marito come compagna. La conversazione insinua sospetti: quello della resistenza del genitore alla separazione, quello dei ricatti morali messi in atto per trattenere i figli oltre il tempo massimo. Piccoli tentativi parentali, dissimulati e irresistibili, di fronte ai quali è impossibile non cadere in tentazione, o almeno nella tentazione di restare. Ma a riflettere troppo si sarebbe finito col fare una commedia romantica troppo sociale e troppo poco hollywoodiana. Meglio così.

Basil l'investigatopo - The Great Mouse Detective (1986) Basil l'investigatopo (1986)
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Uno dei cartoni Disney meno apprezzati e conosciuti(in particolare da quelli classe '90 in su).Certo è meno raffinato,sia nella storia che nel disegno,di molti prodotti coevi.Ma i personaggi sono azzeccati(compresi quelli secondari),il ritmo non viene quasi mai a mancare,e almeno due momenti sono indimenticabili:l'inseguimento nel negozio di giocattoli,e il finale sul Big Ben.Bella la colonna sonora.Considerato modestamente anche dalla critica,per me andrebbe rivalutato.Oltre che ai romanzi di Conan Doyle,è sicuramente ispirato anche al film con Basil Rathbone(da cui il nome del protagonista).

World Trade Center (2006) World Trade Center (2006)
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"God bless America". Sì, "Dio benedica gli Stati Uniti". Questa è la visione di Oliver Stone di quel giorno terribile, indelebile nella mente di tutti gli Americani. L'11 settembre è stato, infatti l'unico "atto di guerra" perpetrato sul territorio statunitense. Il regista, basandosi sui racconti dei due agenti sopravvissuti, racconta la vicenda umana e universale di un popolo ferito (emblematica la ripresa aerea di Manhattan, con il fumo, come sangue, che esce dalle torri) e lo rappresenta nel buio delle macerie delle Twin Towers, quasi fosse nella giungla del Vietnam, che Stone ha vissuto in prima persona. Nicholas Cage non è molto distante da quei soldati che, per difendere il proprio paese, sono andati incontro a qualcosa di più grande di loro.
I momenti terribili nelle tenebre, lo sporco sui visi, le macerie, si contrappongono alla celestiale luminosità dei volti delle famiglie in attesa (Maria Bello, nel film moglie di Mc Loughlin, ha per la prima volta gli occhi azzurri) e dei ricordi che passano velocemente davanti agli occhi dei protagonisti, per dirci che per non andare all'inferno bisogna avere un angelo custode. Questo impianto parallelo, a volte manierato, riduce l'impatto emozionale, che rimane comunque molto forte per le interpretazioni efficaci di Nicholas Cage e Michael Peña.
World Trade Center è il manifesto di cosa ha rappresentato quel giorno per un popolo, quello americano, che conferisce grande importanza ai valori dell'amicizia, dell'amore, della famiglia. E Oliver Stone è, ancor prima di essere un regista, un cittadino degli Stati Uniti.

Cado dalle nubi (2009) Cado dalle nubi (2009)
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Luca Medici, alias Checco Zalone, come tanti suoi colleghi s'imbarca sul volo che dal piccolo schermo, dal palcoscenico dei comici televisivi, porta al cinema, dentro un film. Con sé non ha una valigia di cartone ma un bagaglio più solido, che resiste al tragitto: un copione estremamente lineare, talora sbrigativo, ma mai volgare, e un gruppo di attori di contorno - su cui svetta Dino Abbrescia - che non si accontentano di offrire una spalla ma creano un piccolo mondo in una stanza.
Finisce alla pari, dunque, il confronto tra Checco Zalone e lo spettatore accorto. A svantaggio dell'attore, il fatto che, nonostante non si tratti di una sequela di gag ma di un film in tutto autosufficiente, non per questo Cado dalle nubi si potrà vedere con lo stesso piacere più di una volta: è un umorismo one shot, occorre accontentarsi; a suo merito, che la risata è certa, incontenibile.
Si riconfermano i punti forti dell'interprete: l'abilità nella scrittura della canzonetta demenziale nel contenuto e credibile nell'esecuzione e l'uso di un italiano storpiato dall'ignoranza, vergognosamente vicino a quello di tanta gente, giù dallo schermo. Gaffeur nato, "fenomeno" di stoltezza, il corpo comico di Checco Zalone è quello del modello sacrificale, che mette alla berlina in prima linea se stesso per costringere i suoi interlocutori al riesame di sé, alla fuoriuscita delle contraddizioni.
Scritto da Zalone stesso in coppia fissa con l'autore dei suoi testi Gennaro Nunziante, qui anche regista, Cado dalle nubi non rivede certo la storia della comicità cinematografica, non ne cambia una virgola né aggiunge una mezza frase, ma ha il pregio, nella sua meravigliosa mediocrità (per usare un'espressione che il film dedica al suo protagonista), di andare a stanare la piccola Iltalia che nella cronaca è fatta più di concetti che di immagini - i giovani dell'oratorio, le manifestazioni leghiste di portata locale - e di raccontarla senza ricorrere per forza al grottesco, cosciente che, ahinoi, non ce n'è nemmeno bisogno.

Hereafter (2010) Hereafter (2010)
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Non si può vedere "al di là" delle cose senza finire prigionieri del dolore. Lo sanno bene George e Marie, protagonisti adulti di Hereafter, che hanno oscillato sulla soglia, sperimentando la morte e scampandola per vivere al meglio quel che resta da vivere nel mondo. Un mondo reso meno imperfetto da un ragazzino che ha negli occhi e nei gesti qualcosa di gentile. Qualcosa che piacerà al George di Matt Damon e troverà un argine alla sua solitudine. Nella compostezza di una straordinaria classicità, che si concede un momento di tensione quasi insostenibile nella sequenza lunga e spietata del maremoto, l'ultimo film di Clint Eastwood insegna qualcosa sulla vita confrontandosi con la morte, quella verificata (Marie), quella subita (Marcus), quella condivisa (George).
Hereafter prende atto che la vita è un esperimento con un termine e si articola per questo attraverso prospettive frontali: al di qua e al di là del confine che separa la presenza dall'assenza. È questa linea di demarcazione a fare da perno al montaggio alternato delle vite di una donna, di un uomo e di un bambino dentro una geometria di abbagliante chiarezza e spazi urbani pensati per gravare sui loro destini come in un romanzo sociale di Dickens. Destini colpiti duramente e deragliati ineluttabilmente dalla natura (lo tsunami in Indonesia), dalle tensioni sociali (gli attacchi terroristici alle metropolitane londinesi), dalla fatalità (l'incidente stradale), destini che si incontrano per un attimo (o per la vita) in un mutuo scambio di salvezza. Perché da tempo i personaggi di Eastwood hanno abbandonato l'isolazionismo tipico dell'eroe americano a favore di una dialettica che mette in campo più interlocutori e pretende il contrasto.
Hereafter non fa eccezione e prepara l'incontro, il controcampo del campo: lo sguardo di Cécile De France che ha visto, quello di Matt Damon che riesce a vedere, quello del piccolo Frankie McLaren che vuole andare a vedere. Facendosi in tre l'autore mette lo spettatore al centro di qualcosa di indefinibile eppure familiare come il dolore dell'essere, produce punti di vista potentemente fuori binario sul tema della morte e offre a Damon l'occasione di comporre la migliore interpretazione della sua carriera. Disfandosi della cifra della neutralità, il divo biondo conquista l'emozione e la cognizione del dolore, abitando un sensitivo che ha visioni di morti (e di morte) al solo contatto delle mani, una tristezza profonda piena di pietà e il desiderio di smettere di vedere il passato di chi resta e di immaginare il futuro (e il sapore) di un bacio.
Clint Eastwood con Hereafter conferma la vocazione alle sfumature, azzarda l'esplorazione della morte con la grazia del poeta, interroga e si interroga su questioni filosofiche e spirituali e contrappone alla debolezza del presente e dentro un epilogo struggente l'energia di un sentimento raccolto nel futuro. Raccolto inevitabile, come un trapasso e ogni altra dinamica di natura.

Il Signore dello Zoo - Zookeeper (2011) Il Signore dello Zoo (2011)
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Rispetto alle precedenti occasioni in cui agli animali è stato fatto gentile dono della parola grazie alla combinazione di sceneggiatori zoofili ed effetti digitali, Il signore dello zoo propone un'ulteriore evoluzione fonatoria. Dopo averci lasciato scoprire che sanno comunicare fra di loro (Babe) e che ci sono umani che riescono a comprendere i loro pensieri (Il dottor Dolittle), ecco la nuova rivelazione: gli animali sanno benissimo articolare una voce e un linguaggio così come sappiamo fare noi umani, e se non lo fanno è solo per compiacere le nostre abitudini a considerarci superiori. L'idea è spiritosa e permette di lasciar andare il confronto fra Kevin James e il parterre di animali dalla voce famosa lungo la naturale direzione della comica slapstick, in cui il corpulento James impiega tutta la sua robusta fisicità per destreggiarsi fra improbabili lezioni di etologia sentimentale e una serie di pantomime imbarazzanti. Peccato però che il dono della parola non faccia questi animali più saggi degli uomini e che essi dispensino consigli controproducenti tanto per loro che per il film, contribuendo a spingere il guardiano fra le braccia arriviste della ex bionda e superficiale e la storia verso la cattività delle gabbie dei generi.
Come per gli umani con gli animali, le varie parti del film sembrano sapersi esprimere ma non voler dialogare tra loro, dando vita a una commedia romantica che è un po' anche un film per famiglie che è un po' anche un buddy movie sull'amicizia maschile. Niente di nuovo: questa scombinata formula è il segreto di Pulcinella dell'intera filmografia di Adam Sandler, qui presente nelle vesti di produttore esecutivo e nella voce della scimmia cappuccina.
Prese singolarmente, molte sequenze funzionano: la parte romantica regala una danza graziosa su dei drappi pendenti fra James e Rosario Dawson o una sfida spaccona su due ruote e in pista da ballo contro il rivale Joe Rogan. Il training per diventare maschio alpha della foresta fornisce un buon materiale per soddisfare le pretese di comicità familiare. Infine, la "notte da leoni" ambientata in un fast food fra il guardiano e il gorilla depresso con la voce di Nick Nolte assolve simpaticamente alla funzione goliardica e al quoziente bromance imposto dalla nuova commedia americana (con tanto di immancabile rimando finale a King Kong).
Queste le parti migliori di un film altrimenti mediocre, consapevolmente troppo pigro per sforzarsi di essere qualcosa di più della risata di una iena o dello stridere di una scimmia. Come per gli umani, anche fra gli animali il problema non è parlare, ma saper comunicare.

Il racconto dei racconti - Tale of Tales - Il racconto dei racconti (2015) Il racconto dei racconti (2015)
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Matteo Garrone attinge a piene mani, e con grande libertà creativa, a tre racconti de "Lo cunto de li cunti", la raccolta di fiabe più antica d'Europa, scritta fra il 1500 e il 1600 in lingua napoletana da Giambattista Basile. Il risultato è un caleidoscopio di immagini potenti ed evocative, ma anche un carnevale di umani sentimenti, pulsioni e crudeltà, nonché una riflessione profondissima sulla natura dell'amore, che può (dovrebbe) essere dono e che invece, per quelle fiere che sono (ancora) gli esseri umani, è spesso soprattutto cupidigia.
Ognuna delle vicende singolarmente narrate contiene qualcosa di ognuna delle altre: un doppio, un riflesso, una citazione, uno scambio di sguardi. La brama con cui la regina vuole per sé (e solo per sé) un figlio annulla il sacrificio del marito e soffoca il desiderio di essere amato (per sé) del nuovo nato, che una volta cresciuto incontra il suo "gemello" più povero ma infinitamente più libero. La lascivia insaziabile del re erotomane, archetipo predongiovannesco, è una sfida inesauribile alla morte e alla decadenza del corpo, così ben incarnata (perché di carne, pelle e sangue sempre si parla ne Il racconto dei racconti) dalle due anziane sorelle impegnate in una corsa a ritroso nel tempo che finirà per dividerle, "separando ciò che è inseparabile": come l'unione fra i due "gemelli" dell'episodio precedente, come il legame fra un padre immeritevole e una figlia degna di ereditare un regno nell'episodio successivo.
La struttura circolare della narrazione è, a tutti gli effetti, olistica (anche perché guidata da figure femminili), il che è particolarmente sorprendente perché i tre episodi sono stati girati separatamente, e non c'è stato tempo, né denaro, per effettuare il consueto lavoro di rifinitura cui Garrone è abituato. Ma la tessitura dell'arazzo era già insita nella scrittura (degli sceneggiatori Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, oltre allo stesso Garrone, ma ancora prima di Basile) e nell'immaginario cinematografico e pittorico del regista, che ripropone temi a lui cari - la trasformazione del corpo, la passione accecante, l'inganno - attraverso la codifica narrativa archetipale della fiaba e la crittografia visiva del genere fantasy, usato ad altezza autoriale senza dimenticare il pop delle sue origini e dei suoi intenti.
Garrone attinge a Fellini (La strada, Casanova) come al grottesco cortigiano dei dipinti di Goya, a M. Night Syamalan The Village, Lady in the Water) come al Mario Bava de La maschera del demonio, allo strazio romantico del Pinocchio di Comencini come alla comicità "medievale" de L'armata Brancaleone. E tiene in equilibrio il (suo) mondo (perché "l'equilibrio del modo deve essere mantenuto") come un funambolo sul filo, non a caso l'immagine che chiude Il racconto dei racconti: quello è Garrone, sospeso sull'abisso - del ridicolo, del cattivo gusto, del melodramma, della farsa involontaria - intento ad evitare il fuoco che lo minaccia da vicino. Perché la materia di cui è fatto Il racconto dei racconti, in Basile prima ancora che in Garrone, è supremamente incandescente e richiede atti "di coraggio e sacrificio" per essere narrata come una fiaba accessibile, che non si può possedere solo per sé.
Nell'immaginario visivo de Il racconto de i racconti c'è anche il Garrone precedente: il respiro ansimante delle creature selvagge, siano esse uomini o la loro trasformazione animale; i labirinti della mente; il tentativo di addomesticare l'altrui libertà; la solitudine come destino inevitabile; l'arroganza dei tanti "re" che "non ascoltano nessuno".
Anche l'uso delle musiche è Garrone, pur nella sua radicale differenza con, ad esempio, Gomorra, in cui sonoro era ambientale: perché anche se ne Il racconto dei racconti l'accompagnamento musicale (di Alexandre Desplat) è quasi incessante, nei momenti più importanti (e più crudeli) si arrende al silenzio assoluto, all'isolamento (anche acustico) totale dell'abbandono.
Nell'universo de Il racconto dei racconti eros e thanatos sono ossessioni supremamente vitali, le bestie si riconoscono all'odore e gli uomini (e le donne) diventano mostri tutti allo stesso modo. Garrone scortica gli esseri umani per rivelarne l'intima fragilità e leva loro la pelle perché è l'unico modo di chiamare in superficie quella pietas che ci permette di accettare la vita, anche nella sua suprema crudeltà.

Quel mostro di suocera - Monster-in-Law (2005) Quel mostro di suocera (2005)
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Quello che sicuramente sarà è il successo di questa commedia di Robert Luketic che racconta il conflitto domiciliare più antico del mondo, esorcizzato in un mare di risate. Risate a volontà che nascondono una riflessione e un suggerimento prezioso per le mamme e per le mogli (future) dello sposo, specialmente se italiane: lasciate fuori lo sposo dalla guerra. Il risultato sarà un figlio e un marito più sereno perché ignaro, come quello interpretato da Michael Vartan, di un conflitto al femminile che davvero non ha ragione di esistere. Una questione tra donne, belle e strateghe come la nuora Jennifer Lopez e la suocera Jane Fonda. Superlativa e bellissima madre dello sposo, Jane Fonda "strappa" il bouquet alla pur deliziosa nuora latina, indossando il bianco magnificamente e perfidamente meglio di lei il giorno delle nozze. Tutto da ridere e da vedere. Con la suocera.

Mr. Cobbler e la bottega magica - The Cobbler (2014) Mr. Cobbler e la bottega magica (2014)
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Se, sulla carta, Adam Sandler poteva sembrare il candidato ideale ad un ruolo del genere, in virtù dell'esperienza similare di Cambia la tua vita con un click, meno aderente poteva apparire il profilo di Tom McCarthy, specie dopo Il caso Spotlight. Il regista, in realtà, con Mr Cobbler e la bottega magica torna per molti versi al genere umanista dei primi tre film, di cui riprende l'idea di un protagonista maschile in letargo, che si apre alla vita in seguito ad un incontro particolare, ma la componente magica di questa parabola, per quanto metaforica e per quanto incastonata dentro la cornice di una leggenda yiddish, riscrive completamente i connotati del genere frequentato con successo dal McCarthy degli esordi e il risultato è meno interessante.
Sarà che la magia dell'incontro con l'altro, che finisce per ridefinire il sé del personaggio, non passa più dalla frequentazione con un essere umano ma da un oggetto, che già è spettato in sorte ad altri e così continuerà a fare, o sarà che la parte di Dustin Hoffman fa acqua senza mezzi termini, non suscitando la sorpresa che vorrebbe e non sfruttando le potenzialità che contiene, ma la sensazione ultima è che la fabula in sé non abbia sufficiente cuore né abbastanza avventura per rispondere alle aspettative dell'intro in salsa Coen. Non è dunque un difetto di retorica, se mai un problema di inconsistenza.
La buona notizia, invece, è proprio Adam Sandler, che mettendosi nei panni di Max il calzolaio (anzi, camminando nelle sue scarpe, come dicono gli anglosassoni) trova l'identità cinematografica migliore da qualche tempo a questa parte. Non più giovane, ma ancora acerbo socialmente, il suo Max è un immaturo diverso dai tanti personaggi clowneschi interpretati dall'attore newyorkese. Bolso all'occorrenza, insolitamente trattenuto, è un personaggio che cammina in ogni occasione con lo stesso passo del film.

Scrivimi una canzone - Music and Lyrics (2007) Scrivimi una canzone (2007)
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La commedia romantica di Marc Lawrence gioca con l'estetica degli anni '80 e ridicolizza con affetto usi e costumi di un'epoca fortunata - grazie all'interpretazione spassosissima di Hugh Grant - per raccontare la storia di Alex (Grant) e Sophie (Drew Barrymore). L'alchimia tra i due attori è evidente; lo spirito e il fascino dell'uno si mescola al peculiare senso dell'umorismo dell'altra al punto che se fossero due elementi musicali sarebbero melodia e testo (come d'altronde sottolinea il titolo originale, Music and Lyrics). La melodia, come spiega la dolce paroliera, è l'attrazione che provi per una persona quando la incontri per la prima volta, il testo subentra quando la conosci meglio. Il videoclip iniziale dei Pop! - la band che diede il successo ad Alex - chiarisce subito l'intento del regista, che è quello di far divertire seguendo il classico schema della commedia a lieto fine. Intorno alle problematiche dei protagonisti principali - lui è una "meteora felice" che vive nel ricordo del passato, lei è stata derubata dell'identità divenendo suo malgrado protagonista del libro di successo di un suo ex - si muovono personaggi secondari che condiscono il film con ulteriore ilarità. C'è la sorella di Sophie, grande fan dei Pop!, c'è il manager di Alex e ovviamente c'è Cora Corman, la cantante sexy della generazione "bubblegum" che espone la sua spiritualità in balletti orgasmici. Il concerto finale ricicla la produzione del live di Linda Moon in Be Cool, che per certi versi - tolte le vesti da "thriller" - potrebbe essere un lontano parente di Scrivimi una canzone.

Ben-Hur (2016) Ben-Hur (2016)
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Nel 2016 l'eredità di Ben-Hur è il risultato di diverse ricontestualizzazioni. L'impeto retorico del messaggio religioso del testo originario di Lew Wallace non è più attuale, come difficilmente lo è l'idea di kolossal hollywoodiano classico nell'era dei blockbuster Marvel e DC. Il ricordo delle imprese di Giuda Ben-Hur pareva consegnato per sempre alle memorie degli Oscar, con l'ineguagliabile record di 12 statuette vinte, e a quelle della storia del cinema e della sua evoluzione tecnologica, segnate in maniera indelebile dalla spettacolare sequenza della corsa delle bighe. Nel 1959 realizzare concretamente la sfida mortale tra Ben-Hur e Messala significò non solo l'impiego di mezzi ingenti e tecnologicamente all'avanguardia, ma la mobilitazione di un autentico esercito di maestranze: fu lì che Hollywood misurò la propria potenza.
L'eredità di quel momento culminante del cinema d'azione è stata raccolta da altri contesti, dagli inseguimenti tra tir nel deserto australiano dei diversi Mad Max alla corsa tra sgusci di Star Wars Episodio I: La minaccia fantasma. Il canone cinematografico, in sostanza, è rimasto vivo senza il ricorso al remake letterale. Almeno fino al 2016, in cui Timur Bekmambetov accetta la sfida con il mastodonte di William Wyler e riscrive nuovamente la storia di Giuda Ben-Hur. Puntando senza mezzi termini al lato action, anzi aggredendolo fin da subito. L'inizio è infatti in medias res, con Giuda e Messala pronti a frustare i loro destrieri, prima che abbiano inizio il flashback e il racconto delle origini di Ben-Hur. Una necessità impellente di sfidare il mito hollywoodiano, che si avverte tanto nella frettolosa sceneggiatura che nella regia marziale e impersonale del cineasta kazako, che nel tratteggio psicologico dei personaggi dimostra lo stesso entusiasmo espresso Ben-Hur in catene, quando fa andare i remi a ritmo di tamburo. Il lungo flashback iniziale assomiglia così a una soap opera costellata di prevedibili micro-climax, in cui la parziale riscrittura dell'intreccio - Messala ora è un fratello adottivo di Ben-Hur che abbandona il tetto, il principe ospita uno degli Zeloti che attenta alla vita di Pilato, lo sceicco Ilderim diviene uno dei personaggi principali e motore del riscatto di Ben-Hur, ecc. - non fa che peggiorare la situazione in termini di credibilità e di interesse generale.
Il cuore della vicenda rimane una storia hollywoodiana - rivisitata con l'estetica di violenza neo-putiniana di Bekmambetov (produttore di film come Henry) - di amicizia, tradimento, vendetta e perdono reciproco. In cui il "racconto del Cristo", sottotitolo del film di Wyler, risulta sempre più un fastidio narrativo, un compito da sbrigare. A partire dalla caratterizzazione visiva del Messia, che da una figura misteriosa mai inquadrata in volto per Wyler diventa, negli scarsamente credibili panni di Rodrigo Santoro, un prestante falegname che dispensa saggezze mentre pialla una tavola. Una guida etica e consolatoria, che scioglie alcuni snodi dell'intreccio (guarire i lebbrosi, tra cui madre e sorella di Ben-Hur, e spingere quest'ultimo verso la misericordia) ma resta sostanzialmente in disparte (più per l'ingombro etico che per rispetto sacrale).
È al contrario assai superiore la venerazione dimostrata da Bekmambetov per la corsa delle bighe, la cui riproposizione Cgi non delude, sfruttando le nuove capacità offerte dalla tecnologia. Il regista kazako limita sorprendentemente gli eccessi, sia in senso splatter che di esagerata spettacolarizzazione del dolore, e riesce a tenere inchiodati fino all'ultimo gli spettatori. Esaurita la sfida di Ben-Hur ha però termine il senso stesso del film, che procede stancamente verso un epilogo in cui le libertà rispetto agli adattamenti precedenti abbondano e in cui il progetto sembra ridimensionare il proprio profillo ad ogni passo. Se stupisce che Hollywood non abbia pensato prima a un remake, sorprende che infine per il remake sia stato scelto un profilo così basso.
L'unico tema interessante che lo script - tra gli autori il John Ridley di 12 anni schiavo - propone è la rappresentazione dell'impero romano come macchina dell'eccesso, che spende e guadagna ingenti capitali per finanziare vizio e sport estremi. Un crudele meccanismo di morte e potere, che ha il proprio punto debole nell'insaziabile avidità, compreso e scardinato dal personaggio di Ilderim, interpretato dall'immancabile Morgan Freeman, coperta di Linus di ogni blockbuster. Il punto di vista di Ilderim, personaggio per lo più minore per Wyler, è totalmente post-capitalistico e antistorico ma personale. Purtroppo è anche l'unico abbozzo di sostanza, sotto la superficie di un remake per il resto greve, inutile e inutilmente rumoroso, destinato a essere rapidamente dimenticato, alla stregua di un cattivo sogno.

The Signal (2014) The Signal (2014)
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William Eubank aveva già affrontato la fantascienza nella sua filmografia e qui conferma di conoscerne i principi basilari permettendosi anche più di una citazione (ivi compreso il riferimento al romanzo di Philip K.Dick a cui si è ispirato Ridley Scott per Blade Runner). Si concede anche un lungo spazio di prologo in cui delinea i rapporti all'interno del trio prima di entrare nel vivo della vicenda. Alla quale non può essere richiesto di applicare una logica ferramente consequenziale come quella che utilizza il protagonista nella scena di apertura perché il depistaggio dello spettatore detta legge in questo script.
Sul piano dell'estetica siamo di fronte a diverse raffinatezze un po' inficiate dall'uso eccessivo di ralenti nell'ultima parte. Ciò che però risulta più interessante e che va oltre alle inevitabili critiche di chi riterrà prevedibili gli sviluppi narrativi e le lodi di chi invece apprezzerà l'aspetto formale che mette in gioco diversi generi (dal teen movie al thriller) è il confronto tra due generazioni di attori. Da un lato ci sono l'esperienza e il mestiere di Laurence Fishburne che nella sua carriera (che ha toccato ormai le 100 presenze) è stato Morpheus in Matrix, Ike Turner in What's Love Got to Do with It ed Otello nel film omonimo. Si tratta di un attore che, anche se infilato in un ingombrante tuta per tutto il film, riesce ad esprimere innumerevoli sensazioni con mezzo movimento delle labbra. Di fronte a lui una star in ascesa come Brenton Thwaites (classe 1989) che nel giro di due anni è passato da b-movie horror di qualità come Oculus al mondo di Maleficent nei panni del principe Philip. Qui mette tutta la sua carica nervosa al servizio del personaggio. Non è necessario amare la fantascienza per apprezzare questa sfida.

Prima o poi mi sposo - The Wedding Planner (2001) Prima o poi mi sposo (2001)
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Jennifer Lopez cambia registro e, dopo le allucinazioni di The Cell, e i precedenti Anaconda " e Out of Sight, cerca la commedia romantica. Restiamo molto perplessi.

Ragione e sentimento - Sense and Sensibility (1995) Ragione e sentimento (1995)
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È singolare come un regista di Taiwan sia riuscito a cogliere lo spirito inglese di quella stagione. Conta senz'altro la sceneggiatura scritta dalla Thompson, che le ha valso il premio Oscar. Case stupende, campagna dolce di laghi e di fiumi, la pioggia che fa incontrare gli amanti, i sonetti di Shakespeare, i balli a Londra, l'educazione, i sentimenti formali di quel tempo. Tutto comunque dipende dallo stato sociale, cosa valida soprattutto per le donne. Soltanto fatti eccezionali potranno cambiare le cose. Il testo della grande scrittrice inglese ha certamente facilitato tutto quanto. Il film ha avuto la "nomination" ed è stato battuto da Braveheart, ma il risultato avrebbe anche potuto essere ribaltato e nessuno avrebbe urlato allo scandalo.

Vita da camper - RV (2006) Vita da camper (2006)
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Commedia tutta incentrata sulla figura di Robin Williams, che in questo film come non mai veste i panni del bravo e pedante padre di famiglia e tanto ricorda Mrs. Doubtfire, non riesce davvero nell'intento del one man show. Il ritmo non riesce mai a decollare lasciando spazio a sonori sbadigli, le gag che dovrebbero far ridere riescono raramente e a malapena a strappare un sorriso e molto più spesso cadono nel ridicolo tanto sono improbabili. La commedia per tutta la famiglia è certamente uno dei prodotti che Hollywood predilige: buonismo a go-go, politically correct a tutti i costi, una buona dose di bigottismo e un sicuro quanto prevedibile happy ending finale. Ma se la consunta ricetta riesce ancora a dare di tanto in tanto buoni risultati, con questa pellicola non si può dire altrettanto, nonostante il regista Barry Sonnenfeld - che qui appare assolutamente privo di personalità e talento - abbia girato alcuni film di tutto rispetto fra cui La famiglia Addams, Get Shorty e Men in Black. Un film assolutamente trascurabile.

Sole a catinelle (2013) Sole a catinelle (2013)
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Li prende e Checco il burlone, un po' Sordi un po' Zalone, si mette in viaggio pensando di aggirare l'intelligenza del figlio con qualche sorniona battuta ad effetto. La vacanza da sogno arriva in Molise da una zia tirchia, laddove l'aspirante agente ha pensato di raschiare il fondo dell'ultimo rampo parentale, ma sono quasi tutti morti. Il figlio decenne non ci sta a passare le vacanze promesse d'oro in un paese di moribondi e s'incazza, letteralmente. Il padre ripiega verso nord in una sorta di involontario remake barese di In viaggio con papà, senza più Sordi e Verdone, senza più la Sardegna dei pre-Berlusconi, ma con lo sfondo di un'Italia ugualmente cafona nel cuore di una Toscana miliardaria tra chic di sinistra e imprenditori a Portofino. In questo viaggio incontreranno una varia umanità di cialtroni, truffatori, venduti, corrotti, assistiti, megalomani...
Nel suo irradiarsi sornione tra le cose dell'Italia di oggi, Checco Zalone si fa paladino di una parodia esilarante, pupo e puparo allo stesso tempo, attore e autore di gesta tanto involontarie quanto leggendarie. Parla e agisce per antifrasi (perdoni Zalone la parolaccia) e con la forza di questo antico motore dell'ironia toglie la maschera a tutte le figure della sua parata goldoniana, neanche più grottesche ma quasi semplicemente realistiche, forse anche immalinconite per quanto sono ripetitive e note, eppur resistenti.
Il viaggio con papà è solo un pretesto, una rete dentro la quale il comico fa cadere le sue vittime, infinita la schiera: maestre, psicologi, imprenditori, operai, omosessuali, comunisti, logopedisti, massoni, naturalisti, giornalisti, finanzieri, neri, cinesi, artisti, registi, maestri yoga... davvero tanti, quasi tutti, tranne i politici. La loro assenza è rumorosa e molesta (ma forse comprensibile) in questa ronde comunque agghiacciante. D'altronde questi italiani "a catinelle" non sembrerebbero molto diversi dalla classe dirigente che li governa, almeno questo sembrerebbe dire l'autore, ma molto tra le righe, visto che il suo agnosticismo dichiarato lo porterebbe a negare qualsiasi interpretazione. Zalone d'altronde non si mette certo sopra il suo mondo cafone, è primus inter pares, "disgraziato e stronzo" come gli altri, ma certo simpatico e travolgente (come lo era Sordi, senza essere Sordi).
Non mancano le famose canzoni, quelle neomelodiche e parodistiche che hanno reso famoso il comico di Zelig, che a tratti trasformano il film in un musicarello, ma senza pretese, anzi con un altissimo grado di auto-ironia. Dei tre film di Zalone questo è il più ambizioso e riuscito.

Planes (2013) Planes (2013)
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Due le precisazioni necessarie. Innanzitutto, gli aerei della Disney, come salta agli occhi, vengono dall'officina dalle macchine della Pixar, Cars e Cars 2, che non rappresentano esattamente il fiore all'occhiello della produzione, ma più sinceramente i capitoli meno ispirati. In secondo luogo, erano stati pensati per "volare" direttamente su dvd, ma poi qualcuno ha creduto in loro, dandogli la possibilità di librarsi più in alto, all'altezza delle sale cinematografiche. E tutto sommato è stato un bene, perché i pregi e i difetti del film si pareggiano, alla fine dei conti, in un esito non eccelso ma nemmeno deludente, anche se maggiormente attrezzato per soddisfare i piccoli sul momento che non per aspirare ad un posto nella videoteca dei genitori.
In fondo, il difetto di fabbricazione di Planes è anche ciò che lo salva dallo schianto, e cioè l'estrema linearità della sua traiettoria. Nonostante il film ripeta e ribadisca il concetto per cui superare i propri limiti (soprattutto quelli che le etichette degli altri ci hanno cucito addosso) possa riservare grandi sorprese, e nonostante si disserti di vertigini e delle vette più alte del mondo, la storia di Dusty non riserva colpi di scena né mozza mai veramente il fiato: il piccolo aeromobile va dritto per la sua strada, lungo la pista della macrocategoria narrativa del "niente è impossibile, basta crederci". Orfani d'invenzioni originali, ci possiamo però rallegrare della leggerezza del film, che non esagera in preamboli (il sogno e l'handicap del protagonista sono dati per acquisiti nei primi minuti) né in retorica di alcun tipo, ma, appunto, conquista la meta con simpatia e insolita modestia.
In tema di gare di corsa, le lumache della DreamWorks non hanno niente da invidiare a questo film, ma è probabile che il loro destino sarà accomunato da una scarsa memorabilità. Nei cieli animati, intanto, continuano a vincere "Dastardly, Muttley e le macchine volanti".

Cena tra amici - What's in a Name (2012) Cena tra amici (2012)
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Di cene più o meno tra amici, magari con delitti previsti nel menu, il cinema mondiale ne ha già imbandite tante. Meglio avrebbe fatto la distribuzione italiana a tradurre letteralmente il titolo originale o, comunque, a rievocarne la specificità. È 'il nome' non tanto la cena il perno attorno a cui ruota tutto il film. A partire dai curiosi titoli di testa in cui i cognomi di chi ha collaborato alla riuscita dell'operazione sono rigorosamente esclusi. Per proseguire poi con il percorso di un ragazzo che consegna le pizze in moto, marcato dalle intestazioni delle strade con tanto di minibiografia dei titolari.
Infatti, inserendosi nella tradizione del teatro boulevardier di qualità Cena tra amici costruisce tutto attorno a un nucleo centrale e, come accadeva a Francis Veber per il riuscito La cena dei cretini Delaporte e De la Patelliére hanno il controllo assoluto dei tempi comici. La loro è un'opera prima per quanto riguarda il cinema ma il testo è stato scritto a quattro mani e il cast (con un'eccezione) è quello della messa in scena (hit al box office) di Bernard Murat. L'eccezione è costituita da Charles Berling che sostituisce Jean Michel Dupuis aggiungendo, per il pubblico francese, un alone di Gauche acculturata che l'attore ha costruito nel corso della sua carriera. Non si pensi di trovarsi dinanzi a una rivisitazione di Carnage. Là l'incontro avveniva tra sconosciuti mentre qui c'è un passato di relazioni e di non detto che finisce per prendere il centro della scena. La teatralità originale a tratti si fa sentire, soprattutto quando i toni iniziano ad esasperarsi, ma complessivamente il film tiene e riesce a far sorridere (un po' amaramente) anche se, il doppiaggio (per quanto perfetto) priva queste commedie d'Oltralpe di quella musicalità (che si trasforma talvolta in pomposità) e di quel ritmo che sono insiti nella lingua. Il finale per alcuni costituirà una vera sorpresa (da più punti di vista).

8 amici da salvare - Eight Below (2006) 8 amici da salvare (2006)
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I ghiacci del polo sud fanno da imponente cornice a questa favola moderna, in cui si celebra a tutto tondo il valore dell'amicizia. Seppur appesantita dall'eccessivo minutaggio e viziata da sequenze pseudo-documentaristiche posticce, l'opera trova nell'innata espressività degli animali la propria ragion d'essere, contesto in cui anche la totale mancanza di carisma di un Paul Walker sempre più telecomandato risulta funzionale. Intrattenimento per famiglie secondo tradizione Disney.

Chloe - Tra seduzione e inganno - Chloe (2010) Chloe - Tra seduzione e inganno (2010)
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Chloe, come pure le False verità, segnano uno scarto rispetto alla filmografia di Atom Egoyan, accumulando una serie di elementi di potenziale richiamo, anche pruriginosi, che sembrerebbero distinguerlo dal cinema introverso e problematico del regista armeno-canadese. Eppure anche questa volta Egoyan procede costantemente oltre le superfici delle apparenze, insinuando e confermando dietro il glamour, il sesso, la messa in scena della nudità e di rapporti omosessuali, i temi e gli stilemi consueti del suo cinema. Chloe dichiara l'esplorazione del mistero dell'individuo attraverso una composizione non lineare del racconto che rende conto della complessità del reale e della stratificazione temporale dell'esperienza.
Egoyan restringe progressivamente il cerchio d'azione e degli spazi, dalla strada alla casa, dalle architetture avveniristiche e dai paesaggi urbani di Toronto agli interni, mettendo a fuoco l'interiorità di personaggi repressi in pubblico e appagati in clandestinità. Mentre lo spazio viene sottoposto a un graduale processo riduttivo, il montaggio si frantuma con l'innesto di flashback e poi si ricompone a delineare l'interfaccia di passato e presente, di ciò che è stato o di ciò che probabilmente non è mai stato. Emotivamente fragili, perduti, ritrovati o sacrificati, i protagonisti di Egoyan precipitano in una crisi esistenziale e sentimentale che esploderà in un conflitto incrociato ed estenuante. Chloe aderisce a un genere preciso e a una drammaturgia riconoscibile: il family melodrama, territorio ideale e privilegiato su cui insediare personaggi a analizzarli al microscopio. Egoyan mette allora in scena l'amore e l'inganno, le scelte affettive sbagliate e l'inevitabile usura del tempo nei legami, il rimpianto per una perfezione che non esiste in un mondo finito e imperfetto e il superamento dei confini dell'altro, della sua intimità e della sua libertà interiore. Adottando il genere che più di altri simula l'ordine della vita, l'autore non è interessato a spiegare, interpretare o risolvere quanto a rappresentare gli scarti immaginari dei sentimenti.
Il cuore pulsante di Chloe è Julianne Moore, espressione massima di garbo e grazia, eleganza e sofisticazione, risvegliata dal torpore dei sentimenti dalla ninfetta bionda e splendente di Amanda Seyfried. Tra il corpo musicale di Chloe e i sensi inattivi di Catherine si "accomoda" il marito inafferrabile di Liam Neeson, capace di (ac)cogliere il (ritrovato) dinamismo emozionale della compagna e di ricongiungersi a lei dentro un dolce domani.

Al vertice della tensione - The Sum of All Fears (2002) Al vertice della tensione (2002)
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Ci siamo giocati anche Jack Ryan, l'analista CIA protagonista della più accattivante serie d'avventura del cinema contemporaneo: intelligente, spettacolare, mai banale. Grazie all'autore cartaceo, Tom Clancy. Il quale in questo caso è anche produttore esecutivo, dunque garanzia di ulteriore qualità. Invece no, per Ryan è stato deciso lo stesso destino di Bond, un'evoluzione verso la fantascienza e gli effetti speciali. Le precedenti storie di Clancy ( Caccia a ottobre rosso, Sotto il segno del pericolo e Giochi di potere) erano splendide architetture scoppiettanti ma verosimili, frutto delle forti amicizie dell'autore in ambienti riservati a pochissimi. In questa ultima storia non si è resistito alla "solita" tentazione detta sopra. Qui c'è di mezzo una vecchia bomba atomica ritrovata nel Golan da un superfanatico neonazista che ricorda tanto la Spectre (non c'era di meglio?) che vuol fare litigare Russia e America perché si distruggano a vicenda. Clancy è maestro nei colpi di scena, negli "u turn" improvvisi: infatti nessuno si aspetta che la bomba esploda davvero, a Baltimora, col Presidente salvato per un pelo. A questo punto il film diventa qualcosa fra un Day After,un A prova di errore e uno degli ultimi Bond, coi due presidenti di Usa e Russia, che riescono a evitare la fine del mondo nucleare grazie proprio a Ryan che ha intuito la verità. Affleck, il nuovo Ryan, ha la metà degli anni di Harrison Ford, ma il riferimento al destino di Connery-007-sempre-rimpianto è davvero automatico.

Corsa a Witch Mountain - Race to Witch Mountain (2009) Corsa a Witch Mountain (2009)
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La Disney ha deciso di proporci un remake. Perché Corsa a Witch Mountain ha come antenati due film degli Anni Settanta: Incredibile viaggio verso l'ignoto e Return from Witch Mountain. Anche in quel caso la produzione era della major americana specializzata in cinema per i più giovani. I tempi però sono molto cambiati e non si può più offrire al, per quanto giovane, smaliziato pubblico dei nostri giorni una storia semplice semplice.
Ecco allora l'inserimento di una star che non è nota col proprio nome e cognome (Dwayne Johnson) quanto per l'appellativo che si è lasciato volentieri appiccicare addosso: "The Rock". Con lui a fianco l'azione non può mancare e i due giovani protagonisti (in cui lo spettatore più o meno coetaneo dovrebbe identificarsi) possono sentirsi in pericolo ma protetti. Così il gioco è fatto per un film che non ha altre pretese se non quella di intrattenere in modo innocuo. Ogni tanto se ne sente il bisogno.