I fatti sono ben fissati nella memoria e le figure pubbliche fortemente caratterizzati: una combinazione ad alto rischio nella cui trappola i film biografici tendono a cadere. La sceneggiatura di Noah Oppenheim riesce nell’esercizio di equilibrio concentrandosi sui giorni tra Dallas e il funerale di JFK (Caspar Phillipson) così che il lavoro di Larraín può analizzare a fondo i personaggi con al centro i dubbi di Jackie (Natalie Portman), giovane donna dalla vita fortunata che si ritrova a vacillare dopo l’omicidio del marito, amato malgrado i conosciuti difetti.
La visione in lieve flashback attraverso il dialogo con il giornalista senza nome (Billy Crudup) che si ispira una reale intervista rilasciata a ‘Life’ consente un ulteriore filtro oltre al dover soppesare la realtà e la leggenda.
Ne esce un melodramma trattenuto che cresce col passare dei minuti: non è facile sintonizzarsi perché la regia si sforza di trasferire nello spettatore l’oppressione interiore della protagonista riecheggiata nella colonna sonora ansiogena di Mica Levi e nella fotografia autunnale di Stéphane Fontaine, ma il risultato è davvero notevole grazie a una scrittura al limite della perfezione e a una Portman strepitosa: l’immedesimazione va ben al dilà della somiglianza fisica – lo stesso vale per Peter Sarsgaard nei panni di Robert Kennedy – e Larraín se ne giova come meglio non si potrebbe.
In particolare, risultano emozionanti i duetti dell’attrice con John Hurt che, in una delle ultime interpretazioni, dà vita al sacerdote che raccoglie - con un certo scetticismo – la confessione dei tormenti della smarrita Jackie.