Attacco al potere 3 ha il tipico intreccio di una stagione di 24, con attentato spettacolare e conseguente caccia all'uomo dove l'eroe deve non solo dimostrare la propria innocenza, ma pure salvare il Presidente in fin di vita e con lui il mondo sulla soglia di una militarizzazione spinta. Al posto dei 24 episodi tutto si articola in due ore, ma non se ne ricava alcun incremento di tensione, anzi ogni cosa appare generica e improbabile e, a parte per l'attacco dei droni basato su tecnologie reali, il resto è ben poco ispirato.
La forma di commedia adolescenziale nasconde diverse riflessioni (in chiave ironica-semiseria) sugli stereotipi dell società odierna, sulle difficoltà quotidiane dei giovani nell'età della maturità, su tabù di una volta (la pornografia spettacolarizzata) oggi sulla bocca di tutti. La ragazza della porta accanto conquista con leggerezza, gridando e sussurrando, e si prende la rivincita su molte banali commedie americane, regalando un'ora e mezza di spensierato divertimento.
Dopo il harakiri a tutto schermo di Antichrist Lars Von Trier decide di rinunciare ai colpi bassi nei confronti dello spettatore offrendogli, in versione apocalittica, la sua visione delle sorti dell'umanità su questa Terra. Lo fa con un prologo wagneriano ("Tristano e Isotta") di alta e simbolica qualità estetica a cui fa seguire una bipartizione che vede protagoniste le due sorelle (prima Justine e poi Claire). Due sorelle, due donne che il 'misogino' per definizione del cinema europeo prende questa volta, in particolare Justine, come rappresentanti di se stesso. Di Justine condivide la sensazione viscontiana di fine di un mondo che merita di dissolversi e, al contempo, il dissacrante e sofferente distacco da tutte le convenzioni. In Claire vede il bisogno (registico) di 'mettere ordine', di trovare un senso, di controllare anche l'ineluttabile. Le circonda di una folla vinterberghiana (Festen) ritrovando parte degli stilemi del Dogma, nella prima parte, per poi, progressivamente, lasciarle sole con il figlio bambino della seconda e con la Natura. Una Natura che in Von Trier è sempre 'avanti' rispetto all'essere umano sia che avverta i segni di una catastrofe sia che ne anticipi la dissoluzione. Sulla complessità di un mondo che vorrebbe poter amare non riuscendoci, il regista danese fa intervenire il suo amore per l'Arte che si è data il compito di 'leggere' per noi la realtà nel profondo. Nel farlo getta un ponte (più o meno conscio non sappiamo) con un Maestro del Cinema come Andrej Tarkovskij. Come non pensare a Lo specchio dinanzi alla doppia proposizione de "Il ritorno dei cacciatori" di Pieter Brueghel il Vecchio? Ma, soprattutto, come non ricordare Sacrificio, l'ultimo film del regista russo che affrontava una tematica analoga partendo da premesse differenti ma con la stessa volontà di messa in gioco di uno sguardo e una ricerca 'alti'? Uno sguardo e una ricerca che Von Trier vuole condividere con lo spettatore, convinto com'è che "può darsi che non ci sia nessuna verità per cui provare un ardente desiderio ma che il desiderio di per sé stesso è già vero".
Il punto di forza del film è il suo essere "user friendly": nessuna complicazione a livello narrativo, nessuna esigenza di conoscere episodi passati o precedenti, nessun virtuosismo registico fine a sé stesso, nessun architetto, oracolo, salto iper-spazio temporale. Il linguaggio è quasi primitivo nella sua schiettezza: un gruppo ben assortito di buoni, un cattivo che li insegue, una missione da compiere e un mistero finale che, svelato, dà valore aggiunto "contenutistico" ad un film che, per piacere ed affascinare, non ne avrebbe nemmeno bisogno.
L'unico difetto tangibile di Serenity è la quasi totale mancanza di "scene madri" e di battaglie ad alto tasso di spettacolarità, difetto legato allo scarso budget. Paradossalmente però, proprio la mancanza di questo tipo di scene, sulle quali poggia oramai il 100% della produzione "spettacolare" americana, ha permesso una maggiore attenzione ai personaggi, alla storia e ad elementi di contorno (vedi la sublime soundtrack d'accompagnamento che spazia fino al country, rendendo Serenity una sorta di western spaziale).
In anni in cui l'animazione si moltiplica, i cartoni non sono più un'esclusiva Disney e si ampliano in quantità, qualità e varietà sembra che Blue Sky miri ad essere il meno inventivo e più tradizionalista degli studi. Dopo L'era glaciale, Robots, Epic e Ortone e il mondo dei Chi, l'arrivo di Rio confermava la tendenza a creare grandi affreschi, possibilmente appartenenti al mondo animale, che ribadiscano i valori tradizionali e ruotino intorno alle famiglie, così da poter mettere in scena qualcosa che rispecchi il pubblico in sala ma soprattutto quello a casa. Non è dunque nelle trame, molto semplici e prevedibili, che sta il successo e il gradimento riscosso da Rio e che probabilmente riscuoterà Rio 2, quanto nella maniera in cui Blue Sky riesce a reinterpretare la tradizione più elementare fuggendo qualsiasi variazione dal modello originale.
Le avventure dell'uccello Blu e della sua famiglia questa volta affrontano la metafora del trasloco e l'ideale abbandono del centro abitato a favore della residenza rurale (una mitologia tipica dell'America), un riavvicinamento alle origini e al proprio mondo che non manca di fare facile ironia sul distacco tecnologico. Insomma al pari del precedente è un'ottima macchina d'intrattenimento anche Rio 2 ma nulla di più, perfettamente in linea con quello che ha mostrato la serie di L'era glaciale (Carlos Saldanha del resto era l'autore anche di quei film). Tuttavia giudicare con paternalistica benevolenza questo film, guardandolo solo come un divertimento in grado di piacere ai bambini, renderebbe un cattivo servizio all'animazione come genere, dopo tutta la fatica che ha compiuto per dimostrare non solo di meritare di sedere nel salotto del cinema di serie A ma di essere in molti casi migliore. Rio 2 una volta sarebbe sembrato di certo più frivolo e accettabile di quanto non appaia oggi, quando i cartoni possono sia piacere ai bambini sia essere opere monumentali, status a cui il film di Saldanha nemmeno ambisce, preferendo rimanere nei territori più sicuri degli animaletti che ballano la samba e giocano a calcio (essendo in Brasile), delle figure archetipe presentate senza che venga compiuto un lavoro su di loro ma semplicemente per quello che sono sempre state.
Anche solo volendo pensare al pubblico dei bambini (ma è evidente che questa è una deformazione occidentale, se un film è tale il suo pubblico potenzialmente può essere composto in qualsiasi maniera) è evidente che pure a loro si può dire qualcosa, specie considerate le volte che vedono e rivedono i medesimi film, ma Rio 2 non dice nulla che non si sentano già ripetere tutto il giorno dagli spettacoli più pigri tra quelli pensati per loro, li intrattiene con poco gusto (ma indubbia efficacia) ripetendo come un pappagallo cose in cui sembra essere il primo a non credere.
Ventesima puntata ufficiale delle avventure di Bond, 007, - la morte può attendere non mantiene fede alle voci che lo volevano tra i migliori della serie. La formula evidentemente è ormai logora, e i tentativi per aggiornarla - tra volgarità inusuali e piede premuto sull'acceleratore degli effetti più o meno speciali - hanno effetti deteriori. Due ore e un quarto strapiene di citazioni dal passato, colpi di scena a cumulo e montaggio da videoclip alla fine stancano più che divertire. Per ridurla a slogan la morte può attendere, ma un congedo per raggiunti limiti di età ci starebbe tutto.
Esiste uno "stile Sandler", affinato negli anni '90 con film giovanili in cui il furore violento ed eccessivo alimentava di rabbia una comicità iperbolica, e poi negli anni 2000 gradualmente approdato su lidi sicuri e innocui (anche grazie alla collaborazione sempre più solida con Frank Coraci). Erano film, i primi, dotati di una vitalità che suppliva alle deficienze di scrittura ma quell'idillio furente è durato poco, un pugno di lungometraggi dalla godibilità sempre calante. In seguito, nonostante qualche sporadico exploit autoriale, Sandler ha virato nel cinema per tutta la famiglia con film acquietati in cui la sua rabbia comica veniva stemperata in un umorismo decisamente più canonico, declinazione corretta di ciò per cui era noto.
Così anche Insieme per forza risponde al canone fissato una volta per tutte dal successo di Un weekend per bamboccioni: una famiglia intera messa in scena in un momento di vacanza, genitori infantili quanto i figli e questi ultimi decisamente in secondo piano rispetto alle avventure dei più grandi. A tutto ciò Insieme per forza aggiunge una linea romantica, l'espediente centrale infatti è quello delle famiglie allargate, raccontare la realtà sempre più imponente di madri single e padri single, ognuno con i propri figli che uniscono le due famiglie.
A vedere il bicchiere mezzo pieno si potrebbe dire che quel che il cinema recentissimo cui prende parte Adam Sandler cerca di fare è raccontare in diverse fogge e da diversi punti di vista la realtà delle famiglie americane medie, da quelle compatte e tradizionali a quelle più moderne nella loro struttura, indugiando sia sul rapporto difficile con i figli sia sulla critica al modernismo. Ma sarebbe decisamente troppo per un cinema così svogliato pigro e smaccatamente commerciale. Non che ci sia da stupirsi davanti ad un film che si adopera principalmente per attirare pubblico e solo marginalmente per raccontare qualcosa di interessante, ma da qualcuno che sembrava pronto a rompere diverse regole con il suo umorismo allineato più con i fratelli Farrelly che con il perbenismo familista, la metamorfosi è particolarmente difficile da accettare.
Un capolavoro assoluto. Un film che parla in verità di amore in maniera profonda, e che ti fa ridere con una semplicità disarmante.
Nulla riassume meglio il film di "La prima scoreggia ti farà ridere, l'ultima ti farà piangere"
I registi hanno dato atto di una prova di creatività sopraffina, un film assolutamente originale, con un cast favoloso, una recitazione meravigliosa, una colonna sonora che dire centrata è dir poco, e una fotografia davvero eccellente.
Come hai ben capito non posso che elogiarlo, e con tutto il mio cuore ti dico "Guardalo!"
Come al solito le mie recensioni le faccio senza spoiler, e senza spiegarti la trama, ma su questo film faccio ancora più attenzione, perchè è davvero un gioiello che spero ti potrai godere appieno.
Il roller coaster di emozioni che suscita nello spettatore è un'opera d'arte che lavora sui sentimenti grezzi, sulla risata vera, sull'amore senza maschere.
Questo film è gutturale, e anche se non ti lasci trascinare ti prenderà nella pancia regalandoti un'esperienza unica nel suo genere, che diventerà facilmente un felice ricordo nella tua mente, di quelli che ti strappano un sorriso solo a pensarci.
Non è un film come il Signore degli Anelli che va riguardato mille volte per godersi sempre di più la battaglia al fosso di Helm.
Non è come molti film di Lynch dove non capisci dove vuol arrivare o cosa ti stia dicendo (e molte volte la risposta a queste domande non esiste).
Non è un film d'amore comico in cui passi la serata coccolato con la tua donna o il tuo uomo.
E' un'icona di creatività e originalità artistica che va, assolutamente e semplicemente, goduto.
**Verdetto Finale** : E' probabilmente il film più bello di sempre. E non sto esagerando.
**Momenti in cui guardarlo** : Quando hai voglia di ridere come quando eri bambino, genuinamente, oltre a fare tesoro di concetti estremamente e sorprendentemente profondi.
I film di treni sono una categoria a parte e, a loro modo tra rapine e ingressi alla stazione, la più antica dell'universo cinematografico. Soprattutto i film di treni per avere senso non possono che essere fatti con treni veri su rotaie vere. Lo sapeva Buster Keaton, lo sapeva John Frankenheimer e per fortuna lo sa anche Tony Scott.
La storia vera e scaldacuore della piccola America dagli eroi operai che rischiano tutto per la famiglia è il pretesto perfetto per un'operazione di serie A che cerca il fascino della serie B, senza però averne la determinata asciuttezza. Accade così che nelle prime fasi, quelle dedicate alla distensione della trama, Unstoppable annaspi nei grandi luoghi comuni della vita difficile all'americana (una famiglia a pezzi, la dialettica tra il vecchio e il nuovo, la necessità di emergere facendo valere il proprio lavoro...), affossato da una fotografia modaiola e irritante che applica zoom a schiaffo e macchina a mano tremante senza alcun senso. Tuttavia come capita ai film incentrati sul ritmo e sulla velocità (velocità di una lotta contro il tempo e velocità degli oggetti da combattere) all'aumentare dei Km/h e allo spostarsi dell'attenzione dall'illlustrazione di fatti e personaggi all'illustrazione dell'azione, ritmo e godimento decollano.
Nella grande rincorsa al treno, condita dalle consuete esplosioni e deragliamenti, si intravede il lato migliore di Tony Scott (specie nella bellissima sequenza con il grano), quello capace di imprimere alla macchina cinematografica la medesima velocità dei suoi oggetti, siano aerei militari, macchine da corsa, metropolitane o sottomarini, contrappuntandola con la fissità degli esseri umani che li comandano. Il treno da inseguire, il treno inseguitore e le mille macchine ai loro lati sono gli agenti di un dinamismo inappuntabile, capace di risollevare le sorti del film, annichilendo anche le mille velleità di critica sociale e all'onnipresente sistema mediatico, appuntate a latere del film come spunti per il lavoro autonomo dell'immaginazione degli spettatori più complottisti.
Al centro di tutto il regista pone Denzel Washington, splendidamente fermo, seduto sul suo sedile e solo verso la fine intento a una passeggiatina sui vagoni. Imbolsito e invecchiato, per Tony Scott Washington è buono come uomo del popolo tanto quanto lo era come raffinato e colto ufficiale di marina accanto a Gene Hackman, volto straordinario di un cinema che, con la giusta rozzezza, sa ancora regalare godimento a tutte le categorie di spettatori.
Il 1°, e il migliore, il più vispo dei 5 film ispirati al romanzo (1965) di Pierre Boulle. Thriller di anticipazione che è anche una favola filosofica sui nostri tempi con risvolti politici e sociologici. I suoi primi 20' e gli ultimi 10 ne fanno un precursore della SF moderna al cinema. Vinse un Oscar speciale per il trucco creato da John Chambers. Sceneggiato con competenza da Michael Wilson e Rod Serling, ha uno dei suoi punti di forza nella fotografia di Leon Shamroy. Seguito da L'altra faccia del pianeta delle scimmie.
La dura verità si presenta come una variazione sul tema "battaglia fra i sessi" - che della commedia è una costola importante, un vero e proprio organo interno - e schiera da un lato la donna, insicura, restia a valorizzarsi, dall'altro l'uomo, che sembra sapere tutto di se stesso ma solo perché c'è ben poco da sapere. Se, posta la premessa, la sensazione è che sia spiacevolmente generica e piuttosto insufficiente, il film non si arrabatta troppo per smentirla.
Non che non strappi qualche risata, non che manchi l'alchimia minima necessaria tra Katherine Heigl e Gerard Butler -anche se di "sexyness" non c'è traccia, come non c'è traccia di un "linguaggio dell'amore", per esempio- ma la commedia intelligente non abita qui (scrivitele fermo posta). È un problema di mestiere. Stupisce che un copione come questo esca dalle mani di tre sceneggiatrici: è la dura verità, poiché un "Colin" come questo è un errore bello e buono, un dissuasore del meccanismo romantico della sospensione dell'incredulità. Chi preferirebbe il vanitoso e belloccio dottor Colin al fascinoso e divertente Mike, in un film e non (necessariamente) nella vita vera? Persino il recente e deludente Un amore di testimone era stato più onesto, in questo senso.
E ancora: perché dovremmo assumere sulla fiducia che la protagonista è una maniaca del controllo, senza che ci venga mai (di)mostrato in alcun modo? La dura verità è che Sally ha incontrato Harry per niente, se la sua lezione è andata persa, dimenticata, ignorata.
Infine. Esiste per caso una dura verità che imponga che, in un film di questo genere, sia la sola sceneggiatura a dover fare tutto il lavoro, e il resto possa venire relegato in secondo piano? No. Eppure ogni inquadratura, ogni arredo, ogni oggetto della pellicola di Luketic pare uscito dal piccolo, piatto e brutto schermo del talk show prodotto dalla protagonista. Non supplire alle mancanze delle premesse è scortese, perseverare è diabolico.
Lorax, il guardiano della foresta è il quarto libro di Dr. Seuss ad arrivare sul grande schermo. Noto negli Stati Uniti per essere uno dei più grandi scrittori per l'infanzia ma meno celebre da noi, Dr. Seuss è autore di universi problematici, colorati, demenziali e sottilmente politici sempre diversi, ogni storia un mondo a sè che riflette tematiche particolari. In Lorax la matrice è l'ecologismo, tema scontato oggi ma molto meno quando nel 1971 la prima edizione del libro fu editata e criticata proprio per queste ragioni.
Ad occuparsi della trasposizione sono Chris Renaud e Kyle Balda della Illumination Entertainment, studio con base francese già responsabile di Cattivissimo me, con l'occhio supervisore del produttore Chris Meledandri, già responsabile per la Blue sky di un'altra trasposizione in computer grafica da Dr. Seuss: Ortone e il mondo dei Chi.
La trama e i dialoghi di Lorax vengono da un'epoca in cui i cartoni o i prodotti per l'infanzia non volevano a tutti i costi strizzare un occhio anche agli adulti, com'è pratica moderna, ma si rivolgevano con smaccante sincerità al solo pubblico infantile. Per questo anche oggi il pregio di quest'avventura ecologista è il modo in cui, preservando la sottile satira di Dr. Seuss, riesce a trattare con serietà, rispetto e onestà intellettuale il proprio pubblico d'elezione. Con un umorismo a tratti devastante per tempismo, trovate, ritmo e anticonvenzionalità, la Illumination Entertainment porta in sala un tour de force di dialoghi, corse e canzoni che non ricorda niente di già visto e nel divertire sembra essere il primo a divertirsi.
La forza moderna di un prodotto che per certi versi può suonare fuori dal tempo, sta così tutto nel non porsi limiti sui temi da affrontare, nel criticare atteggiamenti e nel presentare figure complesse e anticonvenzionali, dimostrando che la produzione per l'infanzia non si giudica dai contenuti quanto dai toni.
E' tanto, forse troppo (come ammesso dallo stesso PTA negli anni successivi) ma la piena libertà lasciata al regista si vede tutta: dramma corale che ricorda 'America oggi' e che intreccia le vite dei suoi personaggi con gli incroci casuali e il passato che non vuol passare ('those memories come back to haunt me').
Virtuosismi della mdp, montaggio perfetto e cast in perfetta sintonia (mai visto un Tom Cruise così espressivo): il cinema di Anderson è sempre un'esperienza elettrizzante.
Pur calato nelle convenzioni e negli stereotipi del dramma giudiziario, è un film ammirevole per la sagacia nel dar forma drammaturgica alla problematica morale sui limiti dell'obbedienza, per il disegno dei personaggi, per la capacità di dosare gli ingredienti, i toni, la suspense. J. Nicholson, in 3 scene, rischia di rubare il film a T. Cruise. Bene gli altri, anzi benissimo.
Incurante del film di Paul Feig (Le amiche della sposa), che ha incrinato una volta per tutte il sogno del matrimonio ideale e imprescindibile per la realizzazione di sé, Nick Cassavetes realizza l'ennesima commedia amicale e moderatamente scandalosa che gira intorno a un matrimonio naufragato e al desiderio di trovare un marito a ogni costo. Un film che tradisce le speranze riposte nel regista di She's so lovely e Alpha Dog e fa indigestione di "Sex and the City" e di un immaginario newyorkese attraversato con una Kelly e un paio di Manolo Blahnik. Emancipata, disinibita e vestita incredibilmente, Cameron Diaz è la Carrie Bradshaw di un gruppo di amiche quantomeno bizzarro, dal momento che condividono tutte e tre lo stesso uomo.
Maschio disinvolto e di grande appetito, il Mark di Nikolaj Coster-Waldau, l'incestuoso Jaime Lannister de Il trono di spade, riesce meglio delle damigelle di Feig a 'imbrattare' pantaloni e abito matrimoniale, tradendo la consorte una, due e troppe volte e subendone altrettante volte la vendetta. Condivisa nell'affiche da Leslie Mann e da Kate Upton, la Diaz interpreta uno sfolgorante avvocato a cui la vita sentimentale sfugge e va dove non dovrebbe andare, verso un uomo charmant e narciso che dimentica di dirle che è sposato. Destinata a rubare suo malgrado ogni scena in cui appare e a 'sorreggere' le forme senza tono della Upton, modella americana che prova a fare l'attrice, Cameron Diaz trova nella Mann, cresciuta alla scuola degli Apatow e sposata con Judd Apatow, una spalla su cui piangere e su cui costruire una performance perfida e scatenata al punto giusto. Appoggiata sull'istrionismo delle due interpreti e sui loro tempi comici, la commedia di Cassavetes non graffia mai né sancisce cambiamenti di prospettiva, esibendo al contrario un'emancipazione di facciata e un deragliamento dal comune senso del pudore soltanto inscenato.
Prodotto di mestiere con qualche battuta ben scritta, Tutte contro lui costruisce una banale opposizione fra un infedele seriale e tre donne ingannate, filiformi e alla moda che troveranno con l'happy ending il loro momento di riscatto, confermando che in amore chi più ha sofferto più ha imparato. C'est tout, nessun tentativo di contemplare stati nascenti di un contemporaneo disordine amoroso, e solamente l'azione convulsa di personaggi evasivi che trovano la via di fuga nella carriera, su una spiaggia tropicale e neanche a dirlo nel matrimonio e nella maternità. Una commedia stordita come le protagoniste dagli effetti della vodka, che resta nel solco delle commedie felici ma lontana da quella sofisticata sulla guerra tra i sessi. Ma presumibilmente la distanza è intenzionale.
Dovrebbe essere il film icona della generazione X, ma non è certo tra quelli riusciti del regista. Vale comunque la fotografia.
È nel futuro distopico di Nausicaa della Valle del vento che ha inizio la straordinaria epopea trentennale dello Studio Ghibli. Benché tecnicamente il film non sia ancora una produzione dello studio, ma un lavoro distribuito dalla Toei, Nausicaa è unanimemente considerata l'opera fondativa della casa cinematografica (è infatti inclusa in tutti i Dvd retrospettivi) e del Miyazaki-pensiero, la filosofia che ha cambiato per sempre il mondo dell'animazione mondiale. Nella vicenda è possibile individuare agevolmente le tematiche peculiari dell'autore, che il regista svilupperà nel corso degli anni: l'amore per la natura e per la vita, un'eroina in età adolescente con un coraggio pari solo alla sua bontà di cuore, la fascinazione per gli aerei e per ogni tipo di strumento o marchingegno che consenta all'uomo di librarsi in volo. Anche il sodalizio con Hisaishi Joe, autore delle musiche, nasce con Nausicaa. Benché da un punto di vista tecnico si avverta una certa obsolescenza (i fondali e le animazioni sono piuttosto primitive, con alcuni movimenti tutt'altro che fluidi), per il resto Nausicaa è opera che trascende la propria contestualizzazione temporale, tanto da rappresentare, a distanza di decenni, un'inesauribile fonte di ispirazione. Forse resta ineguagliabile per lo stesso Miyazaki l'operazione di sincretismo di molteplici fonti (Dune e i suoi Vermi, i Grandi Antichi di H. P. Lovecraft, le battaglie di popoli di J.R.R. Tolkien, l'Odissea), in cui ognuna fornisce il suo contributo senza inficiare la totale autonomia e credibilità dell'universo miyazakiano.
Fantasy e fantascienza si mescolano in parti uguali, in una versione quasi opposta per estetica e spirito rispetto allo steampunk: gli avveniristici ritrovati tecnologici convivono con rudimentali strumenti agricoli, i phaser a raggi laser con spadoni dall'elsa dorata. Il risultato è una straordinaria parabola ecologista in cui la forza della narrazione e la libertà delle creazioni visive del regista non sono intaccate dalla presenza di un evidente messaggio-monito ambientalista. In netta controtendenza con il canone del genere fantastico, Miyazaki evita infatti ogni manicheismo, chiarendo in diverse scene come non esista una divisione netta tra bene e male: anche gli atti più scellerati sono figli di una ragione ben precisa, che alimenta la paura nel cuore degli uomini. Cause e soluzioni variano caso per caso e, benché l'uomo sia dominato da tentazioni e da fragilità che lo portano a commettere gli stessi errori in un ciclo continuo, non esiste il male in sé. Al secondo film, dopo la rielaborazione della saga di Lupin III con Il conte di Cagliostro, Miyazaki Hayao è già un maestro indiscusso e Nausicaa l'inizio di un viaggio indimenticabile.
James Barrie, se potesse parlare del film di cui è protagonista, parafrasando una citazione dalla sceneggiatura,direbbe con leggerezza e convinzione: "in fondo questa storia è solo la storia della mia vita, e questo film è solo uno dei tanti. SOLO. Cosa vuol dire solo... ". Solo per un sognatore non ha alcun significato, perché è un termine limitato, che non lascia spazio alle idee, alla fantasia. I sogni sono l'essenza della vita per Barrie e lo sono per buona parte di noi. La premessa che è necessario fare per vedere un film come Neverland è proprio questa. La divisione fra ragione e sentimento, creatività e razionalità, genio e regolatezza. Alla rappresentazione di una commedia teatrale, il successo non sembra sorridere a Barrie (Johnny Depp). Le sue pièce non riscuotono riscontri positivi e la creatività sembra venire meno. Il suo impresario (un divertente e compiaciuto Dustin Hoffmann) è disposto amorevolmente a dargli un'altra possibilità, ma lo scrittore, in un momento in cui anche la relazione matrimoniale non gode di buona salute, si rifugia in una amicizia particolare con una vedova con quattro figli, per i quali diventa come un padre. E' la sua fantasia che fa volare la sua mente e quella della numerosa famiglia. Nei momenti di felicità e in quelli drammatici. Per James Barrie tornare a sognare è come rinascere.
Neverland è semplicemente la vita di un uomo che non ha mai perso il desiderio di rimanere bambino. La sceneggiatura, adattata da David Magee sulla base di una commedia teatrale di successo, The who was Peter Pan, di Allan Knee, è la vera forza del film. La regia di Marc Forster, infatti, non è mai convincente (a volte è imbarazzante), e non riesce a trasporre i momenti fantastici. Per nostra fortuna rimane dietro le quinte e lascia scorrere le parole e le emozioni. Le stesse vissute da Johnny Depp che vive il suo personaggio allo stesso modo con cui sceglie gli script da interpretare.Barrie E' un personaggio dei suoi, con lo sguardo perso nel cielo e un'infinita sensibilità (per molti sono interpretazioni tutte uguali, ma quanti si possono permettere di scegliere ruoli coerenti con se stessi?).
Siete sognatori? Andate a vederlo.
Siete razionali e poco amanti delle favole? Forse questo film non fa per voi, sebbene volare ogni tanto sia un piacere per tutti.
Sorvegliante di un luogo sicuro e segreto per definizione, il protagonista del riuscito thriller di Daniel Espinosa passa da una situazione di inattività costretta a quella di un'azione sfrenata in cui non ha nemmeno il tempo di focalizzare ciò che gli accade intorno. La forza d'avvio della pellicola sta proprio qui, specificatamente nel repentino cambio di stato del personaggio interpretato da Ryan Reynolds, capace di sintetizzare tutti gli argomenti messi in campo: il tema della crescita, dell'onore, della (s)fiducia nelle istituzioni e, prima di tutto, dello scontro con una realtà sommersa com'è nascosta la sua vera identità agli occhi della compagna.
Nel frastuono di sequenze dirette con buona mano e una vena nichilistica poco comune per una produzione americana emerge una possente struttura che somma all'action-thriller classico le vibrazioni più paranoiche del filone spionistico. Solo a livello epidermico, in realtà, si tratta di una storia in cui nessuno è quello che sembra e il male è proprio lì dove te lo aspetteresti, perché Safe House - Nessuno è al sicuro conta soprattutto per il racconto di due differenti e avverse visioni destinate in qualche modo ad incontrarsi. È il viaggio, nella sua accezione più straniante e piena di insidie, l'orizzonte in cui una tale metamorfosi può avvenire, così come accadeva nell'affine Quel treno per Yuma, classico che lo sceneggiatore David Guggenheim deve aver tenuto presente. La fotografia gravida, ora accecante ora plumbea, segna le varie tappe del cammino fino ad una resa dei conti in perfetto stile western, stemperata da una chiusura del cerchio che sarebbe stato meglio sospendere di più.
Dopo le esitazioni di una prima metà troppo affidata al naturale istrionismo di un Denzel Washington che non può non mettere in ombra l'attor giovane, il regista accosta momenti di spiccata e quasi coreografica violenza a intelligenti variazioni dei più duraturi luoghi comuni del genere. Se Vera Farmiga interpreta il solito ruolo risoluto, la scelta di casting più azzeccata è quella del grande Sam Shepard, monolitico e finissimo nel suo aggiungere spessore ad ogni momento in cui appare.
Jason Stathman torna nel ruolo che gli dette fama nel 2002 consacrandolo come uno dei nuovi attori di Hollywood, perfetto per i film di azione.
Scritto e prodotto come il precedente The Transporter da Luc Besson, questo film piacerà sicuramente agli amanti delle scene mozzafiato: in 90 minuti assistiamo a inseguimenti ai limiti dell'irrazionale, sparatorie da cui il buono riesce sempre a farla franca, un campionario di arti marziali da far invidia ai film orientali (non per la qualità), un'automobile che sembra presa in prestito da un qualsiasi set di un film di James Bond e chi più ne ha più ne metta. Detto questo, se per un attimo mettiamo da parte il fatto che in un film del genere i caratteri dei personaggi risultano appena tratteggiati (il buono - supereroe, il cattivo dalle movenze mafiose interpretato da Alessandro Gassman, la madre coraggio, il padre inesistente che quando compare sulla scena dice soltanto banalità), riusciamo anche a salvare qualche momento genuinamente piacevole in cui emerge un umorismo quasi involontario che non stona con i caotici eventi narrati. Si astengano dalla visione coloro che in un film cercano qualcosa di più del semplice intrattenimento.
Chi cerca in questo film il Clooney regista di Good Night, & Good Luck. e di Le Idi di marzo rimarrà deluso mentre chi ricorda l'acuto e divertito rivisitatore di generi di In amore niente regole avrà l'occasione per godere di un film che non si vuole limitare però alla ricostruzione filologica innervata da riferimenti alla realtà storica. Perché la memoria corre a Il treno di John Frankenheimer ma anche, per la struttura di un gruppo costituito da personalità molto diverse tra di loro, a film che hanno ne La grande fuga il loro vertice. Clooney però ha un obiettivo diverso in questi tempi di omologazione di massa: ci vuole ricordare il valore dell'arte come elemento che va oltre le generazioni ed alimenta la stessa esistenza di ognuno di noi. Anche di coloro che ne sono ignari. Per questo sorge il sospetto che alcuni interventi di Stokes (che in realtà era il conservatore di Harvard Gerorge Stout) risultino didascalici ma siano finalizzati a fornire qualche elemento di base a spettatori a cui la scuola non li ha offerti. La scuola americana in primis ma non solo se, come ci ricordano Lodoli e Piccioni in Il rosso e il bluci sono studenti che chiedono se Piero della Francesca fosse un uomo o una donna (e non è una battuta di sceneggiatura). La pattuglia di uomini inadatti alla guerra ma pronti a rischiare la vita per delle opere d'arte non è formata da attempati Indiana Jones (anche se non mancano i carrelli della miniera e la Madonna di Bruges e il polittico di Ghent prendono il posto dell'Arca dell'Alleanza). Sono uomini (e una donna bollata dal marchio del collaborazionismo) che Clooney ci presenta nella loro umanità pur non rinunciando a qualche stereotipizzazione di troppo.
L'onestà del regista e sceneggiatore emerge comunque sin dall'apertura quando Stokes mostra una diapositiva dell'Abbazia di Montecassino distrutta da un bombardamento. Che non fu opera dei nazisti ma delle forze alleate. In quel preciso momento riemergono nella mente le immagini del Museo Archeologico di Bagdad saccheggiato senza che nessuno degli occupanti facesse nulla per impedirlo. La storia si ripeteva. Film come questo ci invitano a riflettere. Non rinunciando allo spettacolo.
Come Hitchcock, Mr. Night Shyamalan si nasconde nei suoi film, come nel cinema di Hitchcock un personaggio normale è alle prese con lo straordinario, soltanto che per il regista (indiano)americano, lo straordinario può essere soprannaturale e declinabile: il paranormale per Il sesto senso, il fantastico per Signs, il fumetto per Unbreakable - Il predestinato, il fantasy per Lady in the water. Di volta in volta i suoi protagonisti si sono scoperti morti, invulnerabili, onnipotenti, fuori tempo e affabulatori.
Di film in film Shyamalan ha tracciato un sentiero personale e inedito con uno stile preciso e qualche ossessione: quella per l'acqua, gli incidenti stradali e le cantine, quella per la colonna sonora potente (James Newton Howard adoperato come Hitchcock adoperava Bernard Hermann), per la morbosa costruzione della suspence e per l'architettura narrativa, una trappola che scatta alla fine del racconto puntando sulla distrazione dello spettatore.
E venne il giorno è tutto questo e molto altro ancora. È un film misterioso e perturbante, saturo di colori freddi, carico di tensione sonora e atmosfere livide. Dentro un clima diffuso di inquietudine, Shyamalan esaspera quella forma di allarme emotivo che si ritrova in ogni sua opera e che anche questa volta prende corpo nei personaggi, immersi in un rammarico che li ha separati da un affetto assoluto e cruciale. Padrone "favoloso" di atmosfere, attori e tecniche di gestione della tensione, Shyamalan pone l'accento su un individuo, il professore malinconico e devoto (alla moglie) di Mark Wahlberg, che compie un percorso di emancipazione dentro un mondo che diventa improvvisamente un'entità estranea e ostile. Contro l'ipotesi comunitaria, che quando è introdotta si distingue per un carattere negativo e privativo (Signs e The village), il regista delle favole oppone un soggetto mosso dall'impulso di fare corpo a sé. Così il protagonista di E venne il giorno si allontana dalle masse, dal gruppo e dalle persone, per costituire con la moglie e la piccola Jess, orfana dei genitori, un'altra embrionale società in cui ritrovare quello che si è perso (un'illuminata età dell'oro dove gli esseri umani e le creature vivevano in pace) e condividere un dono (l'amore). Se Lady in the water è un film metalinguistico, sull'arte di raccontare storie e sul bisogno ancestrale di farlo, E venne il giorno è costruito sul modello tradizionale del racconto fantastico ottocentesco. Lo spettatore è tenuto per buona parte del racconto in uno stato di accorta indefinibilità, tutto quello che di anormale e di incomprensibile si verifica nel mondo degli uomini è l'effetto di un causa sovrannaturale, irrazionale e scientificamente inverificabile. Il "meraviglioso" è dato proprio dallo stato di sospensione che quella indefinibilità genera nella narrazione stessa.
E venne il giorno è un film potente che mette a nudo la solitudine e la paura degli uomini, una distesa di esseri inermi e indifesi in cerca di protezione. Forse è questo il senso del cinema di Mr. Night. L'uomo delle favole che ha la notte nel nome.
Annaud è un esperto di rilettura di generi cinematografici consolidati a cui mutare contesto. Lo aveva fatto con Il nome della rosa rivisitato come fosse soltanto una detection e ci riprova ora prendendo spunto da un soldato realmente esistito e distintosi nella battaglia di Stalingrado. In questa occasione il genere preso in esame è il western che trova il suo punto di forza nella scenografia che è irta di ostacoli costituiti da filo spinato, trincee e tunnel che divengono una manifestazione esteriore dei tormenti che dilaniano i protagonisti. Il punto di forza sul piano narrativo viene offerto dal contesto iniziale: viene fornito in dotazione un fucile ogni due soldati. L'arma passerà al secondo quando il primo sarà morto e chiunque verrà visto indietreggiare sarà ucciso a vista dal 'fuoco amico'. A favore del film depone poi la prestazione di Ed Harris che offre al suo maggiore König tutta la lacerazione interiore di un uomo che conosce solo un modo per risarcire se stesso per ciò che gli è stato sottratto: uccidere.
C'è però poi tutto il versante romantico (Vassili e Danilov innamorati entrambi della soldatessa Tania) che inficia l'esito nel suo complesso riconducendo il film nei binari dello stereotipo. Diventa allora quasi inevitabile chiedersi cosa ne sarebbe stato di un soggetto così imponente come quello della battagli di Stalingrado nelle mani di Sergio Leone, in quel progetto che, purtroppo, la morte gli impedì di portare a compimento.
Spinto da amicizie pesanti, Hostel arriva sui nostri schermi in pompa magna, con tanto di sacchetti per vomitare distribuiti all'ingresso delle sale. Sull'onda delle chiacchiere, Eli Roth, alla seconda regia dopo il modesto Cabin Fever, omaggia esplicitamente un po' tutti, partendo da Landis per arrivare addirittura a fregiarsi di un cameo di Miike, senza dimenticarsi di citare a più riprese lo sponsor Tarantino. Se nella prima parte ci si rifà al tipico preludio da horror sbarazzino, con più seni in primo piano che F-Words in Pulp Fiction, nella seconda si procede alla tanto decantata orgia di sangue ed efferatezza: tutto secondo copione, con tanto di pinze, saldatori e cure medievali. Ostentando conoscenza del genere, Roth riesce a banalizzare un soggetto che rubacchia dall'immaginario snuff e da Il Coraggioso, dando vita ad un prodotto piatto, monocorde e pretenzioso.
Un'accozzaglia di strumenti di tortura, membra e rimandi in cui cercare alte metafore pare sinceramente fuori luogo.
Da un racconto di Isaac Asimov, poi ampliato nel romanzo The Positronic Man, scritto con Robert Silverberg, adattato da Nicholas Kazan. Storia di una lunga emancipazione da macchina a homo americanus, educato secondo sani principi: famiglia, ordine, lavoro, obbedienza, rettitudine, autodeterminazione, ottimismo, senso pratico, spirito imprenditoriale. C. Columbus la "contamina di effetti melensi, patriottismi mascherati da rivendicazioni sociali, mai portati fino al ridicolo, purtroppo" (Alessandro Bertani). L'insuccesso espressivo ha coinciso con quello di mercato: la sua imbarazzante pedagogia non ha convinto i bambini e non è piaciuta agli adulti.AUTORE LETTERARIO: Isaac Asimov, Robert Silverberg
Uccideresti per tua figlia?
Falling Down è un film decisamente coinvolgente.
Hai mai visto un film che ti ha fatto affezionare al cattivo?
Ecco, qua il regista fa ancora di meglio, ti fa prima innamorare, poi te lo fa odiare quasi al punto da star male, e poi, ti ci fa innamorare di nuovo!
Michael Douglas interpreta una persona "normale" a cui un certo punto scatta qualcosa , e impazzisce di brutto, il suo scopo diventa tornare a casa da sua figlia a qualsiasi costo. Peccato che la società Americana gli si mette in mezzo ai piedi, e questa volta, lui non si vuole sottomettere.
Tutta la straordinaria bellezza del film si può quasi contenere in 3 battute:
Attore 1 : I'm the bad guy?
Attore 2 : Yeah.
Attore 1 : How'd that happen?
Davvero delizioso e unico nel suo stile, non troverete nemmeno 1 secondo di noia grazie ad un lavoro di regia eccellente e ad una performance di Michael Douglas quasi perfetta.
**Verdetto** : Un lungometraggio davvero sopra la media, scene curate, l'attore principale riesce ad accompagnarci in un roller coaster emozionale unico al mondo. Da vedere, da vedere, da vedere.
**Ottimo per** : Una qualsiasi giornata in cui tornate molto stanchi da lavoro, fidatevi.
Un onesto giallo che migliora il livello rispetto all'orient express.
C'è troppa vfx e non tutto è all'altezza ma la maggior attenzione su Poirot (malgrado i comunque assurdi baffi) aiuta parecchio.
Buona prova di Carla Gugino, il film si regge su di lei...comunque godibile e con un discreto finale. Senza molte pretese, comunque consigliato
La verità è che non gli piaci abbastanza trae spunto dal manuale di auto-aiuto scritto a quattro mani da Greg Behrendt e Liz Tuccillo (rispettivamente consulente e autrice della serie tv Sex and the City) per esplorare il divario tra i sessi nella sfera sentimentale. Argomento di infinite discussioni, nelle mani del regista di Licenza di matrimonio l'amore assume tutte le sfaccettature del caso attraverso le storie parallele di nove personaggi. Se nel corale Scherzi del cuore - che a suo tempo s'interessava degli stessi ingranaggi - a fare da cardine era la famiglia delle protagoniste, nella commedia di Ken Kwapis è la figura ingenua e romantica di Gigi a fornire l'elemento principale della struttura e a creare l'intreccio tra le varie storie. Il titolo anticipa la sostanza di un film in cui l'universo femminile (rappresentato da Ginnifer Goodwin, Jennifer Aniston, Jennifer Connelly, Drew Barrymore e Scarlett Johansson) prevale su quello maschile (Ben Affleck, Bradley Cooper, Kevin Connolly, Justin Long) in quanto a emozioni, riflessioni e luoghi comuni. Laddove la donna s'interroga confusa, l'uomo sembra archiviare ogni dubbio forte dell'unica spiegazione plausibile che non ammette eccezioni ma solo una regola. Non esistono giustificazioni all'indifferenza: se lui non ti chiama è perché non gli piaci abbastanza.
Da questo presupposto gli sceneggiatori Abby Kohn e Marc Silverstein - che sugli equivoci tra i sessi hanno costruito la loro carriera (Mai stata baciata, Opposite Sex) - ricamano una commedia scorrevole che tra primi appuntamenti, telefonate, chiacchiere, adulteri e abbandoni riserva poche sorprese lanciata com'è verso l'inevitabile happy ending. Per fanciulle romantiche che sognano l'amore vivendolo al cinema.
Può un film studiato a tavolino come un prodotto di marketing essere considerato un buon film? La risposta è sì. Gli ingredienti di questo thriller sono semplici ed efficaci. Prima di tutto il voyeurismo, fondamento di vita e di cinema (La finestra sul cortile docet) guidato dall'insaziabile curiosità insita nell'animo umano; l'immancabile presenza di un serial killer, che è l'attuale marchio di fabbrica del genere, interpretato da un ottimo David Morse (memorabile la sua partecipazione alla serie tv Dr.House); un cast di teen-ager che rappresenta la grossa fetta di pubblico che oggi va al cinema, guidato da Shia LaBoeuf, ormai diventato un idolo delle folle giovanili; l'utilizzo della tecnologia, dai cellulari, ai pc, alle videocamere, che attualizza il binocolo (che comunque viene utilizzato), occhio analogico, in quello digitale-binario.
Messi insieme e centrifugati, questi elementi, creano un film prevedibile nel suo incedere, che segue pedissequamente il modello hitchcockiano, ma che è, allo stesso tempo, un manifesto perfetto del thriller per le masse dei nostri giorni.
Disturbia, quindi, non aggiunge niente di nuovo al genere, intrattiene senza sorprendere, coinvolge quando deve coinvolgere. In modo scolasticamente ineccepibile. Tanto più se poi il maestro è Hitchcock.