Con un'azione degna di Braveheart uccide venti inglesi e diventa una leggenda. A capo di un gruppo di volontari affianca l'esercito regolare e passa di vittoria in vittoria. A questo punto il film si carica di tutti i possibili luoghi comuni dell'azione e non: c'è il nero che ragiona di un mondo nuovo, c'è la bambina che non parlava e che miracolosamente parlerà, c'è il colonnello inglese cattivissimo che assume tutto l'odio di Ben (e dello spettatore) per un adeguato, liberatorio lieto fine, e c'è l'immancabile tappeto musicale di John Williams che tutto enfatizza e blandisce. Insomma non manca nulla del prevedibile, vige un eccesso di spettacolo, però il film è gradevole. E va sempre guardato con simpatia il tentativo di raccontare l'avventura, persino con una pretesa di epica.
What...è furbo e patinato (c'è il "tappeto" costante di Frank Sinatra) ma contiene intelligenza, ironia, ottima scrittura, sentimento, e anche pietà. Che non si trova spesso. Ottimi gli attori.
La fonte letteraria di The Host, com'è noto, è il romanzo omonimo di Stephenie Meyer e il film, nel bene e nel male, porta la stessa firma. Andrew Niccol pare limitarsi a ripetere gli errori di In time: innanzitutto restando in superficie su un soggetto che di spunti da offrire ne avrebbe avuti e sembrava anzi richiedere a gran voce l'intervento di un regista che volesse esplorarli con i mezzi del cinema, e in secondo luogo preoccupandosi di patinare un universo che non ha mai veramente costruito (visivamente e ideologicamente), così da farlo risuonare fastidiosamente vuoto.
Eppure la materia c'era. Per quanto lontana dalla fantascienza più sofisticata, l'idea che gli alieni all'interno del nostro stesso corpo possiamo essere proprio noi, la nostra coscienza umana con le sue pulsioni politicamente scorrette, è suggestiva quanto basta, come un caso di veglia in sede di anestesia totale. Solo che qui dura troppo poco. Non solo l'espediente di affidare a Melanie la voice over (interiore), costringendo la sua coinquilina a parlare da sola, non regge la durata del lungometraggio senza farsi ridicola, ma ben presto l'inquietudine fantascientifica lascia il posto al melodramma sguaiato. Anche in questo caso, in fondo, il danno è il modo. Nella vicenda folle di due donne in una, che amano due uomini diversi, un altro cinema, più delicato e analitico, avrebbe potuto alludere all'umana schizofrenia tra amore e desiderio, passione e ragione, invece The Host sceglie la via del calco tematico di Twilight, e dunque il triangolo (mascherato da quadrato impossibile), i finti pudori (con il terzo incomodo che si rifugia in nome della privacy "nell'altra stanza" della mente...), le "trasformazioni" in punto di morte. Rimane inoltre il mistero di una campagna promozionale che vorrebbe libro e film "per adulti" quando sono entrambi popolati di ventenni, in perfetta e non certo casuale continuità con i fortunati e vampireschi precedenti.
Primo script per il grande schermo di Katie Dippold, Corpi da reato è un classico buddy movie in cui trovano spazio situazioni tipiche di quella commedia americana declinata al femminile che fa genere a sé. Dopo il successo di pubblico e di critica ottenuto con Le amiche della sposa, Paul Feig torna a scritturare la vulcanica Melissa McCarthy per un vero e proprio match con l'opposta Sandra Bullock, come vuole la migliore tradizione delle strane coppie cinematografiche (da 48 ore a Una perfetta coppia di svitati la lista sarebbe lunghissima). Al creatore di Freaks and Geeks riesce l'armoniosa miscela delle personalità artistiche delle interpreti, a partire da un iniziale scontro, innescato dalla naturale inconciliabilità dei tipi, che finirà in amicizia attraverso un percorso di strepiti, colpi bassi e numerose gag. Laddove la progressione della storia è quanto di più scontato si possa immaginare, le sorprese derivano proprio dall'alchimia che scaturisce da una coppia di attrici dotate delle capacità necessarie per dare vita a numeri, non di rado basati sul dato fisico, in cui la risata sgorga automatica. Chiaro indice di debolezza drammaturgica è la netta divisione delle due anime della pellicola, cui la sceneggiatura dà diseguale attenzione: se, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'ossatura da poliziesco frettoloso e corrivo (con il trafficante di droga da acciuffare, gli informatori da proteggere e la solita serpe nel seno dei buoni), risultano innegabilmente riusciti i momenti legati alla sfera privata, si pensi alla sequenza del ritorno a casa di Mullins o a quella della gran bevuta in un pub frequentato soltanto da anziani. A tratti retorico e ripetitivo, il film ha comunque il merito di riuscire a divertire con un'ironia esplicita e scorretta attraverso la quale si scorge la fisionomia di un regista che sa il fatto suo. Sempre più padrona dei propri mezzi espressivi, Melissa McCarthy non può non conquistare lo spettatore dalla prima inquadratura.
Judd Apatov, dopo il successo di 40 anni vergine centra di nuovo il bersaglio del box office americano con questa commedia finalmente diversa dalla media di quelle che ci arrivano da Hollywood. Il segno del cambiamento è dato già dalla durata: 129 minuti. Commedie come questa solitamente superano di poco l'ora e mezza. Apatov, che ha scritto anche la sceneggiatura, invece si prende tempo. Perché? Perché vuole trasformare i personaggi in persone. Parte da due universi opposti che sottolinea con forza. Avvalendosi di un'esagerazione che potremmo definire 'landisiana' (pensando ovviamente al Landis di National Lampoon e di Animal House) ci descrive il gruppo di amici caricandoli di tutte le volgarità possibili. Dall'altra parte, a contrasto, propone un nucleo borghese con grandi e piccole ipocrisie, sia nel privato che nel mondo del lavoro.
Ben e Alison potrebbero essere così l'ennesima coppia buddy/buddy. Invece sono qualcosa di più: messi di fronte alla presenza di una nascita possibile i due personaggi restano al contempo se stessi pur trasformandosi reciprocamente. Questo permette allo script di continuare a farci sorridere o ridere ma non rinunciando a inserire temi quali la responsabilità, l'aborto, la necessità di una crescita personale, il senso del passare del tempo e della adolescenza che se ne va. Non ci lanceremmo, come alcuni hanno fatto negli States, nell'ormai abusatissimo paragone con Harry ti presento Sally.
Quello che è certo è che, finalmente, abbiamo di nuovo di fronte l'esempio di come si possa realizzare una commedia di successo senza chiedere allo spettatore di lasciare i neuroni a casa. Se ne sentiva la mancanza.
L'ultimo film di Brandon Lee, figlio di Bruce, morto sul set per un colpo di pistola. Alcune scene sono state lavorate col computer per permettere di far "resuscitare" l'attore. Tratto dal fumetto omonimo. Grande videoclip, con ottima musica che va dai Cure agli Stone Temple Pilots. Tecnicamente ineccepibile ma freddo e un tantino manieristico.
La storia de L'ultimo dominatore dell'aria potrebbe benissimo essere tratta da uno dei fumetti che ossessionavano il personaggio di Samuel L. Jackson in Unbreakable. L'idea della predestinazione, le responsabilità dell'eroe e il peso dell'armonia del mondo, gravano sulle coscienze degli eroi di Shyamalan perfino da prima che lo Spider-Man di Sam Raimi vi intessesse sopra la sua tela. È per questo che, nel passare dalle fairy tales più oscure e autoriali a quelle improntate al blockbuster per l'infanzia, Shyamalan si è approcciato alla storia di un giovane bonzo incapace di accettare il suo destino di messia e si è addentrato nella mitologia pop di un cartone animato figlio della globalizzazione, dove le filosofie orientali confluiscono nello schema del romanzo di formazione occidentale. La matrice in questione si chiama Avatar (dal nome dell'incarnazione della divinità induista) e, curiosamente, è proprio nel tentativo di accostarsi all'estetica tecnocratica dell'omonimo film di James Cameron che L'ultimo dominatore espone i propri difetti. Difetti relativi agli eccessi di zelo di un autore impaurito dalle nuove tecnologie più che da fantasmi, alieni o forze oscure della natura; incapace di opporsi a un uso posticcio e autolesionista della stereoscopia o di tagliare il cordone ombelicale dei rimandi obbligati al Signore degli anelli.
Ma se il salto in avanti verso la contemporaneità non gli riesce pienamente, quello teso all'indietro verso il fantasy puro e godibilmente kitsch del passato risulta invece particolarmente aggraziato. Shyamalan evita la fraseologia esoterica e la solennità ingombrante dei fantasy aggiornati all'era di Peter Jackson. Del cartoon originale conserva l'elementarità dell'intreccio (un mondo diviso fra i cattivi della Nazione del Fuoco e i buoni della Tribù dell'Acqua) e la complessità dei caratteri (i dilemmi di Aang e i tormenti della nemesi di Zuko, il figlio disconosciuto del Re del Fuoco), per mettere enfasi sul contenuto morale della storia. Per questo, anziché privilegiare l'estetica del montaggio brutale, le sue sequenze d'azione si costruiscono in post-produzione come un lungo e sinuoso piano-sequenza, un movimento perpetuo che scandisce e isola il peso e il tempo di ogni mossa delle varie arti marziali praticate. Nell'estrema linearità del racconto, anche i flashback vengono introdotti con l'esplicitazione "démodé" del primo piano, così che ogni elemento narrativo sia in armonia con il tutto. In quanto "ultimo dominatore" delle fiabe nel cinema contemporaneo, Shyamalan tenta di riportare il fantasy alla sua essenza, a un livello di fruibilità tradizionale e a un'etica genuina. Se fallisce, lo fa solo laddove tenta di "dare profondità" alle trame oscure della perdita dell'innocenza attraverso la sofisticazione delle protesi tecnologiche.
Basato sulla graphic novel "Rest in Peace Department" di Peter M. Lenkov, pubblicata dalla Dark Horse Entertainment, il quarto film hollywoodiano del tedesco Robert Schwentke ha il coraggio di essere fino in fondo quello che promette. Cioè un giocattolone spavaldo e ridanciano che, partendo da quel paradosso fantastico del ritorno dopo la morte di cui sono pieni tanto la letteratura quanto il cinema, intrattiene e diverte senza mai uscire dai propri prefissati binari. Visualmente interessante, in bilico tra fumetto, videogame e un'estetica dell'eccesso che frulla insieme trovate grottesche e esplosioni di orrore comico, racconta una storia di tradimento e rivalsa mettendo in campo personaggi-cliché buoni per un'ora e mezza di divertimento senza pretese.
Sul Nick di Ryan Reynolds, in parte, ma sempre un tono sotto le sue possibilità, svetta il gioco al massacro che Jeff Bridges compie su se stesso con lo sceriffo Roy Pulsipher, perfetta parodia dei ruoli per cui è celebre: spaccone e cocciuto, per forza di cose fuori da ogni schema, si muove tra il Rooster Cogburn di Il grinta, Bad Blake, Jeffrey Lebowsky, più una spolverata di alcuni personaggi interpretati da Kris Kristofferson. Poco resta agli altri attori, a partire da un prevedibile Kevin Bacon nella solita parte sgradevole, la francese Stephanie Szostak, come inconsolabile moglie di Nick, o la frizzante Mary-Louise Parker, addetta al reclutamento delle anime con la pistola. Se la sceneggiatura non riserva davvero nessuna sorpresa, il pericolo è niente di meno che una vera e propria apocalisse, una verve comica ben orchestrata riesce in parte a riscattare le varie mancanze, su tutte l'idea degli avatar con cui sono visibili, sulla Terra, Nick e Roy: rispettivamente un vecchio asiatico e una bionda tutte curve. Più che un film sulla redenzione e sulla seconda possibilità, nient'altro che un pretesto di partenza, R.I.P.D. - Poliziotti dall'aldilà è un passatempo innocuo e godibile, perfetto per chi ha la bontà di accettare la sfida.
Sembra di essere tornati in clima di guerra fredda: il più grande impero commerciale del mondo finanzia armi di distruzione di massa e ha installato la sua enorme struttura clandestina sotto i ghiacci dell’ex Unione Sovietica. Non a caso, la lotta di Alice è una lotta per la libertà, dall’alveare, prima, dal padrone di turno poi (che sia la regina rossa oppure Wesker), oltre che una lotta per la propria umanità, minacciata dai cloni ma anche, in un certo senso, dai superpoteri.
Così come non pare esserci via d’uscita dal quartier generale della matrigna corporation (le città e gli esterni in generale non sono che proiezioni olografiche generate dal computer), non c’è spazio per l’umanizzazione credibile di Alice in un film generato da un videogioco. Ed è un problema narrativo reale. La grande novità del quinto capitolo è infatti l’acquisizione dell’esperienza umanissima della maternità da parte di Alice, che si trova al momento in condizioni normali e non potenziate, ma la parabola degli eventi è quasi ridicola. Dapprima è un istinto del tutto indotto e iper narcisistico a farla agire in maniera irrazionale (rispetto alla logica da soldatessa), poi è soltanto dopo avere estratto la ragazzina da una mostruosa placenta che Alice si assume il ruolo di genitrice, avendo superato ancora una volta una prova fisica alla quale non corrisponde alcuna dimostrazione sentimentale. In conclusione, dal regime della simulazione non si scappa, e in questo senso il film ha una logica interna tanto claustrofobica quanto coerente.
Al di là della sequenza iniziale, costretta ad inventare ogni volta una formula visiva per non tediarci col piatto riassunto delle puntate precedenti, e di quella finale, che aumenta il carico del contagio e della battaglia a venire, il ventre del film è il solito percorso a tappe con abbattimento degli ostacoli, perdite sul campo, aumento dimensionale del nemico e diminuzione qualitativa della recitazione (d’altronde, con quei dialoghi non dev’essere facile fare di meglio). Crescono anche le ridicolaggini involontarie.
Giunti all’inizio della fine non resta che attendere la fine della stessa, per assicurarci l’evasione definitiva.
Il film di John Davis è a tratti divertente, anche se scontato, grazie soprattutto a qualche dialogo brillante, e si conclude con un finale corale di stampo disneyano. Il protagonista, realizzato in digitale, si muove nel mondo reale con una certa simpatia, e non fa rimpiangere le espressioni, del genere occhioni a mezz'asta, che contraddistinguono il personaggio creato da Jim Davis. Leggero, a volte realmente simpatico, una visione per tutti, Garfield, passa e va con un sorriso.
Tratto dalla prima parte del romanzo (1979) di avventure fantastiche di Michael Ende che, furioso dopo aver visto il film, fece togliere il suo nome dai titoli: "auguro la peste ai produttori. M'hanno ingannato. Quello che mi hanno fatto è una sozzura a livello umano, un tradimento a quello artistico". Costato 25 milioni di dollari _ la più costosa produzione del cinema tedesco _ è un film fantastico con messaggio: se la gente smette di sognare, non può sopravvivere. Trionfo degli effetti speciali, pachidermica macchina di spettacolo, sfilata di mostri, ma senza violenza e nemmeno orrore. Manca di tensione drammatica e di ritmo avventuroso.
Basato sulla bella graphic novel del grande fumettista inglese Alan Moore (da un cui precedente lavoro è stato tratto "From Hell", La leggenda degli uomini straordinari rappresenta purtroppo un'occasione persa. Il peso mitico di un'immaginaria alleanza di eroi della letteratura popolare poteva portare a qualunque risultato: purtroppo il carneade Norrington sceglie la via più facile e bolsa, quella del blockbuster tutta azione (per la verità confusa) e effetti speciali. Così, dopo la godibile prima parte,il film precipita nell'anonimato, col sovrappiù di qualche errore (il Carnevale di Venezia che si svolge a Luglio) da produzione di serie B anni '50. Di cui però non ha nè il ritmo nè la capacità di divertire. E qualche sequenza azzeccata non rialza il tono generale.
Terzo film dello Studio Ghibli e primo successo commerciale - sarà ugualmente il primo ad essere doppiato e distribuito dalla Disney - diretto da Hayao Miyazaki, Kiki mostra il lato più verista del Miyazaki-pensiero, limitando la sfera del magico a un ruolo di contrappunto nel percorso di crescita, totalmente umano, della protagonista. La perdita dei poteri magici, che comporta passaggi anche narrativamente traumatici - Jiji, gatto nero parlante e inseparabile compagno di Kiki, ritorna a essere un gatto qualsiasi, privando il film di un elemento caratterizzante - è del tutto assimilabile, in tutt'altra epoca e contesto, a quella che colpisce in Spider-man 2 il supereroe della Marvel. Pubertà come chiusura di una breve epoca felice di magia e ingresso nel mondo, meno accattivante ma capace di gratificare concretamente, delle responsabilità e dell'autonomia.
Forse è proprio l'eccesso di chiarezza nei segni disseminati da Miyazaki il principale punctum dolens di Kiki - Consegne a domicilio, quello sfiorare l'apologo che ha reso il film un prodotto più esportabile di altre opere del sensei, ma lontano dai vertici - non a caso oscuri ed ermetici, quasi esoterici, nelle loro allegorie - de Il castello errante di Howl o La città incantata.
Tratto dal romanzo illustrato di Neil Gaiman e Charles Vess, pubblicato per la prima volta nel 1998, "Stardust" è la favola che tutti vorrebbero leggere e, adesso, vedere. La versione cinematografica di Matthew Vaughn non delude le attese del pubblico grazie alla perfezione delle immagini, alla tecnologia sbalorditiva impiegata per gli effetti speciali e all'efficacia della recitazione. Il regista inglese crea sullo schermo un mondo fantastico dove si ragiona in termini supremi: la lotta tra il Bene e il Male, il senso insaziabile dell'uomo per la ricerca di una stella, dell'amore vero, della casa e del destino ultimo. Come ogni eroe, Tristan varcherà la soglia, il muro di Wall, e affronterà l'ignoto e l'incanto dell'avventura: volare con un pirata frivolo che imprigiona i fulmini o scontrarsi con una strega nomade che trasforma una principessa in un fringuello.
Un soggetto da rito di passaggio su come un "garzone" riesca a riconciliarsi con le umiliazioni subite e a scoprire le proprie incredibili possibilità. La "polvere cosmica" di Vaughn ha dalla sua (anche) la qualità superiore di tutte le interpretazioni, con punte massime nell'autenticità degli "adolescenti", Claire Danes e Charlie Cox, pieni di stupore e di angoscia nello stare al gioco di se stessi. Si aggiungono i numeri accattivanti di Michelle Pfeiffer, strega radiosa che Vaughn magnifica in straordinari primi piani, e Robert De Niro, filibustiere vezzoso col vizio del travestitismo.
Primo film del 2012 a superare la fatidica soglia dei 100 milioni di dollari d'incasso in America - ottimo risultato, visto che il budget di produzione non ha superato i 30 - l'esordio alla regia di Michael Sucsy si presenta come il più classico dei dramedy contemporanei, deciso a sfruttare fino in fondo il romanticismo dello spunto di partenza e il glamour dei due protagonisti Channing Tatum e Rachel McAdams.
Quello che funziona più di tutto nella prima parte è l'ambientazione, una Chigaco elegante ma non ostentata, teatro moderno e funzionale per una storia che procede spigliata e interessante nelle premesse; a sorreggere la sceneggiatura comunque ben calibrata è un Channing Tatum sorprendentemente divertente e molto più efficace rispetto alle sue ultime apparizioni sul grande schermo. È lui l'anima del film, la figura con cui il pubblico può empatizzare, non soltanto perché il suo ruolo è quello di chi realmente soffre, ma anche perché al contrario il ruolo di Paige è descritto in maniera piuttosto imprecisa, troppo sospeso per poter diventare un carattere ben definito seppur nelle sue mancanze. Ad interpretarlo con poco spessore è poi una Rachel McAdams che sta subendo un preoccupante processo di regressione, sia come attrice che per quanto riguarda il suo appeal: rispetto a prove passate come quelle fornite in Le pagine della nostra vita o 2 Single a nozze la trentatreenne attrice canadese appare quasi totalmente mancante della dolcezza e del fascino che l'avevano lanciata.
Tra scene ben scritte, alcune gag divertenti e momenti appositamente costruiti per intenerire, La memoria del cuore si sviluppa in maniera scorrevole fino a un finale che non riesce ad evitare qualche retorica di troppo. Un altro punto a sfavore della messa in scena di Sucsy è che, vista la precisa volontà di voler evitare scene eccessivamente pompose e strappalacrime - scelta comunque condivisibile -, non realizza però nessun momento capace di rimanere veramente impresso nella memoria dello spettatore.
Alla fine del film si rimane pervasi dalla strana sensazione di aver assistito a un prodotto di genere costruito con discreta lucidità ma che non ha regalato quell'attimo in cui il sentimento rompe gli argini della tenerezza per diventare invece vero melodramma. La memoria del cuore, pur con tutti i suoi limiti, è tuttavia un film più che accettabile.
Tanto per dirne una: il vero Mickey Cohen verrà arrestato per evasione fiscale dodici anni dopo il 1949 qui raccontato. Una (non tanto) piccola considerazione che illustra bene come questa versione de ‘Gli intoccabili’ un quarto di secolo dopo l’originale finisca per suonare falsa e vuota. Per carità, la confezione è elegante assai: I costumi di Mary Zophres e le ambientazioni di Gene Serdena ricostruiscono la Los Angeles del secondo dopoguerra in maniera quasi iperrealistica, immersa com’è nei colori saturi e squillanti della fotografia di Dion Beebe, mentre la sceneggiatura di Will Beall (tratta dal libro di Paul Lieberman) viaggia abbastanza spedita, almeno fino a quando il livello di sospensione dell’incredulità rimane entro limiti ragionevoli. Il sergente O’Mara (Josh Brolin) viene incaricato dal capo della polizia Parker (Nick Nolte, trent’anni di più del personaggio reale) di costruire una piccola squadra sotto copertura per contrastare l’affermazione dell’astuto e spietato ex-pugile Cohen (Sean Penn), intento a farsi largo negli ambienti del crimine organizzato a colpi di morti ammazzati. Malgrado le preghiere della moglie incinta (Mireiile Enos), O’Mara recluta il disincantato Wooters (Ryan Gosling) e poi pare scegliersi i suoi in modo da non scontentare le minoranze razziali, imbarcando l’agente nero Keeler (Anthony Mackie) e quello ispanico Ramirez (Michael Peňa) assieme al ‘Cowboy’ Kennard (Robert Patrick). Il vero colpo di fortuna gli arriva però dalla tecnologia grazie alle cimici piazzate dall’agente Harris (Giovanni Ribisi) e, in particolar modo dal fascino di Wooters, che riesce a far innamorare di sé la pupa del gangster (Emma Stone): che il loro rapporto vada avanti per mesi senza che nessuno tra i moltissimi tirapiedi di Cohen se ne accorga è abbastanza inverosimile, ma in linea con la seconda parte del film in cui il gruppetto va a testa bassa contro il nemico uscendone vincitore dopo uno scontro finale a fucili mitragliatori spianati. Viste le numerose forzature, il racconto si fa più faticoso e, malgrado l’azione si dovrebbe fare in teoria più stringente, il ritmo finisce per risentirne: molto meglio, sotto questo aspetto, la prima metà della pellicola, in cui la presentazione dei personaggi avviene con ben altra efficacia. Se da una parte non si può dire che ci si annoi, dall’altra sembra a volte di vedere messo per immagini il manuale del classico film di guardie e ladri statunitense – ben presto si intuisce con certezza chi fra i buoni non sopravvverà – incluse le scene madri tra le quali spicca per incongruità la nascita del figlio del protagonista. La regia di Fleischer non manca di adattarsi alle esigenze del genere, con l’inevitabile uso del rallentatore, mentre il non banale cast dà l’impressione di divertirsi assai a interpretare un film in costume, ma senza peraltro darvi peso più di tanto. Se l’idea alla base di ‘Gangster squad’ era l’intrattenimento di genere, la missione si può dire compiuta anche se sarebbe stato meglio evitare di strizzare l’occhiolino coinvolgendo le figure reali; se invece l’aspirazione era a qualcosa di più, magari nella scia del film di De Palma, il bersaglio è stato mancato e non di poco.
La commedia romantica si rinnova aderendo alle nuove tecnologie, ai nuovi costumi e alle nuove mamme, emancipate e assertive, che aprono il blog del genitore perfetto e indossano pattini e mutandine per una notte perfetta. Incarnata da Cameron Diaz, la Mary dei fratelli Farrelly per cui tutti continuano verosimilmente a impazzire, Annie è una super mamma e una super moglie dentro la commedia eccitata e reazionaria di Jake Kasdan (Bad Teacher). Orchestrata come una love story nella prima parte, Sex Tape è al tempo stesso attraversata da un'onda montante di segni negativi che sveleranno il loro fondo nella sequenza della festa in giardino, al termine della quale il protagonista di Jason Segel apprende con un sms dell'intimità svelata e condivisa.
Il film muove allora al 'recupero' dell'immagine e delle immagini compromettenti, 'degenerando' negli esemplari assoli di Rob Lowe, imprenditore cocainomane col vizio dell'animazione Disney, e Jack Black, proprietario impetuoso di YouPorn con quello della clava. Indeciso sull'acceleratore, che trattiene poi fino ad arrestare la corsa, il regista americano esaspera equivoci e incidenti mettendo a dura prova le pur sovrumane doti d'incassatrice di Cameron Diaz, in overdose e alle prese con le tirate sentimentali del consorte. Attrice magnifica e ammirata che tuttavia non può più interpretare credibilmente personaggi di vent'anni. La dialettica tra ideale sentimentale dell'io e volgarità inestirpabile del mondo, così naturale nel cinema dei Farrelly e degli Apatow, non riesce a Kasdan, che spreca due attori di pregio dentro l'ennesima commedia intorno agli insignificanti affanni dei quarantenni americani.
Compagno d'armi di Judd Apatow e produttore fuori dagli schemi (Freaks and Geeks, TV Set), il regista americano firma una commedia incostante e incredibilmente (co)sceneggiata da Jason Segel. Un sex flop che cerca il trash e trova la pruderie moralizzante, che resta giudizioso e mette sopra a ogni cosa il valore della famiglia, impegnando tutte le sue risorse a nascondere qualsiasi nudità che non siano i glutei. Evidentemente tollerati da censura e bigottismo anglosassone.
33 anni dopo il capolavoro di Pierre Boulle, Tim Burton delude e fa rimpiangere il vecchio Pianeta. In questo film cercheremo inutilmente il segno del genio di Tim, la sua ironia beffarda, il gusto sovvertitore degli schemi. Tutto questo qui non c'è. I sostenitori 'nonostante tutto' non mancano e non mancheranno. Noi, intanto, aspettiamo che Tim si liberi dal dominio delle scimmie. Che non gli ha fatto bene.
Redattore annoiato e oltremodo noioso sogna di essere un incravattato venditore di computer mentre è in realtà uno scribacchino sfigato, ardimentoso solo di poter spander merda contro chi, che lo voglia o meno, lo difende dai terroristi arabi cattivi e gli permette di scrivere schede di presentazione simili.
Ancora una volta quella di Riddick è la parabola dell'uomo solo contro un mondo spietato, impegnato a sopravvivere in un universo oscuro nel quale si muove con agilità dopo aver modificato chirurgicamente gli occhi, che ora possono contare su una sorta di visione a raggi infrarossi. Una metafora potente per i nostri tempi bui e la nostra epoca individualista che, nell'episodio iniziale della saga, si era tradotta in un B movie originale e divertente, anche grazie al modesto budget che spingeva il regista David Twohy ad "arrangiarsi" in modo creativo.
Con l'aumento di budget il secondo capitolo si era adagiato sui cliché sacrificando lo spirito irriverente e iconoclasta di Pitch Black al conformismo hollywoodiano. In questo terzo episodio Twohy cerca una difficile sintesi fra lo spirito del B movie originale, evidente nell'ironia con cui vengono descritti i personaggi, e la necessità commerciale di confezionare un blockbuster globalizzato. Il metro con cui Twohy sembra aver concepito questo Riddick è il gusto del quattordicenne cresciuto a videogame: ci sono le scazzottature con i mostri alieni, le armi da fuoco e da taglio gigantesche, le moto spaziali, le donne da calendario (una delle quali è una lesbica da "convertire"), il sangue che sgorga a fiotti.
Un universo preadolescenziale in cui Riddick si aggira esprimendosi per frasi fatte, rivolgendosi prevalentemente a se stesso e confrontandosi con creature delle quali sottolinea immancabilmente l'inferiorità, come fa ogni teenager arrabbiato col mondo. E' un incrocio fra un supereroe e una divinità mitologica che sopravvive ad ogni traversia e quando è ferito si autoinfligge medicazioni alla Rambo. E poiché nell'episodio precedente si è fatto "cogliere alle spalle", in questa puntata Riddick decide di ritrovare il suo istinto animale e la sua ferocia ferina: peccato che il finale, che non riveliamo, contraddica questa premessa e tradisca l'essenza autarchica del suo personaggio.
I cattivi, cui è dedicata buona parte della trama (curioso come Vin Diesel, che presta la sua fisicità imponente a Riddick ed è anche coproduttore della saga, sia assente da gran parte di questo episodio), sono una corte di miracoli di sprovveduti, a cominciare dal Santana che Jordi Mollà interpreta come un incrocio fra il Monnezza e Willy Coyote. Nella parte loro dedicata il film sconfina ampiamente nella parodia camp e si presta ad infinite citazioni ("Dì qualcosa di biblico su questi corpi"). Totalmente relegato alle fantasie onanistiche, infine, il personaggio di Dahl, la guerriera che "non fotte gli uomini perché non ce n'è uno che ne valga la pena".
Dietro le mentite spoglie del courtroom drama, The Judge racconta un dramma famigliare e il modo tutto suo in cui il clan dei Palmer sa essere infelice. Non solo Hank e Joseph, ma anche Glen e il terzo fratello, Dale, sono infatti ingabbiati in una ragnatela di rancori e rinfacci che non permette a nessuno di vivere con serenità il presente e costruirsi un futuro. The Judge è, innanzitutto, una prova di attori, a cominciare dai due protagonisti, Robert Downey Jr. e Robert Duvall, assai convincenti nei ruoli di Hank e Joseph: Duvall regala una delle interpretazioni più sottili della sua carriera, malgrado la sceneggiatura viri volentieri verso il melodramma, e Downey si allontana dalla recitazione da fumetto di Iron Man e The Avengers per ritrovare mezzitoni e sfumature, soprattutto attraverso lo sguardo. Anche i comprimari, soprattutto Vincent D'Onofrio nei panni di Glen e la sensuale Vera Farmiga in quelli di Sam, ex fidanzatina di Hank ai tempi della scuola, sono credibili e commoventi.
Il tallone d'Achille di The Judge è la sceneggiatura, che andrebbe asciugata di alcune scene madri e di almeno cinque finali di troppo. Anche le linee narrative sono ridondanti: vista la potenza della storia principale (il difficile legame padre-figlio e il processo per omicidio) non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro, e infatti le "seconde linee" sono poco sviluppate e meno coinvolgenti. Il che non toglie che la sceneggiatura abbia i suoi momenti, e sorprenda con svolte imprevedibili: molte scene sono davvero riuscite, alcuni dialoghi particolarmente intensi, o spassosi, o entrambe le cose insieme, complice anche la capacità di Downey e Duvall di gestire il fuoco di fila delle loro battute con consumata maestria.
Bellissime, ad esempio la sequenza in cui l'avvocato di città mette a tacere il bullo di provincia evitando una rissa da bar (e lavorando contro stereotipo), o quella della selezione della giuria popolare, basata su un assunto fondamentale: che molte personalità (almeno in America) possano essere sintetizzate dalla scritta sull'adesivo appiccicato al retro della loro auto. Assunto che diventa esistenziale e conduce alla fatidica domanda: qual è il nostro bumper sticker? Ovvero chi siamo noi, riassunti in una frase?
Purtroppo a volte le scommesse quasi certe, quei pronostici così blindati che è quasi piacevole veder smontati, si rivelano drammaticamente azzeccate. Sul successo di Gods of Egypt, man mano che si avvicinava la data di uscita del film, non puntava più nessuno. In primis la Lionsgate, che ha drasticamente rallentato la campagna mediatica dopo le previsioni funeste sugli incassi del primo weekend e dopo che l'unico motivo di attenzione intorno al film è risultato il linciaggio di Twitter in nome del cosiddetto "whitewashing". Già dai primi lanci pubblicitari è infatti balzato all'occhio come carnagione e accento del cast, e di Gerard Butler e Nikolaj Coster-Waldau in particolare, si allontanassero da quanto atteso per degli antichi Egizi: e la giustificazione secondo cui si tratta di divinità e non di semplici umani suona se possibile ancor più razzista e insostenibile.
Ma è lo spirito con cui è stata concepita l'intera operazione Gods of Egypt ad essere caratterizzato da questa spregiudicatezza: nessun legame con l'effettiva mitologia egizia, nessuna volontà di nascondere il ridicolo dietro a ogni inquadratura sovraccarica di cgi o a una scenografia al di là del kitsch. Fino a concepire il dio Ra con le fattezze di Geoffrey Rush, su una sorta di astronave e perennemente intento a sfidare un demone nero che vuole divorare il mondo. Il problema è che il fatto di non prendersi (troppo) sul serio non è sufficiente a giustificare la presenza in sala di un blockbuster mancato, destinato a non avere un pubblico. Chi cerca il fantasy stile Trono di spade è troppo esigente in tema di personaggi iconici e intrighi che sfruttino la magia, mentre chi ama il peplum contemporaneo, figlio della sbornia di 300, si alzerà dalla sedia alla prima e goffa trasformazione degli Dei in creature tra il robotico e l'animalesco. La qualità della post-produzione è così scarsa da rendere indistinguibili (o semplicemente indistinti?) molti dettagli di computer graphics, specie considerato un budget di 140 milioni di dollari, sfruttato malissimo. Non essendo neanche spinto dalla necessità o dall'interesse economico che accompagnano spesso un adattamento o un remake, resta da capire a cosa mirasse Gods of Egypt, visto che manca l'iconoclastia della parodia e l'elemento comico del film è totalmente involontario. Per Alex Proyas, legato in passato a opere di culto dei Novanta come Il corvo o Dark City, uno scivolone quasi irrimediabile, con un'opera il cui ricordo imperituro è relegato agli annali del trash, tra un Ed Wood e un Mystery Science Theater 3000.
È la prima volta che qualcuno al cinema affronta la mitologia greca per quello che è: mito, racconto, narrazione eroica prima ancora che manifestazione effettiva. Nel mondo di Hercules - Il guerriero il prodigio non è chiaro se esista o meno, gli dei, le creature mitiche, le maledizioni e anche gli interventi sovrannaturali stanno nei racconti ma non si vedono nella realtà, per crederci serve fede e forse una buona dose d'inganni. Centauri che si rivelano uomini a cavallo, Cerbero che si rivela essere tre lupi separati e via dicendo, ogni mito viene svelato per essere una costruzione basata su una realtà poco metafisica e molto concreta, sempre finalizzato a mettere paura, tenere buoni o esaltare le truppe.
A partire dal fumetto omonimo di Steve Moore, questo ennesimo film su Ercole si caratterizza subito come unico nel suo genere, in bilico tra credibile e incredibile. A partire da un soggetto favoloso per complessità e ardore (una Grecia antica in cui gli dei forse non esistono o, se ci sono, non si manifestano mai, in cui la mitologia pare sempre una balla ben costruita a cui solo alcuni credono ma che fa comodo a tutti promuovere) e passando per una sceneggiatura penosa che annacqua con svolgimenti elementari, psicologie ridicole e dialoghi da decerebrati quella che poteva essere una grande storia, Brett Ratner mette assieme un film mitologico peculiare, che fa il suo dovere quando si tratta di dare un po' d'azione furiosa e ben diretta al suo pubblico, ma frustra regolarmente ogni possibilità di ulteriore approfondimento (e non sono poche quelle offerte dal soggetto) e minimizza qualsiasi spunto interessante.
Così ciò che rimane sono solo assaggi di uno strato del racconto più complesso. Come in L'uomo che uccise Liberty Valance in questo Hercules sembra di intuire un rapporto conflittuale tra leggenda e storia, in cui la prima è sia un dono che un flagello (incredibili gli incubi di Hercules, vittima di ossessioni influenzate dalle leggende che egli stesso ha messo in giro e che teme essere vere), come in uno spaghetti western il protagonista è un reietto che vaga in preda al rimorso, dotato di motivazioni ossessive (la sua famiglia è stata trucidata, lui non ricorda da chi e ha buoni sospetti d'essere stato egli stesso), come in un thriller anni '90 ciò che viene immaginato è importante quanto ciò che accade realmente e infine come in un film d'autore europeo il silenzio divino non è mai spiegato né esplicitato, perché il punto non è scoprire la verità ma decidere di credere o meno.
Perfetta la scelta di usare un corpo come quello di Dwayne Johnson, fisico al limite delle potenzialità umane per grandezza e potenza muscolare, reale nel suo titanismo ma anche verosimilmente semideistico, l'unico attore in grado di mantenere vivo nel pubblico il dubbio costante che questo personaggio sia un uomo normale dai muscoli esagerati o il figlio di un dio.
Arrivata al quinto film la saga di Predator, diventata tale solo negli ultimi anni in virtù di una serie di sequel non autorizzati, blandamente attesi e male accolti dagli appassionati, sembra ritrovare lo smalto originale. Dopo un sequel urbano e due altri film in cui addirittura si tentava il crossover con un'altra saga di carattere alieno ora, grazie alla coerenza di Robert Rodriguez si torna al vero senso della storia: raccontare una storia di giungla e caccia, di umanità e nemici nell'ombra.
Sebbene negli ultimi anni i progetti nostalgici di Rodriguez non abbiano sempre brillato per autonomia rispetto ai modelli ricalcati, questa volta, anche in virtù della scelta (forzata) di abdicare il ruolo di regista ad un abilissimo mestierante quale è Nimrod Antal, il risultato è al di là di ogni aspettativa. Predators individua la giusta distanza dal modello originale, ne comprende la forza immediata e l'importanza della presenza fisica dei personaggi ma non lo replica pedissequamente, ne cita score e sequenze cardine ma riuscendo a farne un uso diverso, porta avanti la mitologia interna della saga ma senza dimenticare il motivo per il quale in origine si è raccontata quella storia.
Con una macchina da presa dalla mobilità insolitamente controllata per il genere, Nimrod Antal dimostra di avere qualcosa da dire e di volerlo fare con la messa in scena. Non pone l'accento nè sui protagonisti, nè sui (ben più venerati) cattivi della serie ma sul contesto: la foresta, il pianeta alieno, l'assedio, il predatore che, diventato preda, è costretto ad una caccia inversa. Il risultato è che il film non sembra farsi troppe domande, come è giusto che sia, parte con un attacco fulminante (i migliori primi 120 secondi degli ultimi 10 anni), che è subito una dichiarazione d'intenti, e finisce aprendo a possibili sequel; pretende un aumento di massa muscolare da Adrien Brody e poi lo schiaccia contro gli elementi della natura, lo priva progressivamente delle armi, dei compagni e delle tecnologie ma non opera quella regressione allo stato animale attraverso la quale McTiernan scovava l'elemento umano primigenio e il succo del conflitto con l'alieno, inteso come "altro".
Visti i risultati e l'indubbia bravura nell'assemblare forze e talenti (Brody è insospettabilmente perfetto), forse Robert Rodriguez dovrebbe dedicarsi anima e corpo al mestiere di produttore.
C'era una volta un'epoca in cui i bambini erano creature a latere, affidati alle balie, minacciati da un'altissima mortalità infantile, messi a tacere ogni qual volta non fosse il loro turno di parlare, impossibilitati ad avere opinioni proprie fino alla maggiore età o a poter anche solo presenziare ai ritrovi sociali degli adulti. Quell'epoca è così lontana dal costume di oggi che se ne è persa la memoria. Oggi riconosciamo ai bambini lo status di persone a tutti gli effetti; da genitori preferiamo occuparcene in prima persona la maggior parte del tempo e segretamente li invidiamo per la loro appartenenza ad un'età della vita per lo più comoda e spensierata. Oggi esageriamo anche: non sono più i piccoli a doverci sedurre per avere la nostra attenzione ma siamo noi a inseguirli, mettendoli al centro della tavola e dell'attenzione, impazzendo per compiacerli e per non essere da meno degli altri genitori. Il tutto, in un tempo che non conosce più l'aiuto della comunità e della famiglia numerosa, ma solo la difficoltà di dover fare troppe cose, troppo soli, in una giornata troppo corta.
Bad moms parte da questa paradossale verità (in effetti una delle poche verità assolute dei nostri anni), la spezia con un pizzico di sarcasmo ebraico, l'inasprisce con dosi massicce di cliché sul milieu wasp nordamericano e porta facilmente la protagonista, Mila Kunis, sull'orlo di una crisi di nervi. Poteva uscirne un film pericolosamente, irresistibilmente irriverente, e invece no.
Invece, le bad moms del titolo non sono bad proprio per niente: il loro peccato è quello di indulgere nell'alcool e nel turpiloquio per un periodo di breve durata, salvo poi riprendersi tutto e di più, scapolo d'oro compreso. In fondo, la genitorialità stessa è quasi un pretesto, per seminare qualche ostacolo sulla via della commedia romantica e dell'happy end. Ribaltando le aspettative iniziali, Bad moms si rivela infatti un prodotto sentimentalone, a tratti davvero scontato, a tratti capace di far breccia, ma solo e rigorosamente nell'animo fragile e esaurito delle mamme contemporanee.
Ron Howard, come la stragrande maggioranza dei lettori del romanzo, non sapeva che alla base del lavoro di Melville ci fosse una storia realmente accaduta che lo scrittore Nathaniel Philbrick ha indagato nel libro "Il cuore dell'Oceano - Il naufragio della baleniera Essex", vincitore del National Book Award per la Saggistica. La possibilità di confrontarsi con una produzione tra le più complesse da lui mai affrontate si è coniugata con un tema che è centrale nella sua filmografia: la ricerca di se stessi attraverso le difficoltà da superare e lo scontro con qualcuno che rappresenta un ostacolo.
Da Cinderella Man a Rush, passando per Frost/Nixon, Howard si è spesso sintonizzato su questa lunghezza d'onda ma Heart of the Sea gli ha offerto un'ulteriore possibilità. Il suo ruolo di narratore per il grande pubblico, senza però mai dimenticare la necessità del rispetto nei suoi confronti, trova nel personaggio di Melville il proprio doppio ideale. Herman come Ron si fa raccontare (a pagamento) una storia vera per poi intervenire sul suo intreccio con la propria creatività. Howard lo ha fatto molte volte nel corso della sua carriera (pensiamo ad esempio ad Apollo 13) quasi volesse alternare la fiction di pura invenzione con degli ancoraggi alla realtà.
C'è il respiro della classicità cinematografica nel modo in cui riprende l'avventura che vede protagonisti degli esseri umani e un cetaceo che, come lui stesso afferma, non ha nulla de Lo squalo perché preferisce accostarlo a King Kong leggendo in esso il simbolo di una Natura primordiale risvegliata dall'essere umano. Non si dimentica però anche di sottolineare come la balena bianca, divenuta grazie a Melville un soggetto a cui attribuire innumerevoli interpretazioni simboliche, fosse, al pari dei suoi simili, oggetto di un preciso sfruttamento economico perché l'olio di balena è stato l'antesignano del petrolio.
Se nel '700 si stimava la presenza negli oceani di cetacei attorno al milione di unità alla fine del secolo successivo esse erano ridotte a circa un terzo. Howard però non è interessato a realizzare un film 'ecologista' quanto piuttosto ad indagare, grazie a una struttura narrativa solida e quasi epica, l'oceano di sentimenti che risiede nell'animo umano e che l'immensa coda della balena sembra voler scuotere per metterne a nudo i moti e solcarne gli abissi.
I film di mare esercitano sempre un loro fascino: aggiungendo la salda mano artigiana di Ron Howard e la fascinazione per il monumento letterario di Melville si hanno come risultato queste due ore di solido spettacolo che va ben al dilà delle scene d’azione supportate da ottimi effetti speciali. In verità, la parte che occhieggia alla creazione di Moby Dick è la meno apprezzabile: forse anche perché il libro è pietra angolare per la letteratura d’oltreoceano e su uno spettatore europeo ha inevitabilmente meno effetto, ma l’impressione è che si potrebbe fare a meno della cornice in cui l’ultimo sopravvissuto della Essex riporta alla luce i propri ricordi su invito del giovane scrittore di belle speranze. Il dialogo fra i due, venato dalle rispettive confessioni, va a scapito della tensione narrativa, tanto che non si vede l’ora di tornare a bordo e navigare la vicenda principale: è vero che la rappresentazione di una Nantucket tra iperrealismo e tocchi turneriani è di notevole valore, ma la stessa appare comunque all’inizio e alla fine dell’epopea della sfortunata baleniera e, in ogni caso, la fotografia di Anthony Dod Mantle conferma la sua brillantezza anche in mare aperto, sia nei momenti più concitati, sia quando i rapporti fra i personaggi prendono il sopravvento sull’azione. Howard decide dunque di basarsi su di un episodio reale anziché affrontare l’ossessione di Achab: la preferenza del regista per la ricostruzione storica è andata accentuandosi negli ultimi anni, come dimostrano ‘Frost/Nixon’ e ‘Rush’, opere che, inoltre, hanno in comune un altro filo conduttore, ovvero lo scontro fra due caratteri agli opposti, con la sola differenza che qui il confronto si fa da pubblico a (quasi) privato. Sulla Essex, comandata dal novellino con pedigree capitano Pollard (Benjamin Walker), si imbarca come primo ufficiale Owen Chase (Chris Hemsworth), la cui abilità marinaresca è tutta frutto dell’esperienza: tra i due sprizzano subito scintille mentre la nave salpa a caccia di cetacei. Dopo un lungo viaggio poco fruttuoso, al largo del Pacifico pare loro di trovare l’eldorado del baleniere, ma un capodoglio gigantesco affonda l’imbarcazione, costringendo gli scampati a una lunghissima lotta per la sopravvivenza. Uno svolgimento abbastanza classico che costringe il regista, assieme all’autore di soggetto e sceneggiatura Charles Leavitt, a cambiare registro a metà strada: a una prima parte più movimentata, in cui è l’avidità a spingere il comportamento dei personaggi mentre vengono sballottati dalle tempeste o cercano di colpire con l’arpione le loro gigantesche vittime, ne segue una seconda in cui a prevalere è la semplice esigenza di rimanere vivi con relativo spostamento dei limiti umani e relativi scrupoli morali. La narrazione scorre dall’una all’altra senza far avvertire la cesura, tanto che il ritmo rallenta in modo naturale e qualche lungaggine, che pure c’è, non dà un particolare fastidio. Per questa via, contemperando con la dimensione storica una sua a volte evidente attitudine melodrammatica, Howard riesce a portare a casa il risultato, seppure il film non riesca a replicare l’efficacia che era di ‘Rush’: il merito, vale ripeterlo, sta soprattutto nel raccontare la vicenda in sé dando un’angolatura che ha più di un debito con la classicità della Hollywood che fu. Su tale concezione pare essere stata basata pure la scelta degli attori, la cui alchimia è fondamentale vista l’ambientazione in uno spazio ristretto quale può essere quello di una nave, per non parlare di una scialuppa (con tanto di dieta ferrea per raggiungere il fisico del ruolo): in un cast per forza di cose quasi del tutto al maschile, Hemsworth trova un nuovo ruolo, dopo James Hunt, che lo aiuta sulla strada per diventare un buon interprete e attorno a lui ognuno funziona come dovrebbe, dal forse sottoutilizzato secondo ufficiale di Cillian Murphy al ragazzo di bordo del futuro Uomo Ragno Tom Holland. Ragazzo di bordo che, diventato adulto, ha l’aspetto di Brendan Gleeson impegnato a discutere con Melville/Ben Whishaw in quella cornice molto teatrale che, malgrado la loro bravura, nulla aggiunge e forse qualcosa toglie alla soddisfazione complessiva.
Malgrado il cambio in sede di regia, la continuità tra il capitolo inaugurale e il sequel è evidente, al punto che ci si potrebbe considerare in presenza di un unico film, non fosse che nient'altro uccide una commedia più sistematicamente che tirarla troppo per le lunghe. Gli sceneggiatori hanno quanto basta loro in termini di materiale comico: un trio di personaggi azzeccati e di attori ben rodati, visibilmente ispirato alla compagnia di Una Notte da Leoni, dove la follia pura di Zac Galifianakis è però sostituita da quella più leggera di Charlie Day. E a dare l'idea di questa leggerezza è proprio il gas esilarante che, innescato per errore, dà luogo ad una delle scene più emblematiche del film: quella dell'armadio in casa di Rex. Si ride facile, insomma, ma si ride per forza.
La formula è quella picaresca che risale a Mark Twain (Tre uomini ...), patriarca che viene non a caso citato, a proposito di un travestimento mal riuscito di Kurt. L'ingrediente segreto, però, quello che fa il brand del film, segue i puntini: tre uomini ... e un progetto criminale rovinosamente fallimentare. I tre medio-men, per i quali funziona la legge antifisica secondo la quale l'unità non accresce la forza dei singoli ma ne rosicchia l'intelligenza, s'imbarcano in un piano folle, palesemente incongruo rispetto alle loro doti di natura e cultura sotto ogni punto di vista, qui persino contrario alla loro volontà. Si aggiunga un cospicuo numero di battute e il dopocena è servito.
Certo, il tema "sociale" della vessazione in ambito professionale e dei suoi terribili effetti sulla vita privata degli antieroi viene sbrigativamente accantonato, lasciato solo al titolo come ricordo e marchio di fabbrica, e il personaggio di Kurt finisce per raddoppiare quello di Dale (mentre poteva essere sfruttato con più autonomia), ma lo scopo è raggiunto, lo spirito conservato, il divertimento pure.
Fortunatamente, allo script di Resident Evil: Extinction ha lavorato il navigato Paul W. S. Anderson. Con all'attivo capolavori quali il primo episodio della saga e Alien vs. Predator, Anderson si è ben guardato dall'evitare il trash, pur avendo l'idea illuminante di far culminare la lotta in una Las Vegas insabbiata, luogo chiave dell'immaginario. La capitale del deserto è l'ovvia metafora di un mondo occidentale condannato all'assuefazione consumistica. Se George Romero insegnava a vedere negli zombi i vuoti simulacri dei consumatori, le copie del ponte di Rialto e della Tour Eiffel sono puri simboli del consumo, monumenti svuotati di senso, zombi anch'essi, dei loro originali.
Ma è inutile soffermarsi sui dettagli, l'idea di base schiva abilmente la critica sociale per concentrarsi su Milla Jovovich in shorts contro centinaia di morti viventi. Per la cronaca, l'eroina si dà al macello con un fucile a pompa, un machete e due pistole. E nello spreco di combattimenti grandguignoleschi Extinction non nasconde un lato pseudo femminista, dove eroine poco vestite tengono testa alla cospirazione gestita da burocrati ingessati.
Ma non è tanto l'idea che si critica, in fondo onesta e senza pretese, quanto la sua messa in scena, fracassona e volgarmente violenta. Riesumato da una carriera ormai pressoché televisiva, il regista Russel Mulcahy (Highlander I e II), si ostina a girare ogni sequenza partendo da dettagli per poi svelare poco a poco l'ambiente circostante con prevedibili colpi di scena. Delle scene d'azione poi non si capisce un gran ché e l'estetica da videogame risulta subito ridondante e confusionaria. Australiano, Mulcahy tenta almeno il gioco citazionista: continui i rimandi a Mad Max e persino a Hitchcock in un attacco di uccelli infettati. Poco importa, Extinction è una sorta di divertissement per l'ammazza-zombi Milla Jovovich, personaggio pieno di charme, senza dubbio, che nel finale finisce per clonarsi cadendo nella stessa ossessione del nemico. Ma proprio come i cloni o come quei simulacri dei monumenti mondiali a Las Vegas, contemporaneamente remake, sequel e adattamento, Extinction non può che perdere nella ripetizione anche il suo senso originario.
Affascinante il tema dell'immortalità, che diventa persino poco (a un certo punto un personaggio dice "Perché finisce"?), o che diventa ancora peggio una cosa negativa, non qualcosa che ti crea onnipotenza ma che ti fa provare ancora di più paura, la paura di restare imprigionato per l'eternità.
La scrittura è buona, mescola persino problemi del tutto presenti, come lo stress post traumatico che provano i marines americani e che viene in qualche modo equiparato a quello dei super-eroi... però manca qualcosa, ci sono poche scene spettacolari, anche se ci sono molte sparatorie, sono tutte girate in spazi interni e non proprio belle da guardare, in generale a livello di fotografia lascia il tempo che trova
Alla fine sei più attratto dai flashback del passato che da quello che arriva nel presente, per questo potrebbe essere carina l'idea di un prequel, più che quella di un sequel.