Dopo due film sui Transformers la Hasbro decide di ridare vita ad un'altra linea di giocattoli originariamente nata come parte di una strategia patriottica per fomentare il fronte interno riguardo la guerra in Vietnam e già riportata in vita con successo una volta all'inizio degli anni '80 grazie ad una serie animata per la televisione. Anche per questo infatti i soldatini arrivano al cinema non trascurando le origini nazionaliste.
Nel film di Stephen Sommers il nemico non è la guerra in sé, com'è ormai consuetudine nel cinema d'intrattenimento contemporaneo, essa è data per scontata anche perché i buoni sono una squadra speciale che con la guerra ci vive. Proprio come negli anni '60 il male sembra invece nascere dalla scienza militare, mentre la parte positiva del sistema battagliero sono i soldati, tanto che se i buoni sono guerriglieri scelti e superaddestrati come macchine i cattivi sono uomini ridotti al grado di robot da una tecnologia futuribile.
Più in generale però l'idea sembra essere quella di replicare la strategia vincente del film sui robottoni che si trasformano: realizzare un blockbuster fracassone dall'animo ironico che sappia distrarre i bambini con i botti, divertire i ragazzi con la comicità cinica, emozionare le ragazze con il sentimentalismo e intrattenere gli adulti con i corpi esibiti.
Ma se l'esperimento di Michael Bay era insperatamente riuscito nell'impresa di convincere un po' tutti quest'opera diretta dall'insipido Sommers sembra più la sua copia sbiadita, dotata delle medesime caratteristiche (che poi da sempre sono la cifra del regista di La mummia) senza però avere la potenza visiva di Bay.
Sfrenato e dissennato, G.I. Joe racconta una trama esile esile, focalizzandosi molto sulla ricostruzione delle storie personali dei singoli personaggi, creando un universo nel quale muoverli (dotato di tecnologie futuribili e organizzazioni multinazionali) e facendo culminare il racconto con la definitiva strutturazione dei due poli: da una parte l'asse del male e dall'altra i protagonisti che diventano dei "Joe". Si crea insomma il presupposto per i prossimi film, con tanto di cliffhanger finale che introduce e annuncia il secondo capitolo.
A mancare totalmente purtroppo è quel senso di "cool" tanto inseguito dal regista. Le battutine ad effetto durante le scene d'azione sono trite, i personaggi che dovrebbero essere i più desiderabili sono bamboccioni all'americana o stereotipi della cultura afroamericana mentre tutto il complesso di armi e gadget intorno ai personaggi suona giocattoloso (che forse è la cosa più appropriata) senza quell'appeal che dovrebbe e vorrebbe avere.
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Fare dell'ominima serie TV un film poteva essere un'impresa anche più improbabile delle omologhe compiute su Starsky & Hutch o Charlie's Angels, invece Joe Carnahan, applicando il suo registro vorticoso e ipertrofico, azzecca il taglio giusto e confeziona un film indirizzato ad un target tredicenne ma diretto con un'abilità tale da conquistare anche l'adulto pronto a regredire. Infantile ma con stile.
Ibridando con molta forza il cinema d'azione cartoonesco con la commedia americana, grazie a pesanti iniezioni di ironia e umorismo da one-line, A-Team riesce ad essere sufficientemente basso da andare a pizzicare gli istinti più gretti e contemporaneamente sufficientemente magistrale da vincere la ritrosia e i pregiudizi verso questo tipo di prodotti di un pubblico più smaliziato.
I personaggi cardine della serie sono più o meno come li si ricorda, tranne Sberla il quale, probabilmente in virtù della potenza mediatica in continua ascesa dell'attore che lo interpreta (Bradley Cooper), viene piegato per diventare il vero protagonista. Bello e sofisticato come nella serie ma anche uomo d'azione ironico e potente come James Bond, Sberla è l'unico personaggio minimamente approfondito, che sviluppa una storia d'amore e che nutre obiettivi personali al di là di quelli del collettivo. In questo singolo, grosso mutamento sta tutto lo scarto tra un prodotto seriale e uno per il cinema e anche l'abilità del team creativo, modificare un elemento per tenerne costanti altri. Non mancano infatti le sequenze di preparazione del piano, come anche quelle a bordo di diversi mezzi di trasporto, la tradizionale ritrosia di PE (o B.A. a seconda della lingua) Baracus per il volo e il rapporto burrascoso con Murdock (qui più divertente che nella serie).
Al di là però delle ottime strategie di marketing è possibile cominciare ad intravedere un'idea dietro i diversi adattamenti filmici delle serie televisive anni '70 e '80, ovvero un taglio fortemente ironico, in linea con lo sguardo che lo spettatore di oggi può avere nei loro confronti. Lungi dal cercare di aggiornare certe dinamiche o di rendere più serie di quanto non lo fossero le pretese di azione e intrattenimento, il remake di serie TV ad Hollywood è fatto (e con successo!) puntando sul divertimento quanto più epidermico possibile, in questo di fatto ricalcando il vero spirito di quei prodotti e configurandosi come la forma di remake più interessante nella giungla che popola la produzione recente.
Desta infine grande stupore come un film volutamente disimpegnato come A-Team voglia prendere una posizione politica di granito. Il cattivo qui è indubbiamente la CIA e non uno dei suoi membri bensì l'istituzione tutta. Gli uomini della CIA ricordano i russi degli anni '80 per come sono ritratti: tutti uguali, poco intelligenti, poco leali, poco furbi, viscidi, sadici, egoisti e dotati dei principali difetti umani. Già Green zone, con più cognizione di causa e più motivazioni, lanciava un attacco forte ma ora che anche un film mainstream dal grande incasso non disdegni di lanciare strali fa intravedere come Hollywood sembri aver scelto da che parte stare.
Film da massimi incassi, che è esattamente ciò che vuole essere: tensione, trovate, montaggio frenetico, un mix fra Die Hard, Indiana Jones e l'ultimo Bond.
Partendo dall'omonimo di libro di Pittacus Lore (pseudonimo che unisce le penne di James Frey e Jobie Hughes) D.J. Caruso si prende sulle spalle l'onere di dirigere uno script che non si vergogna di attingere a piene mani dagli ultimi 30 anni di saghe cinematografiche, con l'unico scopo di creare a tavolino un nuovo franchise.
Eppure Sono il numero quattro sembra avere più punti in comune con quei film che non sono diventati saghe (benchè lo desiderassero ardentemente) come Jumper o L'apprendista stregone, piuttosto che con quelli che lo sono diventati.
Dopo essere riuscito a rendere un remake non ufficiale di La finestra sul cortile come Disturbia un piccolo gioiello di ritmo e divertimento, D.J. Caruso dirige senza interesse una sequela di incontri e scontri tra alieni (i buoni simili ai più belli tra gli umani, i cattivi mostruosi), dimenticando di trovare una chiave personale di messa in scena. Sono il numero quattro è un film senz'anima e senza personalità, un puzzle di ottimi pezzi che una volta uniti non mostrano una figura nuova. Mescolato nel mare di prodotti simili, in cui adolescenti fuori dalla norma si innamorano di adolescenti nella norma e insieme cercano di trovare una dimensione per se stessi contro un destino avverso, Sono il numero quattro si confonde fino a sparire. Privo di qualità che lo facciano spiccare e privo di un'idea estetica che lo identifichi agli occhi del suo pubblico (come il plumbeo pallore di Twilight o il contrastato mondo blu scuro di Underworld) quest'ennesima variazione sul tema supereroistico sembra destinata al dimenticatoio.
Da figlioccio artistico di Spielberg, quale ha dichiarato e dimostrato di essere in passato, Caruso sembrava avere le carte in regola per interpretare oggi lo spirito del miglior cinema spielberghiano: l'unione tra esigenze commerciali e aspirazioni personali (sia dell'autore che del pubblico). Tutto ciò però affonda di fronte al vuoto, vorticoso e fragoroso di Sono il numero quattro.
Un giorno ripenseremo ridendo a questo periodo cinematografico fatto di saghe a tutti i costi.
Nelle mani di Christopher Rivers ne viene una sorta di Star Wars rivisto in chiave steampunk, con in più alcune battute sul rapporto tra Inghilterra ed Europa continentale ai tempi della Brexit.
Ambientato in un futuro remoto, quello di Macchine mortali è uno steampunk anomalo, visivamente troppo patinato e ripulito manca dell'atmosfera sporca e cupa che dovrebbe avere. È inoltre così futuristico che del tempo della rivoluzione industriale rimangono il decor e lo spirito colonizzatrice della Gran Bretagna, o in questo caso più precisamente di Londra, verso il resto del mondo. Che suona per altro anche molto attuale visto come l'Europa sia considerata una sorta di subalterno terreno di caccia, mentre si sogna invece la conquista della Cina.
Prodotto da Peter Jackson e da lui sceneggiato insieme ai soliti sodali Philippa Boyens e Fran Walsh, vede esordire alla regia un altro storico collaboratore di Jackson, con lui fin dai tempi di Splatters - Gli schizzacervelli del 1992, nelle vesti di tecnico degli effetti speciali. Infatti gli FX sono di ottimo livello e la produzione di Macchine mortali è a tratti davvero sbalorditiva, sia per la computer graphic, sia per la cura delle scenografie, ricche di dettagli in particolare nella tana del robot Shrike dove abbondano gli automi.
Riprendendo una nota battuta di Woody Allen, in School of Rock il finto supplente di Jack Black diceva: "Chi non sa fare, insegna. E chi non sa insegnare, insegna ginnastica". La commedia americana contemporanea ci ha in effetti talmente abituato ad adorare personaggi meschini, antieroi sboccati e orgogliosamente mediocri, che il più delle volte il loro successo si misura proprio nella distanza fra le effettive capacità e la lezione di vita (o la spinta a muoversi e agire) che, alla fine, sono capaci di impartire. Rispetto a questa genia di "cattivi maestri", Bad Teacher parte con delle intenzioni più radicali: il personaggio di Cameron Diaz è ufficialmente un'insegnante di ruolo, misteriosamente abilitata dal sistema educativo americano; e anche se non c'è davvero lezione possibile che questa docente meschina, volgare e arrivista possa impartire a dei giovani alunni senza creare traumi di lungo periodo, qua il meccanismo comico nasce proprio dal tentativo di demistificare la visione del buon educatore.
A contribuire a questa smitizzazione dell'istituzione scolastica, il fatto che il film di Jake Kasdan insista fin dai titoli di testa sulla memoria storica del "buon maestro" di vita e su quella visione idilliaca che proprio film come quelli mostrati da Elizabeth in classe per smaltire le sue sbronze (La forza della volontà, Conta su di me, Pensieri pericolosi) hanno contribuito a formare nell'immaginario americano. In questo senso, più che con School of Rock, Bad Teacher condivide il suo progetto eretico con Babbo bastardo, muovendo il bersaglio dalla congenita bontà di Babbo Natale alla visione umanista e filantropa dell'insegnamento.
Tuttavia, il film assolve solo metà del suo programma, fermandosi alla superficie, alla risata facile e passeggera, e si accontenta di costruire un catalogo di scorrettezze in cui Cameron Diaz può dare finalmente sfogo a tutto il suo potenziale goliardico e sguazzare fra turpiloquio e nefandezze. L'attrice è brava e perfettamente in parte, ma è lo script dei due sceneggiatori di The Office a puntare troppo su un one woman show che dimostra di dare il meglio di sé nel gioco a due coi vari comprimari (un'ottima Lucy Punch, un divertito Justin Timberlake e un Jason Segel decisamente non valorizzato), piuttosto che negli assoli con gli sventurati studenti. Tanto che, dopo tanta deliberata cattiveria e un ciclo di turpi episodi senza una progressione precisa, il film sembra quasi obbligarsi a una chiusa lieta e romantica che riscrive il celebre aforisma: "Chi non ha talento insegna, e chi non sa insegnare fa orientamento psicologico".
Dopo la Casa Bianca doveva toccare a una capitale europea. Quindi chi se non l'alleato storico degli Stati Uniti, altrettanto detestato dall'Asse del Male del terrorismo islamico? Nel momento in cui si viene a sapere la notizia che il Primo Ministro inglese è morto e che seguirà una cerimonia funebre con tutti i principali capi di stato presenti, il pubblico sa già cosa lo attende. Così come l'indomito Mike, l'agente della CIA con licenza di uccidere nella maniera più barbara possibile, interpretato da Gerard Butler. Il successo, in parte inaspettato, di Attacco al potere, doveva necessariamente condurre a un sequel, reso tristemente attuale da quanto avvenuto a Parigi il 13 novembre. La contiguità con la realtà della politica internazionale però finisce qui. Attacco al potere 2, ancor più del primo episodio, è sostanzialmente un film di fantascienza, in cui la credibilità è bandita in favore di un'opera che ha come unico scopo quello di stimolare il lato più intollerante, violento e vendicativo di ognuno di noi. Che i nemici non abbiano sostanzialmente un volto riconoscibile e che ogni atto di brutalità nei loro confronti sia giustificato dalle circostanze, appositamente assemblate dalla sceneggiatura, è qualcosa che è lecito attendersi dal film di Babak Najafi.
Meno prevedibile, invece, è la sua inefficacia assoluta come action movie, particolarmente debole nei colpi di scena e nelle sequenze che si presupporrebbero. Risulta difficile comprendere come siano stati investiti i 100 milioni di dollari di budget, vista la povertà di mezzi e idee che emerge da molte scelte di messa in scena: interni anonimi, senza un lavoro sui dettagli che aiuti a immedesimarsi, trappole, inganni ed espedienti già visti milioni di volte. Eccezion fatta per la sequenza sull'elicottero presidenziale, oggetto delle attenzioni di cecchini armati di lanciamissili, le sequenze action mostrano un'inventiva dall'elettroencefalogramma piatto e una tecnica quanto mai approssimativa. L'apertura delle ostilità tra governativi e terroristi, ad esempio, che culmina in una sparatoria davanti a una cattedrale, è girata in un'unica sequenza ed è priva di tagli (forse un tentativo di emulare il Johnnie To di Breaking News?), ma risulta inintelligibile nella sua frenesia e nella sua iterazione insensata di uccisioni. L'effetto Trappola di cristallo, sospensione dell'incredulità mista a colpevole stato di ebbrezza da eccesso di adrenalina, non scatta: a rimanere impresse dopo la visione non sono le prodezze dell'agente Mike, ma solamente il suo disprezzo per la vita umana, che si manifesta attraverso esecuzioni a sangue freddo, torture, battute di dubbio gusto o prediche a suon di pugni sull'eterno ruolo di difensore della libertà che caratterizza e caratterizzerà l'America. Il cast dei comprimari, rilevante sulla carta - Forster, Freeman, Leo - è totalmente sprecato in una manciata di scene girate in una Casa Bianca che non è mai sembrata così simile a un comune ufficio di una pubblica amministrazione di provincia.
Volendo sforzarsi alla ricerca di elementi di interesse, si rilevano la ripresa da Spectre del tema della burocratizzazione dei servizi segreti e una sottilissima rivincita contro lo stesso James Bond e la presunta superiorità british, beffata dai terroristi islamici (la cui provenienza precisa non conta affatto, tanto da essere sintetizzata con uno xenofobo "F***headistan" dall'agente Mike). Per il resto calma piatta, nonostante le innumerevoli esplosioni.
I Coen questa volta si divertono davvero con attori amici come Clooney e McDormand (che è qualcosa di più di un'amica avendo sposato uno dei due fratelli) e con new entry come Tilda Swinton. Ma il loro mondo di losers anche un po' ipodotati sul piano intellettuale è comunque ricco di un retrogusto amaro. Il microcosmo che vanno a raccontarci prendendo le mosse da una visione satellitare del nostro pianeta e andando a stringere su Washington è fatto di gente che agisce senza pensare mai alle conseguenze.
Il divertimento per i due consiste nel realizzare un film 'alla Landis' mutandone il segno. Il riferimento a Chevy Chase protagonista dell'indimenticato Spie come noi è addirittura esplicito. Ma, come sempre accade con i più intellettuali dei registi americani (anche quando sembrano muoversi in assoluta scioltezza alla ricerca del divertissement più puro), tutto è molto più complesso di come appare a una lettura superficiale. In una società in cui tutti hanno sogni alimentati dal bisogno di apparire (le memorie dell'ex spia, gli interventi di chirurgia estetica per la donna che rifiuta chi ha vicino per ficcarsi in storie cercate via Internet) i Coen inseriscono un doppio salto mortale. Non cercano infatti di farti dimenticare chi sono gli attori o le attrici che stanno interpretando i ruoli principali cercando di farti appassionare ai loro personaggi. Lavorano invece sulla loro presenza caricando le caratterizzazioni (impagabile quella di Brad Pitt) in modo che lo spettatore abbia sempre l'attenzione divisa in due. Da un lato osservi ciò che fa Harry ma, al contempo, sei quasi costretto a dirti "Guarda come se la cava bene Clooney nel tornare a fare l'idiota per i due fratelli". È questa costante altalena che fa sì che questo film, che alcuni potrebbero considerare come 'minore' nella filmografia coeniana, si collochi invece alla perfezione nella consapevole e continua ricerca di uno sguardo che non dimentica mai una proposta 'alta' delle potenzialità del cinema.
In passato erano le parole che si scambiavano i protagonisti a innamorarli, adesso è il sesso a muovere i sentimenti e le commedie romantiche. Dopo un carosello di romantic comedies inefficaci si ritorna al piacere della formula e la si inverte. Se un tempo era il sesso ad essere problematico oggi lo sono i sentimenti a cui i protagonisti di Amici, amanti e... resistono consumando subito il desiderio. Alla fuga dai corpi della commedia anni Novanta, che temeva il contagio e esorcizzava l'AIDS, si sostituisce una sovraesposizione di corpi 'al sangue', esplorabili come territori piacevoli ed esaudenti (esemplare a proposito la Kutcher's Period Playlist). Natalie Portman, sopravvissuta al lato oscuro del cigno, e Ashton Kutcher, toy boy al cinema e consorte fedele nel privato, sono gli amanti ricalcitranti di Ivan Reitman, padre del Jason 'tra le nuvole', che guarda agli innamorati newyorkesi di Nora Ephron e ripropone sul versante solare della costa il vecchio dilemma di Harry e Sally: uomini e donne possono realmente essere amici? Da New York a Los Angeles il passo è tutt'altro che breve e il confronto probabilmente azzardato, ma ugualmente nella commedia di Reitman si eleva a schema romantico la distanza, l'attesa e la dilazione dell'incontro spirituale, subentrato a quello fisico.
Emma e Adam si attraggono e si sfuggono lungo il corso della loro amicizia disseminata in anni di incontri episodici e casuali e poi rafforzata da una frequentazione quotidiana piena di sesso disinvolto e di regole da onorare: niente coccole, niente sguardi languidi, niente appuntamenti, niente luci di candela, niente recapiti da contattare in caso di emergenza. Sesso intenso e un nuovo disordine amoroso sembrano governare e regolare la nuova commedia sentimentale, naturalmente secondo diverse inclinazioni di tono: clima quasi farsesco con brusco risveglio e inedita prospettiva maschile dell'informatore sentimentalmente 'impotente' di Jake Gyllenhaal in Amore & altri rimedi, fenomenologia gioiosa di relazioni paradossali col lieto fine negli appartamenti friendly (Friends), nelle corsie di ospedale (Grey's Anatomy) o dentro gli studi televisivi (Glee) di Reitman, che combina canone classico e nuove articolazioni seriali. Declinazioni diverse ma anche forti connotazioni comuni, a partire dall'ambientazione 'periferica' e definitivamente distante da New York, fino a quel romanticismo effervescente e quel sesso amicale, fresco, singolare, sorprendentemente diretto e anche questa volta, dopo la coppia Gyllenhaal/Hathaway, prodigamente interpretato e 'integralmente' praticato. Leccando via le glassature e conservando il (buon) gusto dell'innamoramento, Natalie e Ashton sono abili e credibili nel contraddire la chiara natura amorosa della loro relazione a colpi di orgasmi questa volta affatto contraffatti.
Al suo quinto lungometraggio Zack Snyder sperimenta la via del soggetto originale. Dopo due adattamenti da fumetti, un cartone tratto da una serie di libri e il remake di un classico dell'orrore, il re del ralenti moderno fa un salto d'ambizione e produce, scrive, sceneggia e infine dirige una storia dalle aspirazioni altissime. Sucker Punch è un delirio di psicanalisi, immersione onirica e violenza metaforica, un tour de force espressivo non indifferente che satura la visione dello spettatore con una messa in scena barocca e stilizzata.
Purtroppo però l'ego del regista (grande fin dall'esordio) stavolta ha fatto il passo più lungo della gamba e dei moltissimi stimoli che Sucker Punch mette sullo schermo pochi arrivano a destinazione mentre la maggior parte si perde in un magma ben orchestrato di musica, iperboli e immagini che mescolano realtà e computer grafica come già visto in 300.
È impossibile non apprezzare la potenza muscolare con la quale Snyder porta avanti una poetica "spartana" della vita come campo di battaglia, e come questa poetica si rispecchi in uno stile ugualmente anabolizzato. Tuttavia è anche impossibile non sottolineare come stavolta la torta sia troppo farcita e dopo un'apertura a prologo, folgorante per ritmo, stile e trovate (di nuovo, dopo il grande calcio d'inizio di Watchmen), il film tende a ripetersi in una struttura che non solo presenta poche novità ma soprattutto annoia.
La guerra di Snyder è metafora di tante, troppe cose e troppo all'acqua di rose. La psicanalisi e l'infanzia, il ricordo e il sacrificio, la vendetta e il rimorso. Tutto insieme e tutto ammassato più che amalgamato.
Lo stesso si può dire dello stile visivo scelto. I colori di Jean-Pierre Jeunet e il barocco kistch di Baz Luhrmann, le gothic lolita e le bambole da anime, i videogiochi, Kill Bill, l'onnipresente Matrix, Sky captain and the world of tomorrow e poi ancora l'horror giapponese e il cinema fantasy. Sucker Punch riassume tutte le novità che le arti visive (dal cinema fino al videogioco passando per i fumetti) hanno proposto negli ultimi 10 anni, le unisce e tenta di rielaborarle al servizio di un viaggio nei sogni e nella mente, finendo per soffocare se stesso e un annoiato spettatore.
I due registi, Kirk Wise e Gary Trousdale, sono specializzati in film d'animazione: infatti avevano già diretto, sempre per la Walt Disney, La bella e la bestia e Il gobbo di Notre Dame. Stavolta però, nonostante la fedeltà alle atmosfere disneyane, la storia non emoziona più di tanto, anche se sicuramente i bambini si divertiranno a immedesimarsi nelle avventure del buon Milo. Purtroppo l'inventiva relativa ai personaggi e ai vari animaletti che popolano l'isola sommersa è piuttosto limitata. Risulta invece divertente l'uso dell'"atlantidese" inventato dal linguista Marc Okrand, che fu l'autore della lingua Vulcaniana per Star Trek.
Solo 3 mesi dopo Attacco al potere (5 per la distribuzione italiana) Hollywood racconta nuovamente di un assedio dentro la Casa Bianca in cui un presidente giovane, un esperto di sicurezza e un bambino/bambina devono difendersi da un gruppo armato e possibilmente scappare, mentre fuori il mondo guarda impotente. Come spesso capita la concomitanza di due film così simili in così poco tempo è frutto di spionaggio industriale negli studios (impossibile dire da chi ai danni di chi) o di un eccessivo circolare delle sceneggiature, tuttavia è anche la più evidente dimostrazione dell'effetto che un quinquennio di amministrazione Obama ha avuto sulla percezione della figura del Presidente.
In particolare Sotto assedio organizza la storia rimandando esplicitamente al presidente in carica e, con molta più determinata follia, ritagliandogli l'inedito ruolo di buddy cop. Per buona parte del film infatti il classico eroe alla sua seconda occasione di Channing Tatum fa coppia con il presidente sui toni dell'action comedy classica, schiena contro schiena a sparare ai criminali che minacciano la libertà. Se dunque l'eroismo del primo cittadino d'America non è certo una novità (e nemmeno il percepirlo come improbabile uomo d'azione), di certo è nuova la vicinanza alle persone, la totale distruzione dell'aura mitica che lo circonda, fino a renderlo un uomo comicamente ridicolo che cerca di sparare con un fucile di cui non conosce il funzionamento.
Il secondo elemento che Sotto assedio dimostra (visto in coppia con Attacco al potere) è la stanchezza di questo tipo di storie, il loro essere fuori dal tempo. A prescindere dal quoziente di intrattenimento che riescono a generare, entrambi appaiono come film provenienti da un'altra era del cinema. In Attacco al potere si recupera la minaccia comunista attraverso la Corea del Nord, in Sotto assedio tutto il comparto visivo rimanda ad un'estetica da anni '90. Il malvagio hacker deviato, genio della matematica contornato da computer blu che mostrano improbabili scritte in una stanza buia illuminata da tagli di luce sembra ripescato da un'epoca in cui dominava una diversa percezione dell'informatica (quella di 007 Goldeneye, per dire), alla stessa maniera del capo della sicurezza con taglio da marine in lutto per il figlio morto in guerra, del grande movente che si scoprirà alla fine o della stessa distruzione della Casa Bianca, classica del cinema sempre e comunque catastrofico di Emmerich, che proviene dal suo stesso Independence day.
Eppure al netto della grande distruzione il film di Emmerich rifiuta le potenzialità di vero e proprio "cinema d'assedio" e cerca sempre di liberare i propri protagonisti anzitempo. Molto dell'azione infatti si svolge all'aperto, nei giardini della Casa Bianca o sui tetti, e poco nei condotti o nelle stanze, spostando il conflitto in grandi spazi per evitare la claustrofobia. La scelta non sembra giovare al film, allontanandolo dalle promesse del trailer e riconducendolo su binari buoni per qualsiasi tipo di trama d'azione.
La Disney è da sempre stata maestra nel genere per famiglie, e questo viaggio nel fantastico, ha la particolarità di non essere contaminato da incantesimi potteriani ed esseri ultraterreni, ma si basa principalmente sulla capacità umana di immaginare. Il piccolo e classico scuolabus in cui si verificano gli scontri più accesi si confronta con gli spazi aperti del bosco, mettendo in parallelo acerbe ostilità e amicizia universale. È forse la semplicità di questa opera a essere vincente, perchè gli effetti speciali, sono presenti, ma con moderazione, per lasciar parlare l'umanità. Il regno di Terabithia è il prodotto della fantasia di due ragazzi, che immaginano tutto ciò che vedono.
Nell'evoluzione di questo genere cinematografico, c'è un aspetto da non sottovalutare. È come il film veicola un messaggio parlando ai giovani e agli adulti, innalzando la solita morale a qualcosa di più concreto, in una società in cui i confini fra adolescenza e maturità sono labili e quasi scompaiono per la velocità di crescita forzata dall'effetto dei media.
Di conseguenza, Un ponte per Terabithia non è un percorso verso uno scontato lieto fine, ma un cammino verso una luce, un'apertura che ha il sapore di un piccolo sogno.
La storia che Andrew Niccol porta sullo schermo è inventata, ma si ispira a fatti e persone reali, mostrando i retroscena del traffico d'armi e degli intrighi politici che lo rendono possibile. Lord of war è un film che alterna con maestria momenti drammatici e ironici, scene d'amore e d'azione, ma è soprattutto un atto di denuncia. Guardandolo si capisce perché il regista abbia incontrato tante difficoltà a reperire i fondi per il progetto, presentato nel 2004 a ridosso dell'inizio del conflitto in Iraq, sebbene Niccol non sia Michael Moore e la sua denuncia non sia rivolta solo agli Stati Uniti, ma a tutti i paesi membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'Onu, tutt'oggi i maggiori produttori di armi al mondo.
Dopo il "re" di Steven Zaillian, anche Tony Scott scende nei fiumi melmosi della Louisiana post Katrina, rimpiazzando un disastro naturale con uno sociale: il terrorismo.
Nella prima lunghissima sequenza che prelude l'attentato, il regista concentra il momento più spettacolare del film, il più fedele al suo stile ipercinetico, adrenalinico e patinato. I suoni, le musiche, le risate e gli schiamazzi sollecitati fino a brillare nel fragore dell'esplosione introduttiva, basterebbero da soli a ripagare biglietto e spettatore. Lascia invece sconcertati l'improvvisa virata fantascientifica, la porta spazio-temporale passato/presente che corregge, fino ad annullarla, l'interessante trovata tecnologica di scorrere il passato, individuarne le falle e risolvere le indagini.
Imbarazzante è pure l'uso del dèjà vu, privo di qualsiasi implicazione filosofica e mero pretesto per raggiungere l'happy end sentimentale. Siamo insomma lontani dal dèjà vu visivo di Matrix, dall'imperfezione nel programma informatico di simulazione della realtà; il già visto e il già accaduto servono la storia d'amore tra Denzel Washington e la bella Paula Patton, alimentando il senso di familiarità dei due amanti. Un incipit magnifico e verosimile, una regia dinamica e sempre originale, tuttavia sprecati in una storia di fantascienza improbabile.
A chi può interessare la critica di una commedia, che vede la presenza di tre premi Oscar, che ha incassato quasi 300 milioni di dollari nei soli Stati Uniti, e che lo spettatore ha già probabilmente deciso di apprezzare ancora prima che si spengano le luci in sala? A pochi immagino, ma per quei pochi saremo comunque rassicuranti: il film è abbastanza divertente. Certo, come si poteva desumere dai trailers visti fin'ora, il 99% delle gag è basato sul sesso o su argomenti scatologici, che alla lunga sono abbastanza stancanti. Sembra che nessuno sceneggiatore americano si prenda più la briga di cercare soluzioni alternative (forse Sideways? Chissà), comunque meglio Sfigatto che si fa possedere dal cane dei Fockers o il bambino che dice parolacce che un qualsiasi preserale su una qualsiasi emittente nostrana. Alcune situazioni si ripetono (Stiller sottoposto al siero della verità) e il film si prende pause notevoli, soprattutto nella parte centrale, però è bello vedere Hoffman tornare a lavorare a pieno regime (visto che Fiorello e Sanremo servono?) e sottolineare che la migliore del gruppo è la Streisand. For Men only: nessun commento su Teri Polo, la fidanzata di Stiller nel film, solo un consiglio. Guardatela nel film, e poi andatevi a cercare in rete il servizio fotografico pubblicato su Playboy di febbraio...
E nonostante il background di Devlin sia quello di sceneggiatore, è proprio la trama il punto debole del film: personaggi stereotipati, a cominciare dall'eroico Jake, svolte improbabili, dialoghi elementari e molto lontani dalla realtà. La scrittura sembra preoccupata soprattutto di delineare una mappa delle alleanze nazionali strategiche per la sopravvivenza degli Stati Uniti e di inserire un "gancio" per alcuni gruppi etnici di spettatori: dunque Jake e Max sono di origine britannica, il braccio destro di Jake sul Dutch Boy è una scienziata tedesca, nel suo team ci sono un francese di origine araba e un messicano, il supervisore di stanza del programma satellitare a Hong Kong è cinese, e il presidente degli Stati Uniti è il cubano Andy Garcia. Basterebbe notare quali sono le città colpite dai disastri climatici in Geostorm per farsi un'idea di quali nazioni la geografia americanocentrica tiene in considerazione (l'attenzione più grande è data agli Emirati Arabi).
Piacevole e scanzonato, Viaggio al centro della Terra 3D è un'attrazione da parco dei divertimenti che ha avuto la fortuna di esser diffusa nelle sale, grazie soprattutto alla presenza di Brendan Fraser. La produzione ha d'altronde scelto come regista Eric Brevig, supervisore degli effetti speciali in film come Men in Black, Pearl Harbor, Abyss e persino 1997: Fuga da New York.
La trama, standardizzata, si basa su una serie di stilemi del genere 3D, quale la corsa nei carrelli nella miniera o l'inseguimento del Tirannosaurus Rex. Le gag sono altrettanto codificate ma la leggerezza dell'insieme regge complessivamente una produzione riuscita, che fa rivivere l'antico cinema delle attrazioni. Certo, manca la novità e alla fine si ha l'impressione che il film abbia giocato tutte le carte, quelle spettacolari, all'inizio, lasciando poco al resto della trama. Ma nonostante la banalità dell'insieme e la totale mancanza di colpi di scena, gli effetti speciali in tre dimensioni permettono di considerare il film come un nuovo modo di percepire il genere catastrofico e di avventura. Stranamente, le nuove tecniche, riportano il cinema alle sue funzioni delle origini. Da vedere necessariamente in una grande sala e in 3D.
Un bianco e nero del 2019, ti sa di puzza sotto il naso anche a te? Continua a leggere...
Questo film ha innegabilmente una fotografia impeccabile e una regia d'eccellenza, fra l'altro l'interpretazione degli attori è da giù di testa, e non mancano monologhi da 2 minuti senza che l'attore sbatta una volta le palpebre.
Racconta di due uomini che gestiscono un faro, con un rapporto sempre più complesso e problematico, pazzia, solitudine, dannazione, pentimento, sirene, manufatti, alcolismo, nonnismo, acqua sporca, misteri e segreti, con ovunque citazioni greche, lovecraftiane, Allan Poe, poemi di Coleridge...
E' un'accozzaglia di talmente tante cose, tutte talmente tanto belle, che dovrebbe quasi piacere per forza no? Eppure mi ha lasciato poco, non tanto perchè il finale è una cosa del tipo "in verità era tutto un sogno" ma perchè c'è tanta di quella roba da risultare eccessivamente confusionario.
Certo è gestita tutta abbastanza bene, ma qua c'è qualcuno che voleva metterci tutto perchè fa figo.
Se vi piacciono i film strani d'autore, quelli che non riuscite a spiegare agli amici ma gli giurate che è la cosa più bella mai vista (qualcuno ha nominato Lynch?) allora farà per voi.
Per me basta guardarlo una volta e ricordarmi 2 scene che in effetti mi hanno stupito.
**Verdetto** : Avete presente quando uno vi dice "Questo è un film d'autore" ? Se questa frase vi piace questo sarà fra i più bei film che potete vedere, altrimenti consiglio la visione solo se avete un'amico bastardo che vi obbliga a vederlo.
**Ottimo per** : Quando si ha voglia di un film artisticamente molto valido, ma non per forza interessante. Ottimo per rovinare l'ultimo giorno di vacanza se il pomeriggio piove.
Rispetto al film di Rupert Sanders, Biancaneve e il Cacciatore, questo è un mezzo prequel e un mezzo spin-off: un parente prossimo ma non consanguineo, quanto basta per accettare che Biancaneve non faccia parte del cast ma possano tornare a confrontarsi in bellezza i divi Chris Hemsworth e Charlize Theron. Il terzo vertice del triangolo è occupato da due figure femminili, affidate a Emily Blunt e Jessica Chastain, e solo la loro bravura di interpreti le salva da due ruoli assurdi, per ragioni differenti. La regina di ghiaccio della Blunt, autoconfinatasi in un palazzo del freddo, è un tale palese scopiazzamento in chiave dark-fantasy del personaggio di Elsa in Frozen, da sfiorare il caso diplomatico. Su tutt'altro fronte, la Chastain appare tutto fuorché nata per un personaggio boschivo e marziale come quello di Sara, e non può impedire una reazione inizialmente spaesata nello spettatore, ma è capace di rendersi plausibile in breve tempo.
Quanto al film in sé, anche Cedric Nicolas-Troyan opta per una varietà di fonti e modelli presi dal cinema contemporaneo ben più che dal repertorio fiabesco: la compagnia dei quattro nani, l'incontro con i goblin, la quest dello specchio, da tener coperto per non indurre in basse e omicide tentazioni, guardano senza mezza termini al viaggio con e per l'anello di Tolkien e Jackson, mentre il contesto della relazione tra Eric e Sara, bambini-soldato, può ricordare alcuni momenti della saga di Hunger Games. Se si aggiunge il già citato rimando al prologo di Frozen, non tarda ad affacciarsi il dubbio che tanta varietà di modelli nasconda in realtà una scarsa materia originale e una traballante necessità di esistere del film stesso al di là della mera funzione di contenitore di star.
Il 4° episodio di Alien è di segno femminile: 2 eroine, entrambe non umane, ma tutt'altro che disumane, e la Regina aliena. Presente fin da Alien di R. Scott _ il computer dell'astronave Nostromo si chiama Mother _ il tema della maternità è sviluppato e approfondito dalla sceneggiatura di Joss Whedon, basata sui personaggi di Dan O'Bannon e Ronald Shusett. Il film è nettamente superiore al precedente e non sfigura vicino a quelli di Scott e Cameron. Il merito è anche del regista francese J.-P. Jeunet, dell'operatore Darius Khondji, mago della luce, e dei disegnatori Alex Gillis e Tom Woodruff Jr. Almeno 2 grandi momenti di cinema fantastico: l'abbandono (tenero) di Ripley che affonda tra i tentacoli della Regina e l'orrore devastante della sequenza in cui distrugge con un lanciafiamme i 7 cloni, testimonianza del suo "passato". Troppo inquietante e originale per avere un grande successo, ma rimane aperta la porta per un 5° episodio in cui la saga dovrebbe approdare finalmente sulla Terra.
Il talento di Derek Cianfrance, alla boa del terzo film, è un talento evidente, tanto nell'uso della macchina da presa quanto, e soprattutto, nell'abilità narrativa. Mentre noi scopriamo lui, anche lui sembra scoprire se stesso, misurandosi in toni e registri diversi. Con Blue Valentine aveva raccontato meglio di chiunque altro, recentemente, la straordinaria forza sentimentale del quotidiano, la potenza di tuono di ciò che torna, mediato e deformato dal filtro del ricordo, dell'amore quando l'amore non vince più sul resto. Con Come un tuono allarga il campo e opta per una narrazione forte, che abbraccia più personaggi e più generazioni. Quasi il primo fosse un racconto, perfetto e insuperato, e il secondo un romanzo, la cui mole e la cui impalcatura narrativa, rigida e calcolata, finiscono per schiacciare a tratti emozione e freschezza.
C'è infatti un determinismo buono - drammaturgicamente parlando -, che è quello che pone i personaggi di fronte a delle scelte che hanno sempre a che vedere con la replica o il rifiuto dell'eredità paterna, e porta il film in territori molto interessanti; ma c'è anche un determinismo più rigido, secondo cui le ferite non possono rimarginarsi ma solo tornare a sanguinare, che concorre efficacemente alla dimensione del pathos ma ruba al film apertura e verità. Sono scelte narrative fatte con la scure, non con mano leggera, nelle quali si può includere anche l'idea rigorosamente speculare che un uomo corrotto generi un figlio dal cuore puro e un uomo che ha fatto della propria vita una lotta alla corruzione, un figlio solo e oscuramente arrabbiato con se stesso e col mondo.
Si soffre dunque la mancanza della potente delicatezza di Blue Valentine, ma si resta ammirati dalla circolarità e dalla coerenza con la quale Cianfrance e i suoi cosceneggiatori hanno inscenato questa persecuzione del destino ai danni di quattro esseri umani, tanto che la miglior metafora del film è nel suo inizio: in quel "globo della morte" dentro il quale nessuno è agile e sicuro quanto Luke, ma che è pur sempre una gabbia, come quella dell'estrazione sociale, come e soprattutto quella del carattere.
Shooter è un action-movie ben realizzato sotto il profilo formale (fotografia, montaggio), ma il cui tasso di originalità è pericolosamente prossimo allo zero. Il tema dell'eroe solitario, onesto e gabbato dai potenti di turno, che cerca e ottiene vendetta, è stato declinato numerose volte in passato: Swagger in questo senso si pone come perfetto mix tra Rambo, Jack Bauer di 24 e il mai dimenticato MacGyver dell'omonima serie televisiva. Mark Wahlberg, sempre bravo e perfettamente "nella parte", riesce a dare la giusta profondità al proprio personaggio, spessore che invece, purtroppo, manca a tutti gli altri protagonisti della storia, in primis ai "cattivi", che complottano, tramano nell'ombra e fanno il triplo gioco, ma che vengono rappresentati in modo insostenibilmente manicheo. Shooter è un perfetto esempio del genere "uomo solo contro il Sistema corrotto & malato" ed il pubblico non dovrebbe faticare ad affezionarsi a Bob Lee Swagger né rischiare di trovare inconcepibili alcuni escamotage narrativi atti a tenerlo in vita a dispetto di situazioni disperate. Un vero peccato quindi che la completa riuscita del film sia minata dalla durata dello stesso, oggettivamente eccessiva, e dalla convenzionale regia di Antoine Fuqua, forse eccessivamente sopravvalutato ai tempi di Training Day, incapace ad offrire la benché minima soluzione originale che possa permettere a Shooter di elevarsi molto al di sopra dello standard medio offerto da questo genere di pellicole.
La magia dell'animation computerizzata permette allo spettatore di conoscere ed esplorare le vite nascoste di queste creature. Tutto quello che vediamo è in proporzione alle loro piccole dimensioni e ai loro frenetici movimenti.
Stilisticamente impeccabile, Bee movie ha il grande merito di aumentare la sensibilità di ciascuno di noi nei confronti delle tematiche ambientali. Tutte le persone che hanno lavorato alla produzione del film sono partite dalla viva volontà di "pensare come le api" connotando in positivo situazioni e luoghi comuni che le dipingono come fastidiose e aggressive. Nello stesso tempo, il marchio animato del film aiuta a rendere verosimili situazioni che nella vita reale sarebbero impossibili. Il fatto che l'ape Barry parli con l'umana Vanessa sembra tutto fuorché bizzarro. Non si mette neanche in dubbio lo scambio dialogico tra un insetto e un essere umano. La storia narrata avviene in due mondi: l'alveare, una vera e propria città fatta di case, macchine e fabbriche, e New York, dove gli "assi del polline" si recano per raccogliere il nettare e impollinare i fiori. Per ricreare questi due spazi è stato chiamato lo stesso scenografo di Minority Report e La sposa cadavere che, paradossalmente, ha utilizzato strumenti derivati dal mondo del cinema di non animazione.
Edward Zwick eredita un franchise ancora cinematograficamente giovane, con l'obiettivo duplice di tenere fede ai milioni di lettori della serie di romanzi di origine e di non deludere il sempre più esigente pubblico degli action movie. Il corpo cinematografico per eccellenza dell'action americano, Tom Cruise, comincia ad avvertire il peso degli anni, ma non rinuncia a esibire il proprio corpo e a rimanere al centro dell'azione. Mascherare la vecchiaia diviene l'imperativo di Zwick e del coordinatore degli stunt Wade Eastwood, già con Cruise in Mission: Impossible - Rogue Nation. Il dinamismo di Cruise muta in fisicità, sostituendo alle acrobazie di Ethan Hunt dei corpo a corpo selvaggi, brutali, in cui ogni pugno sembra scagliato dal Bane di Il cavaliere oscuro - Il ritorno (anche se il modello dichiarato è Il braccio violento della legge). Merito di Cruise, che accentua il divario tra lo Hunt di Mission Impossible e Jack Reacher (una montagna umana per statura e peso nella sua incarnazione letteraria), caratterizzando maggiormente il secondo, e del suo antagonista Patrick Heusinger, insospettabile belva da guerra che rende concreta e palpabile la minaccia ai danni della presunta figlia Samantha. Il villain come nemesi dell'eroe, uguale e contraria, sa di espediente ormai stravisto (Skyfall, Mission: Impossible -2, per limitarsi a un paio di citazioni), ma l'atmosfera da B-movie senza particolari ambizioni agevola l'indulgenza.
La prevedibile sottotrama, che insiste sulla natura di lupo solitario di Reacher e quindi sul suo desiderio represso di mettere la testa a posto e sentirsi parte di una famiglia, viene sfruttata il giusto da uno script semplice ma efficace. Sia nelle schermaglie tra Reacher e il maggiore Cobie che tra questi ultimi e Samantha emerge la psicologia di personaggi stereotipati, ma in maniera talmente consapevole (e autoironica) da renderli quasi personaggi di un fumetto di Garth Ennis, comprensibili e apprezzabili nella loro grossolana istintualità.
Se è ovvio come andranno le cose tra buoni e cattivi (non siamo a Hong Kong ma a Hollywood, e il protagonista è Tom Cruise), il vero whodunit, cha mantiene la suspense fino all'epilogo, è il mistero sulla presunta paternità di Reacher, insospettabilmente desideroso di "appendere al chiodo" l'inseparabile spazzolino da denti, anche se incapace di ammetterlo a se stesso.
Finale a New Orleans, con l'ombra di James Bond e Vivi e lascia morire dietro l'angolo, e sensazione di divertimento grezzo ma spensierato. Tutto sommato, obiettivo minimo raggiunto.
The Illusionist è la storia di un triangolo sentimentale: alla magia dell'amore, si aggiungono gli stupefacenti incantesimi di Eisenheim, padrone del palcoscenico e dell'arte dell'illusione. Neil Burger, il regista, è bravo a raccontare la storia con stile asciutto e a rappresentare una Vienna credibile e vivace, grazie all'eccellente fotografia di Dick Pope. Le uniche perplessità riguardano un plot forse troppo convenzionale, vista la materia trattata, e a cui manca, pur essendo di fatto presente ma troppo prevedibile, un valido colpo di scena finale. La sceneggiatura si concentra sulla storia d'amore e sull'evoluzione dei personaggi, mentre restano appena accennati temi che forse avrebbero meritato un maggiore approfondimento come il contrasto fra scienza e magia e tra raziocinio e immaginazione. Nel cast brillano l'ambiguo Paul Giamatti e la bella Jessica Biel, mentre a sembrare un po' spaesato e fuori parte è proprio Edward Norton, la cui performance è valida, ma lontana dai suoi (altissimi) standard, quasi che l'attore fosse soverchiato dalla magia del personaggio che interpreta. Menzione speciale invece, per l'eccezionale score di Philip Glass, musicista ricercato e minimalista, che colpisce orecchie e cuore dello spettatore, con melodie capaci di avvolgere il film in un'aura magica. Grazie anche a questo fondamentale contributo, The Illusionist, offre numerosi momenti emozionanti, appassionanti, e una sequenza, quella dello spettacolo con "l'albero di arance ", da iscriversi direttamente nella storia del cinema.
Con molta fedeltà al formato originale e un piglio decisamente più scanzonato Bryan Singer e il suo sceneggiatore di fiducia Christopher McQuarrie (lo stesso di I soliti sospetti, come si vede dall'ossessione per le potenzialità di un racconto tramandato che diventa mitologia) hanno adattato la favola Jack e la pianta di fagioli, sulla scia di quanto fatto altrove con Alice in wonderland, Biancaneve e il cacciatore e Il grande e potente Oz (ma ancora prima da Terry Gilliam con I fratelli Grimm e l'incantevole strega, vero apripista, anche tematico, di questa tendenza), ovvero una rilettura più adulta di fiabe tradizionali.
È in questo senso curioso come Singer abbia deciso di rifuggire il filtro "adulto" della produzione, mettendo in scena la favola senza abbellimenti cartooneschi ma anzi con qualche accenno splatter (comunque riservato ai cattivi e solo nel finale) senza snaturarne lo stile di base, come invece avevano fatto Tim Burton e Rupert Sanders puntando dritto al fantasy o Raimi trasformando la parabola di Oz in quella di un supereroe da fumetto. Il cacciatore di giganti è un favolone a tutti gli effetti, moderno nelle sembianze ma estremamente convenzionale nei contenuti, che conferma, promuove e reitera valori tradizionali, in cui la principessa ribelle vivrà un'avventura che funge da rito di passaggio per poi convolare alle più giuste nozze con un poverello che si dimostrerà eroe all'altezza del ruolo regale inizialmente preclusogli.
I livelli di lettura sono ridotti al minimo e il target di riferimento è chiaro in ogni inquadratura dei giganti, ritratti con capigliature buffe, atteggiamento tendente al rivoltante corredato di peti e movenze clownesche che ne disinnescano il potenziale terrificante. Il genere cinematografico di riferimento è allora il più prossimo alla fiaba ovvero quello dell'avventura, confermato dal rapporto che i personaggi stringono con il luogo esotico e sconosciuto in cui approdano e dai tentativi di creare (purtroppo senza risultato) una visione originale di "eroismo".
Il film ha la sua falla maggiore proprio sul versante che avrebbe dovuto essere più solido, quello del comparto digitale. Fin dalla sequenza d'apertura (quella che con un'animazione racconta il prologo e getta le basi del mito dei giganti) è chiaro che non siamo di fronte ad un prodotto ricercato e le successive sequenze che mischiano reale e digitale lo confermano. Qualche raffinatezza come l'entrata in scena del primo gigante fatta alla medesima maniera in cui Fumito Ueda svela il suo primo colosso in Shadow of the colossus, o qualche inquadratura sugli umani dal punto di vista dei giganti che "davvero" applica il 3D per quello a cui serve (rinegoziare il rapporto che gli spettatori intrattengono con lo spazio filmico) serve a poco e soddisfa un pubblico che il resto del film lascerà probabilmente indifferente.
Film per ragazzine sognanti che riporta sullo schermo Julie Andrews in un ruolo più adatto a lei di quelli accettati ultimamente.
Il problema di Pacific Rim: La rivolta è a ben vedere proprio qui: al posto di capitalizzare sul lavoro di introduzione svolto nel precedente capitolo, ci ritroviamo dieci anni dopo con nuovi personaggi e tutti loro devono essere a loro volta introdotti, così anziché approfondire si torna indietro. Oltretutto questi nuovi piloti sono tratteggiati per stereotipi e la scelta di portare l'azione alla luce del sole rende gli scontri più prosaici e meno drammatici. Il tema dei droni non è poi minimamente approfondito perché una svolta della trama sposta tutto in un'altra e più banale direzione sui pericoli della ricerca scientifica.
Sul fronte spettacolare la varietà tra i jaeger è sfruttata solo in una battaglia e i kaiju appaiono più grigi che mai, inoltre negli scontri in città i palazzi s'infrangono come fossero di cristallo. Non si vedeva una tale gratuita devastazione urbana dal "destruction porn" di Man of Steel, ma almeno Zack Snyder sapeva dare un maggior impatto fisico e drammatico al crollo dei grattacieli - e ancora meglio di lui aveva fatto Gareth Edwards con il suo Godzilla.
Già autori di Scemo & + scemo con Jim Carrey, i fratelli Farrelly fanno un passo avanti con la sceneggiatura (non con la regia) di una farsa dove sono messi in fila tutti gli stereotipi della commedia sentimentale per smontarli e frantumarli con una spudorata buffoneria che sghignazza sulle regole del "politicamente corretto" e del buon costume. Sono passate agli onori della cronaca, se non della storia, le gag del gel e quella antica (ma qui per la prima volta dotata del controcampo in passato sempre negato) del pene chiuso di scatto nella cerniera dei pantaloni. Critici e spettatori divisi in due fazioni.