C'era una volta il filone buddy/buddy. Quello cioè in cui la sceneggiatura prevedeva che due personaggi dai caratteri antitetici venissero costretti ad operare a stretto contatto di gomito con tutte le conseguenze del caso. La coppia Lemmon/Matthau con il remake del francese Il rompiballe, Martin Short e Nick Nolte in In fuga per tre (anche questo un remake da un film francese) ad esempio.
Ma il riferimento più alto in assoluto è quello a Un biglietto in due di John Hughes con due strepitosi protagonisti come Steve Martin e John Candy. È a quel modello che Todd Phillips guarda e con il quale Robert Downey Jr. e Zach Galifianakis non possono evitare di confrontarsi.
Sono però passati 23 anni da quel film e il pubblico è profondamente cambiato. Quindi si lascia intatta la formula (ivi compresi scontri e comprensioni reciproche) aggiungendo una buone dose di gag sopra le righe sia per il ritmo che per la volgarità (scoprirete che un cane può imitare l'uomo in una pratica sessuale a cui non avreste pensato). Permane, a contenere gli eccessi, un sottofondo di malinconia tutto a favore di Ethan che Galifianakis (a cui Phillis è giustamente affezionato) sa come gestire.
Tutto quindi come codificazione cinematografica vuole e come Giorgio Gaber sintetizzava cantando: "Se vi faccio del male...non reagite. Sono debole di dentro".
I tempi di Il Re Leone e de La Bella e la bestia sono lontani, e l'avvento di Nemo, realizzato dalla Pixar e Shrek della Dreamworks invecchiano un film d'animazione classico, che ha una morale e un lieto fine. I personaggi umani non particolarmente accattivanti, si dimenticano in fretta, e la parte "animale" è il momento migliore, dove gli orsi, e in primis i due alci, fenomenali nei loro battibecchi, ricreano in alcune sequenze la migliore tradizione Disney. Siamo dalle parti di Mulan, momento non eccelso né memorabile di una grande casa che in passato ci ha regalato capolavori e immagini indimenticabili.
Nella visione che Wally Pfister trae dalla sceneggiatura di Jack Paglen la trascendenza è un altro termine per dire "singolarità", ovvero quella teoria futurologica secondo la quale l'evoluzione dell'intelligenza umana fomentata da aiuti artificiali ad un certo punto supererà la nostra comprensione di essa giungendo ad un livello superiore.
A partire da questo presupposto tra lo scientifico e il fantascientifico il direttore della fotografia, diventato noto per il suo lavoro accanto a Christopher Nolan, gira il suo primo film da regista mescolando tradizionale e innovativo. E' infatti molto tradizionale la maniera nella quale emerge una tecnologia che si contrappone all'umanità prendendo il controllo di tutto quel che l'uomo ha delegato alle macchine, mentre è molto innovativo come la storia disponga le forze in campo. Invece che porre gli uomini in contrasto con l'artificiale sceglie infatti di creare un artificiale che sia molto umano e di avere diverse fazioni anche all'interno della razza umana (confermando che in qualsiasi contesto è sempre l'uomo il nemico peggiore, come la visione apocalittica di nuova generazione in stile The walking dead insegna). In questo modo Transcendence fa continuamente avanti e indietro tra quello che pensiamo di aspettarci e quel che effettivamente vediamo, fingendo di muoversi come un catastrofico di fantascienza tradizionale e poi finendo per somigliare più alla nuova fantascienza in stile Lei, cioè quella che non relega ai soli uomini il privilegio di avere uno spirito.
Scegliendo con buon occhio l'America dei deserti semidisabitati, punteggiati da minuscoli agglomerati di case basse che inquadrati dall'elicottero sembrano circuiti integrati, Pfister sembra ambire tanto ad un lato oscuro del film di Spike Jonze (non l'amore che tira fuori la parte migliore di noi ma quello che tira fuori la peggiore), quanto alle suggestioni della saga di Terminator, in cui il nulla quasi primitivo degli spazi americani è il set per un'apocalisse sempre da venire.
Che Pfister non stia dalla parte degli uomini è evidente già dalla recitazione desaturata di ogni emozione e dal conseguente tono gelido che ogni interazione umana sincera ha. Invece che dare calore ai computer, per avvicinarli all'umano, il regista sceglie di levarlo agli attori in carne ed ossa per dimostrare che se le macchine sono quel che temiamo forse noi non siamo troppo lontani da esse.
Purtroppo però Transcendence è troppo appassionato dalle possibilità fantastiche della propria storia per rimanere ancorato ad un contesto scientifico, esagera nell'immaginare e finisce per dipingere più che altro della magia superando qualsiasi futuristica plausibilità. Eppure è anche evidente come il suo obiettivo ultimo sia l'inganno del pubblico, tutto teso com'è a dimostrare che la paura della tecnologia e di ciò che non conosciamo (con la conseguente tendenza al pregiudizio) sia dentro ogni spettatore. Così il presupposto con il quale il film si apre, cioè quello di un mondo futuro privo di qualsiasi tecnologia, diventa non tanto un ritorno alla reale umanità dopo l'ubriacatura tecnologica ma lo spauracchio dei disastri che le fobie umane producono.
Che cosa potrebbe mai accadere se in Times Square, all'incrocio tra la Broadway e la Seventh Avenue, si materializzasse "come d'incanto" una principessa in abito nuziale? Può succedere che il cinema d'animazione si ripensi, incarnandosi e trasformandosi in una "favolosa" commedia sentimentale. Giselle non è un'eroina che arricchisce la galleria inaugurata da Biancaneve, è piuttosto un personaggio summa delle principesse disneyane. Una figlia immateriale che invade la realtà, ansiosa, come la Disney, di trovare una nuova identità. Come Belle, Ariel, Aurora o Cinderella, Giselle canta ogni volta che ne ha voglia, teatralizzando i sentimenti e omaggiando il format "musical animato" della Disney.
L'insistita autoreferenzialità non rimanda a un semplice citazionismo, Kevin Lima ripercorre, adatta e ri-contestualizza i topoi della Disney e delle favole tradizionali (l'amore impossibile, l'amicizia, l'apprendistato umano, la solidarietà animale e l'antropoformizzazione) alla luce delle nuove esigenze socio-culturali. L'effetto comico deriva così dal rovesciamento tematico dell'originale. Il principe delle fiabe di James Marsden diventa il bersaglio principale del film: la sua fraseologia fiabesca, i clichè linguistici e le parole fuori luogo, almeno a New York, inducono la principessa alla fuga invece che al bacio.
La Giselle di Amy Adams al contrario impara ad affrontare la realtà, affrancandosi da "favolosi" assunti e scoprendo la propria femminilità. La salvezza della principessa disneyana non deriva più dagli strumenti offerti (la promessa di matrimonio) dal principio maschile (il principe) ma passa attraverso l'istituzione di un nuovo equilibrio col sesso "azzurro". Qualcosa è cambiato nella fabbrica di magia per eccellenza: le principesse si arrabbiano, accettando sorprese la propria sfera istintiva e il proprio desiderio represso. Senza magia e senza incantesimi.
Di un film di spionaggio è bene rivelare il meno possibile affinché lo spettatore possa costruirsi una sua idea su chi è cosa e godersi tutta l'azione che può sperare di trovarci. Soprattutto se alla regia c'è Phillip Noyce che ben conosce la materia e ci ha regalato film come Giochi di potere, Sotto il segno del pericolo o The Quiet American. Noyce, anche se poi ci ha proposto un film di forte impatto sociale come La generazione rubata, non ha messo in soffitta i ferri del mestiere. Cogliendo inoltre qui una straordinaria opportunità. Perché avendo (fortunatamente) incassato la rinuncia di Tom Cruise si trova a dirigere una Jolie ormai tanto carica di gossip quanto di esperienza. È di quest'ultima che Noyce si avvale con grande abilità e astuzia. Riesce cioè a sfruttare le doti dell'Angelina/Lara Croft o fumettistica protagonista di Wanted con quelle dell'interprete dell'intensa madre di Changeling.
Ci offre così una spy story che rispetta tutti i canoni del genere (ivi compresi anche i più inverosimili) ma offre al contempo (e quasi per assurdo) ad Evelyn Salt sostanziose dosi di umanità e verosimiglianza. È da questo mix riuscito che emerge un film che potrà appassionare sicuramente gli amanti del genere ma che non verrà disdegnato anche da quegli spettatori che dal cinema si attendono un intrattenimento in cui l'iperbole sia frutto dell'intelligenza e non velleitaria copertura della mancanza di idee.
Dopo Hayao Miyazaki, Takahata è uno dei maggiori esponenti del cinema d'animazione giapponese. Fedelmente tratta dal romanzo di Akiyuki Nosaka, la sua sceneggiatura poteva essere la base di un film dal vivo che, però, avrebbe avuto un costo impossibile, anche per le difficoltà d'esportazione. È la guerra _ quella guerra _ raccontata dal punto di vista dell'infanzia che ne fu la principale e più innocente vittima insieme con la popolazione civile. Contenuti a parte, il suo valore è anzitutto stilistico, e non soltanto per la fusione di realistico e fiabesco, lirismo e crudezza, umorismo e strazio, luce ed ombra. Poetico come il suo titolo, diverte e commuove. Fa ridere, sorridere e, alla fine, piangere: rispecchia la complessità e l'ambiguità della vita. Non c'è procedimento narrativo o tecnico-stilistico al quale Takahata non ricorra con una capacità mimetica quasi cocciuta. E non c'è pubblico, dai bambini agli adulti, al quale il film non si addica.
La scelta di un nuovo regista che viene dal cinema e dagli show televisivi di danza (due film di Step Up sono i suoi successi maggiori) è la cifra più evidente della nuova piega che prende la saga di G.I. Joe. La Hasbro non si è arresa nonostante un successo molto moderato del primo film, e non ha abbandonato il suo secondo franchise cinematografico (dopo il ben più fortunato Transformers), scegliendo di ignorare i collegamenti con il film del 2009.
I G.I. Joe di questo nuovo film sono diversi (Channing Tatum, tra i protagonisti del film precedente, esce presto di scena, ma in più arriva Bruce Willis, un gigante di questi ruoli) e così il tono del film, piegato in maniera molto più decisa che in precedenza sull'azione, potendo avvantaggiarsi di una mano abilissima nell'agitare corpi di fronte alla macchina da presa, e di un corpo filmico straordinario come quello di Dwayne Johnson. Il tocco di John M. Chu infatti si vede subito, fin dalle prime sequenze, in cui la consueta narrazione è schiacciata dall'azione non solo in termini quantitativi (cioè il tempo dedicato ad essa) ma soprattutto in termini qualitativi.
Il difetto principale del film precedente, ovvero la pretesa di saper parlare anche di romanticismo, valori, e sentimenti nel mezzo di una storia tra le più spensierate e implausibili, è scacciato di colpo. Al nuovo team creativo non interessa il lato umano (giusto a Dwayne Johnson è lasciato un scampolo di vita privata con le bambine, ma l'impressione è che abbia più a che vedere con l'immagine che l'attore sta formando per sè che con le intenzioni del film) quanto le possibilità filmiche offerte dalla produzione.
G.I. Joe - La vendetta corre con passo indemoniato e a tratti con un certo stile dalla cima dei monti fino alle spiagge, sul cemento e sull'acqua, inventa coreografie originali e si rifà quanto deve allo stile e agli insegnamenti del cinema d'azione orientale. C'è una sequenza appesa per le funi sui monti che guarda ad alcune invenzioni di La foresta dei pugnali volanti e un duello finale in cui le pistole sono usate come spade in spazi stretti che sembra uscito dalla mente di Tsui Hark.
E alla fine, pur non riuscendo ad approdare alle vette del cinema asiatico, G.I. Joe - La vendetta riesce a trovare una dimensione originale e personale per una saga che era partita con il piede sbagliato, all'insegna della banalità e della mancanza di una voce propria. Peccato quindi che una trama poco inventiva (ma anche qui molto ripiegata su modelli asiatici vista la dinamica di svelamenti, scambi di persona e tradimenti) non riesca a dare dignità ai cattivi, privandi il film di un villain di livello. Cobra commander infatti compare poco, agisce poco, decide poco e ha poco carisma.
Carne e metallo, da questo contrasto nasce l'idea alla base di Robocop, dalla materia morbida e fragile che si contamina con quella dura, era la pietra angolare del film originale e l'unica cosa di quel capolavoro che in questo remake moderno non viene ripresa. A Josè Padilha, infatti, interessa il limite oltre il quale occorre spingersi per far rispettare la legge in casi estremi e cosa l'oltrepassare questo limite implichi. Lo aveva dimostrato in Tropa de elite e per questo è stato probabilmente scelto per il remake di Robocop che nelle sue mani diventa un film estremamente politico, in cui gli Stati Uniti del futuro prossimo sono una versione esasperata di quelli odierni e nel quale l'avanzata tecnologia che rende possibili i robot crea un divario con il resto del mondo dalle conseguenze spaventose.
Videocamere di sorveglianza per strada, identificazione del volto e continue intercettazione delle conversazioni e dei dialoghi da parte della polizia. Il vero non detto di questo film è come questo futuro lievemente distopico lo sia nella misura di un'invadenza fomentata dalla scusa del mantenimento dell'ordine. Forse la sua dimensione più interessante.
E la scelta del ricorso all'extrema ratio della sorveglianza robotica (che Padilha più volte mette in relazione al suo refente reale più vicino, i droni usati in guerra), è sempre ripresa come l'elemento disturbante e alieno in mezzo all'umano. Sottolineato da pronunciati rumori meccanici, fatti per stonare negli ambienti in cui sono inseriti, pensati per inquietare nell'avvicinarsi all'umano ma esserne molto diverso Robocop del 2014 sembra sapere quali siano i punti di forza del film originale ma troppo spesso sceglie di ignorarli.
Purtroppo le pur buone idee e l'attenzione di Josè Padilha verso un'applicazione proficua del mito di poliziotto robot, metà strumento di propaganda, metà essere umano ossessionato dall'incidente che l'ha quasi ucciso, trovano una sceneggiatura pessima in cui tutto è spiegato nella maniera peggiore (ovvero esplicitamente, a parole) e nella quale il tema molto potente del rimosso e dell'identità originale di Murphy tenuta nascosta è sacrificato sull'altare di un coinvolgimento sentimental-familiare fuori luogo anche per gli obiettivi più politici e meno eversivi di questo film.
Se Verhoeven partiva da una base di fantascienza per mirare ad altro, sembra che Padilha operi il percorso contrario. Iniziato da un discorso di iperbolica fobia criminale ed esigenza di violenza ordinatrice, il film lentamente sconfina nel filone principale del cinema di grande incasso moderno. Robocop infatti, più che un ammasso di ferraglia dentro la quale è intrappolato un uomo, sembra un essere umano dotato di poteri come un supereroe pieno di problemi. Le sue azioni non sono condite da un senso d'imminente pericolo e di minaccia continua ma (come è evidente dalle scelte musicali tendenti all'edonismo e dai plastici movimenti armonici) dall'esaltazione di potenzialità superomistiche.
Kolossal catastrofico, ispirato dal gioco della Hasbro, come già Transformers e G.I. Joe, e sceneggiato dalle penne di Red, Battleship non si fa mancare nulla: il ribelle coraggioso ma senza disciplina, che non conosce ancora cosa sia la leadership (un atto di solidarietà, per esempio), che ama corrisposto la bionda figlia del capo, e dovrà raccogliere l'eredità del fratello e sostituire il suo orizzonte di colluttazione con quello più utile di collaborazione. Ma non c'è solo Top Gun, nel meccanismo cardiaco di questo film, ci sono anche gli extraterrestri col tallone di Achille (stavolta non è il raffreddore ma un difetto di vista), il nerd quattrocchi ("l'avevo detto io") e la corazzata Missouri, novant'anni dopo il Potemkin. Troppo? Probabilmente sì, anche perché si potrebbe continuare. Manipolando le dimensioni, il film di Peter Berg principia nello spazio aperto per arrivare man mano a quello angusto e corpo a corpo dei corridoi del cacciatorpediniere, rimbalzare quindi sul monitor di un computer e rifondare un piccolo nuovo mondo tutto su una nave, sfruttando la sapienza del passato (la vecchia ciurma) con l'umiltà acquisita nel presente e la missione di salvare il futuro. Quando l'operazione è così smaccata non ha nemmeno più senso parlare di retorica. È molto più interessante constatare come 2 più 2 non faccia 4: l'accumulo di elementi altrove funzionanti non dà la somma sperata e porta invece vicino alla parodia, che appunto ripropone elementi del testo che utilizza (in questo caso del genere cinematografico di riferimento) portandoli all'assurdo o ibridandoli con esso. Dall'ineffabile entrata in scena di Brooklyn Decker, ancora in un clima di tensione e di premessa narrativa apparentemente compunta, il film scivola lentamente lungo questa china farsesca fino a prenderne coscienza -pare- e cavalcare l'onda che ha alzato: dal momento in cui Kitsch, Rihanna e compagni mettono piede sulla corazzata, infatti, il gioco si fa scoperto e il commento musicale adottato lo testimonia. Il divertimento non manca, ma abbiamo visto "war games" migliori.
Che la fantasia ad Hollywood sia in drastica diminuzione si sa da tempo, e "The italian Job" lo conferma appieno: qui si va addirittura a ripescare un titolo non memorabile del 1969 pur di portare a casa uno straccio di idea. Ma l'idea in sè non basta, se non valorizzata da una sceneggiatura all'altezza. E qui, escludendo il buon inizio veneziano e l'adrenalinica mezz'ora finale, ci sono almeno sessanta minuti sonnacchiosi.
La tesi del film è annunciata da una frase dello storico-scrittore Will Durant: una grande civiltà non viene conquistata fino a quando non si distrugge da sola dal di dentro. Così, quando nel 1518, gli spagnoli "conquistadores" sbarcarono per la prima volta su una spiaggia dello Yucatàn, per portare la nuova civiltà, i Maya avevano già compiuto buona parte del lavoro ed erano, diciamo così, predisposti. Gibson, creativo in modo allarmante, e anche furbo, corregge dunque la tesi del paradiso naturalistico: in quel tempo l'Europa aveva il Rinascimento, i codici civili e la polvere da sparo, i Maya "indietro" millenni rispetto a quei parametri, e al riparo da quel tipo di civiltà, non erano poi così felici. Un'idea scaltra e magari strumentale, comunque accettabile, che poi permette al regista di fare il cinema violento-etnico-primordiale-iperrealista, attraverso "interpretazioni impossibili", che tanto gli sono congeniali.
Il giovane maya Zampa di Giaguaro vive dunque in modo primordiale, va a caccia, si diverte coi suoi amici, ha una moglie incinta e un bambino. Il suo villaggio viene assalito da una tribù più forte che fa una strage. Insieme ad altri, Zampa di Giaguaro, che riesce a nascondere la famiglia in una grotta sotterranea, viene portato in un villaggio lontano dove sarà sacrificato al dio del sole. Riesce a fuggire, inseguito dai nemici. Li uccide uno a uno, torna al suo villaggio, salva miracolosamente la famiglia, e dall'alto di una collina vede due galeoni nella baia e alcune barche che si stanno avvicinando alla spiaggia che portano uomini con armi, insegne e croci. Jaguar e la famiglia si rintanano nel cuore della foresta.
Nella Passione Gibson si era ritagliato molte possibilità di invenzione a cominciare dall'aramaico. Qui ripercorre la stessa strada (lingua maya con sottotitoli) ma gli si aprono orizzonti ancora più vasti: i corpi nudi che offrono un'opzione di violenza estrema che, per esempio, Braveheart coi costumi e le armature non offriva. La vegetazione umida e senza sole, nemica, e così folta che senti prima di vedere, ed è tardi. L'istinto primordiale: ci si immobilizza, gli occhi si allargano a scrutare, il pericolo mortale è vicino. L'idea delle violenza estrema ha un'altra chiave, suggestiva. Zampa di Giaguaro viene colpito da una lancia, letteralmente trapassato, se la toglie e riprende la fuga, poi viene colpito da una freccia, dalle parti del cuore, se la strappa e prosegue. E non sono le solite licenze del cinema d'avventura, è una considerazione sulle difese del corpo, che oggi diremmo sovrumane e cha magari, in quel tempo e in quei luoghi, erano umane. L'istantanea estrema in questo senso è alla fine, quando Zampa di Giaguaro si affaccia sulla grotta e vede la moglie e due figli, che stanno per annegare sopraffatti dalle grandi piogge. La donna ha partorito nell'acqua. Un'altra strepitosa occasione Gibson la coglie col rito del sacrificio maya, e non gli par vero di poter rappresentare l'asportazione del cuore, il corpo disfatto pezzo per pezzo e poi spinto lungo l'infinita parete di quelle piramidi.
Dunque per il regista una possibilità estrema, antropologica, è quello che cercava. Può essere interessante la sua prossima mossa. Un'indicazione: perché no la genesi? Gibson cristiano radicale, avrebbe possibilità ancora maggiori, medierebbe le scritture con la scienza e offrirebbe certamente un'istantanea credibile di Adamo ed Eva. E dovrebbe inventare un linguaggio questa volta davvero ex novo. Un'avventura spaventosa, ma niente spaventa Mel. Apocalypto è un film molto importante. Per coraggio per estetica e per forza in senso lato. Va inteso, oltre che come magnifico trucco (sempre di film trattasi) anche come indicazione che certamente si porterà dietro tante, tante parole. E, indubbiamente, fa già parte del corpo del cinema.
Il viaggio di Arlo non è il cartone animato più riuscito della Pixar (anche perché esce subito dopo Inside Out, marcando la prima volta che gli studios presentano due loro prodotti nello stesso anno), ma è certamente uno dei più insoliti, a partire dal rovesciamento che sta alla base della storia: i dinosauri sono creature evolute, sanno esprimersi a parole e fanno una vita stanziale, essendosi trasformati da cacciatori a coltivatori, mentre gli esseri umani vivono allo stato brado, si esprimono a grugniti, rubano il cibo, ma hanno un gran coraggio e un forte istinto di sopravvivenza. L'amicizia che scaturirà fra Arlo e Spot, il cucciolo d'uomo assai reminescente del Mowgli di Il libro della giungla, è simbiotica poiché ciò che manca all'uno abbonda nell'altro, e viceversa. Il loro è un percorso iniziatico che li porterà a maturare ma anche a riconoscersi come appartenenti a razze diverse, non per questo incompatibili. Lungo il cammino Arlo e Spot incontreranno molte creature famigliari ai bambini che sanno tutto su pterodattili, velociraptor, tirannosaurus rex e stiracosauri, rivisitate però attraverso una sensibilità western che segue il classico confronto fra i pionieri contrapposti ai predatori e ai ladruncoli. Se la trama è elementare e piuttosto prevedibile, le caratterizzazioni sono gustose anche per il pubblico over-10, e la storia mostra un certo coraggio nell'affrontare il tema del lutto e dell'appartenenza alla propria famiglia, di nascita o di elezione.
L'animazione è al suo meglio nella ricostruzione dei panorami primordiali, mostrando passi da gigante nella resa dell'acqua e dei fenomeni naturali: vento, polvere, tempesta, campi di grano ondeggianti, nuvole in viaggio, stormi di uccelli e lucciole in volo, ognuno fa a gara per stupire lo spettatore abituato a computer graphic più artefatte e meno inclini ad assecondare il potere magico della natura.
Punto più basso della saga. Più che del regista esordiente che mostrerà il suo talento in Seven, lo scacco è imputabile a una sceneggiatura sgangherata, passata per troppe mani (soltanto 3 scrittori su 6 accreditati), ripetitiva e poco plausibile. Ascetica e rapata a zero, S. Weaver è l'unica nota positiva insieme al cupo clima, claustrofobico e penitenziale, della 1ª parte.
Al quarantanovesimo film, la Disney si rinnova guardando al passato, tornando al disegno fatto a mano, ai fratelli Grimm, ad un'ambientazione in parte metropolitana, abitata da esseri umani, e in parte più fiabesca, immersa nella natura, in quel regno animale che da sempre ha qualcosa da insegnare al primo, in termini di verità, di libertà, di collaborazione. O improvvisazione collettiva, per dirla in chiave jazz.
Come nella fiaba di partenza, che qui dà esclusivamente il la, il viaggio nel regno animale è un momento necessario e circoscritto, prima dell'ingresso nel mondo adulto, ma la scelta di ambientare il lungometraggio a New Orleans, sotto questa luce, non risponde solo ad un banale criterio di diversificazione ed esotismo, ma anche all'individuazione di un luogo dove tradizione e innovazione vanno a braccetto e dove la festa che viene presa maggiormente sul serio è la follia del carnevale.
Peccato, allora, che i realizzatori de La principessa e il ranocchio non si siano abbandonati ad un po' di euforia in eccesso: il film, già semplicemente ma pienamente risolto sul piano narrativo, ne avrebbe guadagnato ulteriormente.
Difficile dichiarare se l'elemento più coinvolgente di questo riuscito action movie sia quello visivo o quello della sceneggiatura. I primi piani strettissimi, la notte losangelina, il montaggio serrato (spettacolare la scena della discoteca con un incessante e ipnotica musica martellante) e l'uso del digitale che rende le immagini notturne più nitide con un conseguente iperrealismo, si fondono con i dialoghi ironici, a volte tarantiniani, fra Vincent e Max, e che lentamente assurgono a una sfida sulle orme delle regole dell'arte della guerra di Sun Tzu.
Tom Cruise e Jamie Foxx si affrontano a viso aperto diretti da un nuovamente grande Mann, saggia mano del cinema adrenalinico di classe.
Risucchiati dal dipinto di un veliero nel mare in burrasca, Lucy ed Edmund escono dall'anonima vita di Cambridge per tornare ad essere Edmond il Giusto e Lucy la Valorosa, re e regina di Narnia. Al loro seguito stavolta l'insopportabile cugino Eustace, prolisso, goffo e lagnoso che, una volta trovatosi nella tempesta del favoloso mondo, reagisce istericamente minacciando una denuncia per rapimento. Compila un diario in cui prende in giro tutto l'equipaggio, viene sorpreso dal topo Reepicheep a rubare viveri nella stiva fino a quando l'incalzare delle vicende (dal rischio di essere schiavizzato a quello di essere metamorfosato) non lo condurrà ad assumersi la piena responsabilità dell'esperienza.
Ma come mai sono stati chiamati in quel regno se non ci sono più guerre da combattere? Chiedono i due fratelli al ritrovato principe Caspian. La risposta non sarà immediata e trapelerà un po' alla volta col disvelarsi del mistero della sorte dei sette lord scomparsi, precipitando ogni protagonista in un fitto reticolo di esperienze che celeranno messaggi individuali e universali. Ancora una volta ci sarà da stupirsi con i personaggi desunti dai bestiari mitologici; oltre ai già noti fauni e al minotauro, che alla prima asserzione farà svenire Eustace, eccoci alle prese con sirene trasparenti, draghi, bestie invisibili con un piede solo, mostri marini giganti. E poi il serpeggiare di una nube verdastra spiegata come un 'sacrificio' che fa svaporare tutte le creature nel nulla. Cambia stavolta la dimensione del male. Non più qualcosa di puramente esterno da sconfiggere con spade e incantesimi ma una dimensione interiore, una 'tentazione' da riconoscere dentro di noi e portare alla luce. La temuta isola delle tenebre che corrompe i giusti e cerca di gettare il mondo nell'oscurità altro non è che male puro, alter-ego del vaso di Pandora dove affiorano paure e fragilità ataviche.
Clive Staples Lewis, irlandese d'origine calvinista convertitosi alla fede anglicana durante la Grande Guerra, affronta ancora nel terzo episodio della sua saga il conflitto universale tra il Bene e il Male. Il cambio di regia da Andrew Adamson a Michael Apted segna una svolta meno criptica e più palesemente spirituale. Di una spiritualità intesa come messa in discussione di se stessi, ricerca del valore per cui valga la pena vivere. "Se volete sconfiggere le tenebre dovete sconfiggere le tenebre dentro di voi" viene suggerito ai protagonisti. Proprio perché nemo dat quod non habet, per riportare la pace e condurre il mondo alla salvezza la vera guerra da combattere deve essere quella interiore. Il male non si può eludere, anzi diventa occasione per sperimentare se stessi, conoscersi, temprarsi ed edificare certezze più grandi. Anche per Eustace non è più tempo per i capricci e la sua maturità verrà segnata da una inaspettata metamorfosi. Il mondo reale e il mondo di Narnia, così apparentemente distanti, entrano in osmosi come il mondo della coscienza e quello dell'inconscio dove i grandi temi prendono una forma archetipica attraverso la simbologia dei personaggi. Per quanto riguarda la discussione su Aslan, interpretato da molti come figura Christi, sono innegabili certi richiami evangelici; l'attesa messianica della salvezza, il sacrificio, la resurrezione, la tentazione. E ancora: Aslan giunge solo se invocato, aiuta a riconoscere e a sconfiggere la tentazione, pronunciato il suo nome le tenebre si squarciano di luce facendo fuoriuscire una colomba, e nelle dichiarazioni finali sembra alludere a un noto versetto del Vangelo di Giovanni.
Non dobbiamo comunque prescindere dal legame dell'autore con Tolkien, dal sodalizio letterario in nome di un comune metodo mitico-simbolico, tenendo presente che la cultura di Lewis spaziava dal cristianesimo all'esoterismo, dalla psicanalisi alla mitologia. Si veda il tema omerico del viaggio, del mare come ricerca e come insidia, della sete di conoscenza dei personaggi insieme agli incantesimi e alle metamorfosi che evocano in buona misura le peregrinazioni di Ulisse.
Lo spessore letterario, la nuova impronta registica e la scelta del 3D creano un'avventura multi-prospettica vivida e polifonica.
M. Night Shyamalan si muove con sicurezza nel territorio del paranormale e del contatto con gli alieni. Da qui a proporlo come il nuovo Spielberg però ce ne corre. Anche perché questa volta si avvale di un Gibson sempre più piatto e in caduta libera (v.anche We were soldiers). Manca la suspense e tutto appare prevedibile. Ciò che non lo è affatto è invece il finale. Ma non sul piano della pura narrazione quanto su quello dei simboli. Guardate i 'segni' che costellano gli ultimi minuti del film e provate a chiedervi se parte del successo del film negli Usa non sia dovuta anche al fatto che questo è il primo, vero manifesto cinematografico americano del dopo 11 settembre. Dire di più rovinerebbe la sorpresa.
De Palma riprende i personaggi di una celebre serie tv degli anni '50 e ne fa un dramma poliziesco che porta il suo inconfondibile segno. La scena della stazione, con la carrozzina che avanza senza controllo giù per la scalinata, è un piccolo gioiello registico. Sean Connery, nei panni del poliziotto Jim Malone, guadagna il primo e unico Oscar della sua carriera come miglior attore non protagonista.
A distanza di sei anni da K-19, Kathryn Bigelow torna a parlare di guerra e di dipendenza, al confine -già più volte esplorato- tra coraggio e alienazione.
Il racconto procede dritto e ansiogeno, come la camminata dell'artificiere dentro la tuta, vera e propria passeggiata sulla luna di un dead man walking; ci sono i crismi del genere - il soldato che ha paura, le scazzottate alcoliche- ma ridotti all'osso; e c'è l'eroe, un Davide che affronta il Golia dell'esplosivo a mani nude, del quale siamo portati a pensare che non abbia più niente da perdere, ma è vero il contrario.
La Bigelow si è mossa, negli anni, fuori e dentro da Hollywood, ma a nulla varrà cercare in The Hurt Locker la denuncia estrema di Redacted, la messa in discussione di ciò che guardiamo, (non) sappiamo, permettiamo. L'immagine che la regista restituisce dell'Iraq non è nuova ed è certamente parziale, ma non è questo il punto. Quel che conta è il deserto dell'anima, il buio della guerra che s'avvicina e attira a sé un uomo intelligente (in grado di capire in pochi secondi il nemico che ha di fronte, il tipo di bomba) come il fuoco attira una falena.
Gestendo il ritmo in modo straordinario, perché del ritmo (delle onde, del cervello, dell'azione) ha fatto da sempre l'oggetto della sua riflessione cinematografica, Kathryn Bigelow ha girato un film potente, che cede solo in qualche interstizio alla tentazione della spiegazione e del cameo inutili. Affidandosi alle cronache del reporter Mark Boal, ha elaborato e raccontato un danno apparentemente collaterale ma in realtà sostanziale, entrando come mai prima nella questione di genere (il maschile).
Chi dice che l'autrice è una donna che fa film da uomini, infatti, non dice tutto. In The Hurt Locker c'è un unico personaggio femminile, che occupa un numero insignificante di fotogrammi e una sola battuta del dialogo, eppure ne intuiamo subito la libertà, compresa la libera scelta di essere fedele ad un uomo che non c'è e non glielo chiede. Lo stesso uomo che ci viene mostrato, al contrario, schiavo del pericolo, dell'emozione forte a tutti i costi, di quell'immenso contenitore di alibi che è la guerra. Perché, per dirla in perfetto stile hollywoodiano, morire è facile, è vivere che è difficile. E questo, impossibile negarlo, è un giudizio chiaro e tondo.
Dopo aver catapultato i suoi personaggi su mondi alieni che stanno al di là dello steccato o dentro un asilo (Toy story e Toy story 3), sull'Himalaya (Monsters & Co.), dall'altra parte dell'oceano (Alla ricerca di Nemo) e attraverso lo spazio (Wall-E), Andrew Stanton stavolta va alla radice della sua ossessione per lo sradicamento e la scoperta del selvaggio portando al cinema la storia da cui tutto è partito. Quel "Sotto le lune di Marte", primo romanzo della saga di Barsoom scritta da Edgar Rice Burroughs, che negli anni '10 del secolo scorso ha gettato le basi del mito dell'essere umano catapultato di colpo in un mondo meno civile e più avventuroso del proprio. Un'idea narrativa che ha ispirato tantissimo cinema (da Il pianeta delle scimmie a Stargate) e non solo (è il modello non dichiarato del videogioco "Another World").
Del primo romanzo con protagonista John Carter, il regista prende il cuore, aggiunge un prologo e relativo epilogo, piega lo svolgimento alle dinamiche disneiane, aggiorna le figure femminili e cura ogni personaggio con una minuzia a cui non siamo più abituati nel cinema dal vero.
È superfluo notare la perfezione del character design, il realismo dei colori e delle ombreggiature dei molti personaggi animati in motion capture, vista l'eccellente provenienza dell'autore, la scoperta vera di John Carter è quanto senso del cinema ci sia in questo gigante dell'animazione che non aveva mai messo piede in un set reale. Il metodo-Pixar applicato a un film in live action si traduce infatti in un ritmo altissimo, dato da un montaggio che unisce momenti diversi con ponti sonori e in grado di compiere impreviste ellissi senza inficiare mai la comprensibilità, oltre che in un lavoro chirurgico su ogni personaggio (specie quelli secondari), così che ogni scena abbia un elemento di interesse.
Nel passaggio al live action Stanton inoltre non dimentica la plasticità filmica propria dell'animazione. Muove i corpi sullo schermo con mobilità e leggerezza svelando un'idea di grazia e una concentrazione sul gesto che, specie nelle scene più dinamiche, segnano la differenza con il resto del cinema americano e trasformano quella che può essere blanda azione in pura avventura. In questa maniera gli ampi paesaggi e i frequenti totali non mai pretestuosi ma ariosi ed epici, e le irriconoscibili musiche di Michael Giacchino non suonano mai salvifiche ma sempre accordate al tono delle scene.
Con un cast di comprimari straordinari sebbene irriconoscibili dietro il motion capture (il carisma e il fascino emanato dal Tars Tarkas di Willem Dafoe sono la dimostrazione più evidente di quanto questa tecnologia sappia restituire le minuzie interpretative che rendono grande un attore) e un cast di attori meno noti, John Carter è già il blockbuster più audace e soddisfacente dell'anno, un'epica avventura prodotta con stile anticonvenzionale e seguendo le regole dell'animazione, eppure più reale e concreta di tutti i suoi concorrenti.
Il titolo, che significa "luminoso", è il gergo con cui nel film ci si riferisce a qualcuno che è in grado di usare la magia. Ne sono protagonisti Will Smith, che torna a lavorare con Ayer dopo Suicide Squad, e l'australiano Joel Edgerton (Loving, Warrior, The Gift - Regali da uno sconosciuto), sotto pesante trucco per entrare nei panni di un orco. Descrive il suo personaggio come un orco anomalo, che ha sempre voluto essere un umano, tanto da limarsi i denti, e dice di averlo considerato come un animale che cerca di interpretare un'idea conservatrice di essere umano. Edgerton ha inoltre spiegato che gli orchi non capiscono il sarcasmo e l'ironia, quindi sono molto onesti e diretti, d'altra parte hanno sensi sviluppati che gli permettono quasi di annusare le menzogne.
Probabilmente hanno mangiato gallette di riso razionando l'acqua per tutto il tempo della lavorazione per riuscire a realizzare un film simile con il ridicolo budget di 5 milioni di dollari. Scenografie prolungate al digitale, alcuni trucchi poveri (ma efficaci!) e un bel teatro di posa attrezzato a dovere, tanto è bastato al regista Duncan Jones per fare del suo primo film una vera opera di fantascienza classica.
Jones dimostra di sapere bene che la fantascienza è dentro la testa dello spettatore, il quale non ama le astronavi in sé ma quell'infinita e misteriosa desolazione degli spazi silenti dentro i quali esse si muovono, che costringe i personaggi ad andare alle radici del concetto di "umanità", rivedendo il rapporto che hanno con gli altri o con le macchine. Ed è proprio questa la cosa più piacevole di Moon: trovare che finalmente lo spazio torna ad essere non tanto un teatro d'azione e guerra ma l'ultimo grande luogo sconosciuto, l'unico nel quale sia ancora possibile immaginare o temere di poter trovare alieni a metà tra organico e inorganico, forze che materializzano i pensieri individuali o addirittura i confini della fisica e l'origine dell'uomo. Sulla loro Luna Duncan Jones e lo sceneggiatore Nathan Parker immaginano di trovare l'altro per eccellenza ovvero la propria copia esatta.
Forse però la freccia più affilata di Jones è la maniera con la quale gioca con le aspettative dello spettatore realizzando un film che non cita ma copia letteralmente molti elementi di classici come 2001: odissea nello spazio o Blade Runner. Jones ne replica i presupposti al fine di suscitare una reazione spontanea nello spettatore e poi tradirla. GERTY, il computer di bordo tuttofare dalla voce monocorde, non solo ricorda H.A.L. 9000 ma sembra seguirne il solco, almeno fino ad un certo punto, allo stesso modo le geometrie esagonali che compongono la base lunare, l'eccesso di bianco e nero, le tute, i caratteri delle scritte sugli schermi e tutta la tecnologia fatta di videotelefoni e pulsantini illuminati non sono in linea con quello che oggi al cinema immaginiamo per il nostro domani ma con quello che immaginavamo potesse essere il nostro futuro nell'era d'oro della fantascienza.
Stando sulle spalle dei giganti Jones guarda più lontano degli altri facendoci respirare l'aria del miglior cinema e riservandosi il diritto (tutto contemporaneo) ad una diversa visione della dialettica tra macchina e uomo (e più in grande tra spirito e materia), in linea con quello che fa anche un altro capolavoro della fantascienza moderna come Wall-e. Al tempo stesso però quando si tratta di tirare le fila delle molte carte calate sul tavolo sembra che il peso delle aspettative schiacci l'ambizioso esordio del figlio di David Bowie in un finale che, sebbene adeguato, non è all'altezza delle premesse. Moon poteva essere un disastro, eccessivamente modellato com'è su capolavori irraggiungibili, e invece è una piccola perla di un tipo di cinema che non si fa più da anni.
I personaggi sono quattro: Eddie Valiant, l'investigatore privato; il coniglio Roger Rabbit; la tuttacurve Jessica, sua moglie, che ha la madornale anatomia di una vamp e il bieco, nerovestito Doom, magistrato implacabile che ha potere sui "Toons". Il primo e l'ultimo sono umani; gli altri due sono Toons, personaggi disegnati. I due universi coesistono. Il livello tecnico è eccezionale, senza il minimo scarto dell'impressione di realtà. Altrettanto ammirevole è la ricchezza delle citazioni, delle trovate comiche, ma presto ci si accorge che procede per accumulazione, non per sviluppo narrativo. 3 indiscutibili Oscar tecnici (montaggio, effetti speciali visivi e sonori). Il cortometraggio di apertura in stile Warner Bros anni '50 è una meraviglia.
Finito un ciclo ne inizia un altro e siccome il mutamento palesa ciò che gli sfugge, la nuova serie di Bourne (ormai solo nominalmente) nel suo mutare protagonista lascia emergere gli elementi caratteristici dello spionaggio moderno per come Tony Gilroy e Paul Greengrass l'hanno cambiato ed evoluto. A differenza di Jason Bourne, il nuovo agente Aaron Cross conosce bene il proprio passato e vorrebbe tanto dimenticarlo, anch'egli corre per sfuggire alla lunga mano e ai mille occhi di un governo che l'ha reso quel che è, con l'obiettivo di guadagnarsi il diritto ad una nuova vita ma non è più uno sperduto superuomo in un mondo che ignora, anzi è un profondo conoscitore delle dinamiche che deve smontare. Dunque la vera similitudine tra i due, al netto del superomismo, è e rimane la ricerca di una nuova identità, che equivale a dire l'assenza di una. Il tipico giro di location ai diversi angoli del pianeta è di nuovo un vagare in luoghi differenti con l'aria sperduta di chi cerca se stesso, essere ovunque eppur rimanere un nessuno, il perfetto prodotto della fobia moderna nei riguardi della perdita (o del furto) d'identità in un sistema di comunicazioni che la ridefinisce in continuo. Ma non solo identità, stavolta la paranoia da spy movie si allarga alle conquiste della scienza medica e alle possibilità di ingerenza di questa nel corpo umano, a favore di un "controllo" che da gerarchico si fa burattinesco, uno stato che riesce a plasmare le azioni e le intenzioni dei propri agenti.
Dunque mentre James Bond aveva il suo punto di forza in un'identità unica e incrollabile, fatta di gesti, vizi e tic noti e apprezzati, un eroe il cui momento più iconico è la presentazione stessa ("Bond, James Bond"), gli agenti che Tony Gilroy sceneggia a partire dalle idee di Ludlum sono dei fantasmi privi di una personalità forte che nel loro agitarsi non mostrano se stessi ma riflettono il sistema da cui dipendono per la propria esistenza e senza il quale non sono nulla.
Se prima però Tony Gilroy era solo sceneggiatore, ora è anche un regista che riprende i tratti salienti dello stile Greengrass per far sentire il meno possibile la cesura con il passato, sebbene non riesca ad imitarne l'incredibile rigore ipercinetico.
La vera novità sono allora i due comprimari, elevati a uno status mai visto nella saga di Bourne. Rachel Weisz, scienziata a rischio della vita pronta ad aiutare l'agente segreto che prima considerava solo un numero, è molto più di una "donna sballottata dall'eroe" e di certo ha una personalità più forte della sua, mentre Edward Norton è un volto all'altezza del Sistema dai mille occhi che caccia il protagonista. Il suo Eric Byer, decisionista a metà tra tutte le agenzie governative, quarantenne dai capelli bianchi donatigli da una vita dallo stress impensabile, è il più umano degli inumani, agisce come una macchina assecondando principi e assurdità comprensibili come mai. E proprio questo forse è il cambio più drastico rispetto al passato, una personalità forte e unica in cima alla caccia e non più quel "governo" non identificabile in un'unica persona, entità vaga e sfuggevole in cui nessuno ha l'ultima parola o una vera responsabilità.
Direi che qua si tratta di un Hard Pass per chiunque abbia anche solo un briciolo di amore nostalgico per la trilogia originale, come il sottoscritto.
Tralasciando il primo quarto del film che è un meta-film che rompe la quarta barriera in maniera davvero banale - e già qua dovreste avere letteralmente la pelle d'oca - si arriva ad attori sostituiti con pessime scuse di trama, la più orrenda parte che il Keanu nazionale abbia mai recitato, e la rottura di molte regole istituzionali stabilite nei film precedenti.
La prima trilogia ve la potete ricordare come una trilogia seria, alquanto filosofica in certi momenti, con le relazioni d'amore contestualizzate con eccellenza e scene d'azione epiche senza tagli veloci (anzi, spesso con bullet time a campo aperto).
Il sequel invece vede comicità da parte degli attori (sì, anche di Neo), assolutamente zero discussioni filosofiche di qualsiasi tipo sull'importanza delle scelte e la differenza fra libero arbitrio e destino, l'amore fra i protagonisti è trattato a fine film come se fossero due "genitori divertenti" a una cena con gli amici dei figli, e scene d'azione che hanno addirittura più tagli di scena con cambio di angolazioni dei cazzotti che vengono effettivamente dati in esse.
Sarebbe impossibile per me, purtroppo, proseguire senza trasformare questa recensione in una lamentela o senza spoilerare, e non voglio farti questo dispetto.
**Verdetto Finale** : Come un'ago che trafigge il cuore. Di Matrix, per me, al mondo, ce ne sono solo 3.
**Momenti in cui vederlo** : Quando volete studiare come fare un film in maniera sbagliata.
Jennifer Aniston e Adam Sandler sono due talenti comici tanto indubbi quanto differenti. La commedia di Dennis Dugan, ispirata a Fiore di cactus (film del '69 con Ingrid Bergman e Walter Matthau, che valse a Goldie Hawn l'Oscar per la parte che qui è di Brooklyn Decker), cerca un terreno in cui il loro incontro artistico possa essere fruttuoso e il loro incontro sentimentale credibile. Il primo punto è una vittoria, il secondo no.
La Aniston, a suo agio nella commedia realmente romantica e spesso ben più ambiziosa di questa, si adatta al tono più basso, goliardico e ideologicamente dubbio che contraddistingue qui il personaggio di Adam Sandler (il quale manda avanti la sua vita e la sceneggiatura a colpi di acquisti con carta di credito), partendo come spalla per arrivare a scalzarlo proprio. Quando poi compare Nicole Kidman, in una specie di micro feroce autocaricatura di cui non la credevamo capace (ma è una grande attrice proprio perché non finisce di stupire), la scena è tutta per loro e l'uomo finisce letteralmente giù dal palco, tra gli spettatori del duetto in gonnella.
Rispetto all'originale di Gene Saks, questo Mia moglie per finta può definirsi come una plastica mal riuscita, persino la durata è fuori misura, ma non sarebbe onesto negargli la capacità di strappare qualche risata di pancia (l'amico del protagonista, finto tedesco, finto esperto di pecore, che si ritrova a doverne rianimare una vera, bocca a bocca) e qualche sincero sospiro, poiché il lieto fine, appunto, si fa attendere.
Nonostante intristisca la gara di bikini, in cui la Aniston deve provare (ma perché?) che vent'anni di differenza anagrafica con la rivale non fanno invece alcuna differenza sul suo fisico dalla vita in giù, la sua prova qui è ottima ed è (tutto) ciò che vale la visione.
Prodotto da Steven Spielberg, sostenuto da una sceneggiatura troppo affastellata e diretto da un accademico mediocre, è un grosso spettacolo per famiglie, mirato al pubblico dei ragazzini. Pesante con qualche guizzo.
Succede così che Mordred sia un nemico del padre di Artù anziché suo figlio, che Merlino non incontri nemmeno Artù e che altri personaggi chiave della saga non appaiano né siano citati. Questo anche perché il progetto, fin da quando si è iniziato a parlarne nel 2014, prevedeva di dipanarsi su sei film, e dunque ci sarà tempo (se lo vorrà il box office) per gli eclatanti assenti come Ginevra, Lancillotto e Morgana. Su Merlino poi Ritchie deve aver cambiato idea strada facendo, visto che aveva cercato senza successo di dare la parte a Idris Elba e dunque doveva avere un ruolo assai più sostanzioso della piccolissima comparsa rimasta nel film, dove nemmeno lo si vede in volto (rimandando così la questione del casting). A differenza di altri blockbuster e franchise dove il regista è spesso l'ultimo arrivato, quando ormai la sceneggiatura è già stata ritoccata infinite volte da scrittori e produttori, qui Ritchie è coinvolto fin quasi dal principio e si vede che il film è del tutto suo. Trasforma infatti Artù nel più tipico dei suoi personaggi, un piccolo gangster di Londra (qui Londinum), astuto e dalla faccia tosta, ma in fondo pure dal cuore d'oro - non per niente è soprannominato Art, che in inglese suona un po' come Heart.
E con l'ambientazione urbana arrivano anche situazioni tipiche del cinema di Ritchie a partire dall'interrogatorio in cui, a uno dei capi delle guardie (interpretato da Michael McElhatton, il Roose Bolton de Il trono di spade), Art i suoi due compari raccontano una loro impresa saltando avanti e indietro tra inezie e cose rilevanti. L'infanzia di Art in città è poi riassunta in una sequenza da videoclip, dove vediamo la crescita accelerata del ragazzo tra pestaggi e piccoli furti, ma fin da piccolo già con la saggezza di nascondere il proprio denaro. Questi elementi dovrebbero nelle intenzioni dare una ventata d'aria fresca a una saga arcinota, ma il risultato è controproducente perché sono espedienti che erano già derivativi quando Ritchie era ancora un regista alle prime armi, figuriamoci ora.
Paul Greengrass e Matt Damon ridanno vita a una franchise che pareva finita, dopo un capitolo - The Bourne Legacy - che aveva provato a rimpiazzare il protagonista con Jeremy Renner. Neanche Jason Bourne sfugge alla "coazione a proseguire" che ormai caratterizza inequivocabilmente il cinema contemporaneo - non c'è band che non si riunisca, non c'è eroe che non venga resuscitato. Dopo una trilogia che ha inciso profondamente nel cinema action americano, Bourne torna quindi a colpire. I network di spie sul campo e di hacker si confondono sempre più, in un intrico che recupera il personaggio di Nicky Parsons e introduce un suo possibile sostituto, Heather Lee, ambiziosa agente dei servizi segreti che porta il volto angelico di Alicia Vikander.
Un'operazione analoga a quella del Bond post-Lazenby di Diamonds Are Forever che ha il chiaro intento di spostare l'accento dai segreti e i misfatti della CIA a quelli del "deep web" e delle possibili manipolazioni dei social network. Lo script viene scarnificato e ridotto all'essenziale: Matt Damon pronuncia quindici battute in tutto il film e la sua nemesi interpretata da Vincent Cassel anche meno. È un trionfo, modernissimo e spersonalizzante, di dispositivi elettronici e fucili a ripetizione, auto distrutte ed esplosioni, in cui il fattore umano è sempre più relegato sullo sfondo. Difficile eccepire sulla scelta di Greengrass, specialmente quando supportata da sequenze action come quella che ha luogo durante i moti di piazza Syntagma ad Atene (ricostruita in Spagna).
Ma il tema di stretta attualità e ricco di implicazioni sulla contaminazione della rete e del post-Snowden richiedono tutt'altra trattazione rispetto a quella semplicistica operata da Greengrass e dagli sceneggiatori (per non parlare del ricordo paterno come movente del ritorno di Bourne). Dall'arrivo a Las Vegas e dalla conferenza stampa di Kalloor - una sorta di Zuckerberg che ha faustianamente stretto la mano al male - ogni traccia di credibilità residua svanisce, consegnando lo svolgimento a un'assolutoria identificazione del male nella "vecchia" CIA e dimostrando lacune di vario grado nella conoscenza tecnologica della materia. Anche la lunga sequenza action che conclude la vicenda sperpera quanto di buono realizzato in piazza Syntagma, con un duello all'arma bianca che non aggiunge nulla alla metamorfosi da uomo a belva feroce del Soi Cheang di Dog Bite Dog (l'action americano guarda ancora a Hong Kong, anche se quest'ultima è quasi priva di un presente cinematografico).
Rinunciare così chiaramente alle implicazioni politiche che sembra suggerire la trama, considerando quel che viene raccontato un semplice orpello, o uno strumento per sfoggiare la propria tecnica, è poco per le necessità del cinema action nel 2016. Siamo già passati di qui, ed è tempo di una fase 2, per dirla alla maniera della Marvel. (Già) visto quel che è capace di realizzare tecnicamente Greengrass, (già) visto l'uomo-macchina-killer-depersonalizzato e invincibile, resta solo una sensazione di impossibilità - quasi un rifiuto consapevole - di coinvolgimento spettatoriale e quindi una crescente e inevitabile noia.
Tratto da un bestseller di Paula Hawkins, La ragazza del treno prova a rinverdire i fasti del giallo classico, colorandolo di sfumature sexy e di un'indagine psicologica nella mente di una alcolista. Ma il film di Tate Taylor difetta gravemente negli elementi base di un'opera cinematografica, nelle sue componenti essenziali. In primis la sceneggiatura, adattamento di un romanzo incentrato sui pensieri delle sue protagoniste e ostico da trasporre su grande schermo: la scansione temporale della storia, con i suoi balzi in avanti e all'indietro, suona puramente artificiosa, senza essere suffragata da esigenze narrative né aggiungere una sfumatura significativa al film. Il cast inoltre assembla attori di per sé ottimi, adattandoli a ruoli che non sono i loro: Emily Blunt, per quanto imbruttita, resta lontana dalla protagonista del romanzo; Edgar Ramirez si lascia andare a un accento spagnolo pur interpretando uno psicanalista di chiare origini mediorientali (Kamal Abdic); e così via, in un contesto di generale trascuratezza per la credibilità di ogni dettaglio.
La presenza di Blunt e la sua inevitabile valenza extra-diegetica di star sembrano l'unica giustificazione all'empatia che si crea tra lo spettatore e il personaggio, anche di fronte alle azioni più incomprensibili o esecrabili di quest'ultimo. Ma la regia di Taylor, anziché avvalersi del contrasto, lo asseconda, annullando già all'origine il contraddittorio mistero di cui si nutre un whodunit. Riusciamo mai a credere davvero che Rachel sia colpevole di qualche atto irreparabile? Riusciamo a empatizzare con lei quando scatena la sua rabbia in un bagno giurando di voler uccidere con le sue mani Megan per il solo fatto di tradire il marito?
Ma se sui fondamentali La ragazza del treno non eccelle, neanche i particolari aiutano a salvare il film di Taylor, già regista di un mediocre biopic su James Brown (Get on Up): Haley Bennett vanta un corpo e una fisicità tali da renderla credibile come sex symbol, ma non l'espressività necessaria per rendere la complessa personalità di Megan. Così come il contrasto tra il candore di interni maniacalmente curati dai propri inquilini e i torbidi intrighi che si instaurano tra loro non va oltre il più consunto stilema da Peyton Place in poi. Tutto già (e meglio) raccontato da Lynch, Kasdan e infiniti altri registi di gialli e noir, senza il ricorso a metafore come il montaggio dell'epilogo, che accosta le tre protagoniste della tragedia a tre Grazie, accomunate dal medesimo percorso di vita. Il corpo sensuale (Megan), la mente soggiogata (Rachel) e l'istinto materno (Anna) sono infine riunite in un'unica entità, liberate dalle catene di un aguzzino fallocrate. Un'appendice visiva del tutto didascalica e superflua.
Menzione per le musiche di Danny Elfman, unico elemento salvabile di una trasposizione destinata a deludere tanto i fan del romanzo che i suoi detrattori.