1066405 movies 572119 celebrities 80009 trailers 18947 reviews
Movie lists

Latest reviews:

Nonno scatenato - Dirty Grandpa (2016) Nonno scatenato (2016)
CinePops user

Di originale Nonno scatenato - per una volta non scatta neanche l'impulso di difendere l'opera dal titolo italiano affibbiatole e da un doppiaggio atroce - non ha neanche il soggetto, che sostanzialmente ricalca quello di Jackass - Nonno cattivo, al netto di qualche minima variazione. Ma rispetto a Johnny Knoxville e soci, Dan Mazer e lo sceneggiatore John Phillips hanno pensato di spingere ulteriormente sull'acceleratore del politicamente scorretto e dell'ultra-scurrile, costituendo il più improbabile dei duetti: Robert De Niro e Zac Efron.
Al di là dello sforzo di sospensione dell'incredulità richiesto per immaginarli come nonno e nipote, il caso di miscasting plurimo è da ricordare negli annali. Il ruolo di Efron è quello di un figlio di papà borghese e incapace di divertirsi: un burattino nelle mani di famiglia, società e futura moglie che ha rinunciato a inseguire i propri sogni. E che l'arco narrativo, passando per il carcere, uno spring break e delle nozze imminenti porterà inevitabilmente allo sconvolgimento di tutto ciò. Peccato che per Efron significhi in ogni caso mantenere una sola, immutabile, adamantina espressione. Ma se Efron ragiona, diciamo così, "per sottrazione", ovvero si sottrae al suo ruolo di attore, il vecchio Bob De Niro di smorfie ne sfodera fin troppe. Specie dovendo seguire uno script che lo porta a rimorchiare le trentenni (o ventenni? anche sui dati anagrafici gli anacronismi si sprecano) dal giorno successivo al funerale della moglie, a masturbarsi guardando porno o a recitare i nomi dei membri del Wu-Tang Clan fumando cannabis insieme a una gang.
È incomprensibile come possa Robert De Niro annientare consapevolmente una carriera in questo modo, accettando di accostare a personaggi come il Travis Bickle di Taxi Driver o il Noodles di C'era una volta in America il nonno scatenato dell'omonimo film. Se è un gesto situazionista o una provocazione alla Duchamp, è mal indirizzata, se si tratta di bollette da pagare è uno scenario oltremodo malinconico.
Lo script di Phillips purtroppo non dissacra né provoca. Essenzialmente insulta, male interpretando il verbo di Judd Apatow, varie minoranze (gay, neri, gentil sesso), arrivando persino a giocare con un simbolo come la svastica per prendersi gioco della ragazza ebrea con cui Jason/Efron dovrebbe convolare a giuste nozze. Ma soprattutto non fa ridere. Mai. Perché forse il riso, anche quello di cui vergognarsi a più non posso, quello per intendersi di certe battute di Christian De Sica (la gag della "crasi" di Natale a Rio sarebbe una sottigliezza alla Monty Python nel contesto di Nonno scatenato), porterebbe a una maggiore magnanimità nel giudizio. Ma in Nonno scatenato non scatta neanche un colpevole sorriso, perdura solo una sensazione di sgradevolezza reazionaria. Con tanto di messaggio morale (serio) su un ex-Berretto Verde che tiene fede allo slogan patriottico e "libera gli oppressi", ossia impedisce al nipote di commettere un errore sposando la donna sbagliata e "concede" a se stesso di fare sesso con una ragazza di 40 anni più giovane.
Se non fosse totalmente trascurabile e dimenticabile per la storia del cinema anche limitata al solo 2016, sarebbe un film altamente offensivo. Ma a Nonno scatenato non è giusto concedere neanche questo privilegio, è più che sufficiente l'oblio.

Fuori in 60 secondi - Gone in Sixty Seconds (2000) Fuori in 60 secondi (2000)
CinePops user

Nicolas Cage lascia la guida delle ambulanze per riportare in auge il mito del pilota spericolato che fu proprio di Steve McQueen. Sceglie così il remake di un film di serie B degli anni Settanta ( Gone in 60 seconds) di H.B.Halicki per mescolare ingredienti ormai strasfruttati da telefilm e tv-movies.. La Jolie è decorativa e nulla di più.Nicolas Cage lascia la guida delle ambulanze per riportare in auge il mito del pilota spericolato che fu proprio di Steve McQueen. Sceglie così il remake di un film di serie B degli anni Settanta ( Gone in 60 seconds) di H.B.Halicki per mescolare ingredienti ormai strasfruttati da telefilm e tv-movies.. La Jolie è decorativa e nulla di più.

La mummia - La tomba dell'Imperatore Dragone - The Mummy: Tomb of the Dragon Emperor (2008) La mummia - La tomba dell'Imperatore Dragone (2008)
CinePops user

Dopo il primo film del 1999 e il 'ritorno' del 2001 (tenendo conto anche dello spin-off Il Re Scorpione del 2002) sembrava che fossero passati ormai troppi anni perché gli O'Connell facessero ritorno sul grande schermo. Invece rieccoli qua. Rick ha cambiato moglie (Maria Bello, che ha preso il posto di Rachel Weisz nel ruolo di Evelyn) ma per contratto non se ne deve accorgere. Per il resto tutto procede come prima. Il che ha molto irritato la critica made in Usa che si è affrettata a offrire un bel pollice verso al film. Reazione che ci sembra piuttosto ingenerosa se si considera che questo terzo episodio 'mummiesco' non solo si allontana finalmente dall'Egitto (avvalendosi così delle prestazioni di importanti interpreti cinesi come Jet Li, Isabella Leong e Michelle Yeoh) ma, col cambio della guardia alla regia, che vede l'ingresso di Rob Cohen (The Fast and the Furious) il ritmo è aumentato.
Certamente per chi non ama il Luna Park cinematografico in cui si passa dall'Antica Cina all'oggi per poi volare verso l'incontro con gli Yeti finendo per scontrarsi con un drago a tre teste mentre scheletri guerreschi sono in rivolta questo non è sicuramente il film adatto. Chi vuole invece sfruttare l'ottovolante ad alta velocità degli effetti speciali con qualche inserto di autoironia può passare alla cassa, acquistare il biglietto e allacciare la cintura. Il divertimento, nella ripetitività della formula di base, è assicurato anche se adesso la saga può tranquillamente concludersi.

Nemico pubblico - Public Enemies (2009) Nemico pubblico (2009)
CinePops user

Drogato di glamour come gli sbirri in abiti firmati di Miami Vice e testimone delle grandi promesse delle metropoli (automobili, abbigliamento sfarzoso, belle donne, feste in locali di lusso), Dillinger diventa il nuovo eroe solitario di Michael Mann, nemico pubblico che come il suo autore seppe creare una tendenza.
Conforme al bel sembiante (e al bell'aspetto) di Gary Cooper e Clarke Gable, Johnny Depp incarna l'immagine più sentimentale e romantica del gangster. Segnato dall'impossibilità di toccare le persone senza ferirle, Depp è di nuovo martire sulla strada della sofferenza e delle cicatrici. La morbidezza del suo sguardo scalda la narrazione (formalmente) fredda di Mann e si allarga sul G-man di Christian Bale, sul lato opposto della legge e dell'ordine.
Se Dillinger impiega la rapina come affermazione d'identità, anche sessuale (Billie Frechette è letteralmente "rapita"), e propaga nel mondo il mito dell'invincibilità dell'outlaw hero, Purvis trasforma la caccia ai criminali in un massacro di esecuzioni e tirassegno (l'abbattimento di Baby Face). In delicato equilibrio interdipendente col gangster, l'uomo del governo è caratterizzato e motivato costantemente dalla sua presenza, facendo dell'opposizione-identificazione con Dillinger una questione interiore. Il conflitto con la società ripiega allora nel confronto personale, in cui poliziotto e criminale si sovrappongono. Dentro la densità narrativa e la struttura polifonica del Nemico pubblico di Mann si muovono due combattenti solitari angosciati dalla privazione (ormai prossima) di un ruolo.
Il regista coglie bene il senso tragico del poco tempo che i protagonisti hanno ancora da vivere per compiere il proprio destino. Nel melodramma nero e criminale dell'autore americano il motore dell'azione è la nostalgia per qualcosa che Dillinger e Purvis si sono lasciati alle spalle ma che non riescono ad abbandonare: un blackbird che canta in sala (da ballo) ma tace sotto interrogatorio, un nemico pubblico maledettamente privato e troppo in fretta abbattuto. Architetto degli spazi e creatore (cool) di mondi solidi (e storici), Michael Mann frequenta i generi e ne verifica i limiti fino alla soglia, fino a intrecciarli e a contaminarli. Il suo cinema apre allora derive che interrompono l'azione vera e propria, dirottando su Cuba o su Chicago, dentro storie d'amore perfettamente simmetriche. Gli inseguimenti, le sparatorie, le fughe, l'amore e il sesso si combinano armoniosamente, consumandosi lentamente e in maniera epocale e infilando la potenza evocativa del melodramma in un film di genere radicalmente opposto.
Nel suo Chicago Melodramma e dietro all'eroismo di Dillinger si nasconde un'anima appassionata e (a)morale che morirà come Blackie Gallagher "sulla cattiva strada".

Z la formica - Antz (1998) Z la formica (1998)
CinePops user

Il personaggio di Z è un rivoluzionario ironico e romantico che attraverso le proprie azioni riesce a cambiare un modus vivendi radicato all'interno della sua società. Il messaggio del film arriva forte e chiaro: nella vita ciò che conta è la possibilità di poter scegliere. Le voci dei personaggi nella versione originale sono di attori di un certo calibro, come: Woody Allen (Z), Sharon Stone (Bala), Gene Hackman (Mandibola), ma troviamo anche Silvester Stallone, Dan Aykroyd e Jennifer Lopez. Nella versione italiana sono stati impiegati i doppiatori originali degli attori statunitensi.
Il film è della DreamWorks di Spielberg diretto da Eric Darnell e Tim Johnson con strepitosi effetti digitali (come l'inondazione del formicaio molto realistica). La scena finale del film ci mostra la leggendaria Insettopia: un cestino dell'immondizia a Central Park. Tutto è relativo, anche i sogni.

The Giver - Il mondo di Jonas - The Giver (2014) The Giver - Il mondo di Jonas (2014)
CinePops user

Trasposizione del bestseller omonimo di Lois Lowry, The Giver è un racconto di formazione ambientato in un futuro non troppo lontano e in una società 'evoluta' che ha sconfitto passioni e violenza (almeno in apparenza), votandosi alla conformità e all'apatia. (Auto)disciplinata da regole e iniezioni mattutine, che inibiscono qualsiasi emozione, la normalizzata comunità trova in Jonas la differenza. Perché Jonas ha nostalgia di tutte le cose, anche di quelle che non ha mai avuto e che adesso, nel nuovo ruolo di accoglitore, vede e vive nell'abbraccio del donatore di Jeff Bridges. Dentro un mondo piatto, controllato, (ri)pulito, che ha perso i suoi colori e quelli delle persone che lo abitano, Jonas è iniziato alle emozioni e a un processo di crescita, che finisce per cortocircuitarlo e disapprovare la realtà esterna.
Una realtà omologata in cui l'idea di purezza è un'aberrazione della mente che non ha consapevolezza dell'omicidio, che chiama 'congedo' la pena di morte, che sopprime coi sentimenti i non validi, che porta inesorabilmente al rifiuto di ogni possibilità dialettica e sostituisce la vita vera con una proiezione pallida e un povero ripetersi di strutture replicative. Alla maniera dei suoi illustri predecessori, Gattaca e Pleasantville, del primo parafrasa il livellamento del patrimonio di biodiversità e di pluralità culturale, del secondo la forza dei sentimenti e il bianco e nero ordinato di una vita pleasant, The Giver è impegnato a riemergere il colore e con quello la diversità. Diversità incarnata dai personaggi di Jeff Bridges e Brenton Thwaites, l'inefficace principe Filippo di Maleficent, che vogliono muoversi nel mondo in direzione ostinata e contraria ai percorsi stabiliti dal Consiglio degli anziani. La violenza discriminatoria subita dai diversi denuncia il fallimento di una società impegnata a comprimere la vita e i naturali fenomeni evolutivi in regole stabilite.
L'imperfezione di cui Jonas e il 'fratellino' Gabriel sono portatori non è un dato di fatto ma un farsi col mondo fuori, meglio, con la memoria di un mondo fuori, un'iscrizione, uno spostamento che determinerà il proprio destino contro quello determinato aprioristicamente. Diretto da Phillip Noyce (Il collezionista di ossa, Salt), The Giver si rivela cinematograficamente impotente. Nonostante le buone intenzioni e l'elogio all'alterità, The Giver è al fondo un generoso pamphlet che invoca i valori della libertà, della fantasia e dell'indipendenza di giudizio paradossalmente inquinato dallo stesso inganno del conforme che denuncia. Noyce non riesce a trasformare l'immaginazione in visione, non riesce a visualizzare il futuro, brancolando in un universo visivo terribilmente simile e ammiccante al passato. Nulla di nuovo nelle nostre visioni oltre i bastioni di Orione. The Giver si limita a rubacchiare da Steven Spielberg, Andrew Niccol, Gary Ross e in un certo senso addirittura da Frank Capra, finendo per cozzare contro il limite dei corpi (gli attori), che non sanno essere diversi da quel che sono sempre stati (Meryl Streep su tutti), e contro l'evanescenza di mondi che nessuno è ancora riuscito compiutamente a raffigurare. A mancare è proprio lo scarto, la crepa prodotta da una lacrima che come in Pleasantville scavava un indecente e struggente color carne.

La gang del bosco - Over the Hedge (2006) La gang del bosco (2006)
CinePops user

Il nuovo film di animazione digitale della Dreamworks si tinge di nuovo di verde. Dopo l'orco buono Shrek è la volta di Steve, la siepe che separa il mondo naturale da quello culturale, gli eroi selvatici con coda, pelliccia e carapace dai meno intrepidi umani, la parsimonia degli animali del bosco dagli sprechi dei suburbani. Pur nella semplificazione manicheista che vuole da sempre gli animali buoni e gli umani cattivi, La gang del bosco è una spassosissima favola ecologica che denuncia l'avidità consumistica e la vocazione guerrafondaia della middle-class americana, incarnata dal temibile disinfestatore Verminator e dalla perfida Gladys Sharp, presidente dell'Associazione dei Proprietari del ridente rione Rancho Camelot, saccheggiato allegramente dalla sbrigliata gang.
Over the Hedge, questo il titolo originale, è basato sul fumetto di Michael Fry e T. Lewis. Ad animare le strisce dei due autori è la fantasia di Tim Johnson (Z, la formica), che reinventa sullo schermo avventure esilaranti per graziose creature antropomorfe e un travolgente happy end con iperbole. Non mancano poi le citazioni cinefile, una su tutte quella letteralmente urlata da Tiger, il gatto domestico persiano innamorato della bella Stella. Come il Marlon Brando di Un Tram che si chiama desiderio si porterà le zampe al capo strillando il nome della sposa in fuga. La Stella di Brando era Kim Hunter, quella di Tiger una puzzola.

Shadowhunters - Città di ossa - The Mortal Instruments: City of Bones (2013) Shadowhunters - Città di ossa (2013)
CinePops user

Primo film dedicato alla saga letteraria firmata da Cassandra Clare, Shadowhunters - Città di ossa rientra a pieno titolo in un genere narrativo, e dunque anche cinematografico, a sé: il racconto di iniziazione giovanile che è anche un "viaggio dell'eroe" all'interno di un mondo popolato da creature solo parzialmente di fantasia poiché, come si dice in Shadowhunters, "tutte le favole sono vere".
Esattamente come le fiabe (soprattutto quelle nere), Shadowhunters costituisce contemporaneamente un esorcismo delle paure giovanili e una lusinga dell'aspirazione all'onnipotenza per una generazione che, nella realtà, si sente oppressa da quelle che l'hanno preceduta. Infatti, come già nella saga di Harry Potter, anche qui gli adulti sono infidi e pronti ad abdicare alle proprie responsabilità di protezione e guida dei giovani, i quali dunque decidono di proteggersi da soli, spesso difendendosi proprio dai "grandi" preposti alla loro tutela. Shadowhunters riserva particolare attenzione all'inaffidabilità dei padri: senza scendere in dettagli, Clary scoprirà che tanto il genitore biologico quanto il patrigno nascondono parecchi segreti, e dovrà decidere se e quando dare loro credito.
Come nella saga di Twilight, anche in Shadowhunters c'è un triangolo amoroso, esacerbato da una scoperta scottante che ha a che fare con i legami famigliari di Clary: da una parte il "mondano" (cioè umano) Simon, innamorato da sempre della sua "migliore amica", dall'altra il cacciatore Jace. Come in Twilight, uno dei pretendenti tiene ancorata Clary alle sue radici, l'altro la trascina verso il suo destino.
Il parallelo con la saga di Twilight si accentua grazie al casting, che vede Lily Collins (figlia del batterista e cantante Phil) nel ruolo della "ragazza qualunque" scelta per favorire l'identificazione delle spettatrici, e Jamie Campbell Bower, reduce sia daTwilight, dove era il volturo Caius, che da Harry Potter, dove era Gellert Grindelwald, nei panni del tenebroso Jace.
Il tono è stuzzicante ma mai esplicitamente sessuale, spaventoso ma sempre attento a non sconfinare nel divieto ai minori, con un'apertura a temi che riguardano i legami di sangue assai più perturbanti della presenza di streghe e vampiri.
Le scene di azione e gli effetti speciali, in mano al regista norvegese Harald Zwarth, seguono la falsariga della recente scuola europea che abbina la fiaba all'orrore (vedi Hansel e Gretel - Cacciatori di streghe del connazionale Tommy Wirkola) mantenendosi in equilibrio fra i confini riconoscibili e rassicuranti di New York e le passeggiate sull'orlo del baratro di universi atavici e tabù primordiali.
Anche il linguaggio si colloca a metà fra narrazione fantastica e cultura pop, con continui riferimenti all'attualità e all'immaginario collettivo che stemperano la tensione e colorano di autoironia una vicenda intenta a mettere alla prova la nostra capacità di sospensione dell'incredulità.
Shadowhunters fa inoltre parte del recente filone cinematografico dedicato all'empowerment femminile, concentrato soprattutto nei settori animazione (Ribelle) e teenage movie. La creazione di nuove eroine e la rivisitazione delle fiabe classiche in chiave postfemminista (vedi la Biancaneve di Tarsem Singh con protagonista proprio Lily Collins) insegnano alle ragazzine ad avere fiducia nei propri "poteri nascosti" e a diventare protagoniste della propria esistenza, senza aspettare il principe azzurro. Peccato per l'insistenza sul triangolo amoroso che certamente gratifica il lato romantico delle spettatrici, ma rende meno radicale la traiettoria cinematografica dell'emancipazione femminile.

Zero Dark Thirty (2012) Zero Dark Thirty (2012)
CinePops user

Al di là del successo nel raccontare una storia nota con una tensione che non dà tregua, e oltre una regia di massima precisione, come un’arma intelligente guidata però da una mano umana scaldata dalla passione, c’è una considerazione banale nella sua evidenza che fa di Zero Dark Thirty un film raro e imperdibile: tanto nella ricostruzione quasi documentaristica dei metodi di lavoro dell’Intelligence, delle dinamiche maschili al suo interno, della solitudine al femminile, dell’impegno visivo, strategico e linguistico che ne sono parte integrante e che occupano per intero la prima parte del film, quanto nella grande sequenza dell’azione e nella difficile chiusura, non c’è nulla che manchi al film né nulla che sia di troppo. Non è una questione di realismo, ma una misura tutta interna all’opera, ottenuta con gli strumenti della scrittura e della messa in scena e i tempi del montaggio, che lo rende magnificamente esauriente e mai esondante.
Non si dia dunque troppo credito a chi si lascia scandalizzare dalla sequenza della tortura in apertura, perché vorrebbe dire guardare il dito là dove la Bigelow indica la luna (tanto più che la realtà delle cose, in questi casi, è plausibilmente più cruenta). Eppure la sequenza ha la sua importanza, perché posiziona il personaggio di Jessica Chastain in un punto cruciale. La Chastain è il film, proprio in virtù del suo collocamento su un fronte duro, inscalfibile, totalmente dentro il proprio lavoro (come la regista dentro il suo) ma anche profondamente femminile, efficace là dove usa altre modalità per la caccia all’uomo, che non sono la forza bruta né l’intimidazione. Sta tutto lì, nel portarci a credere al cento per cento che dietro quella piccola donna dalla carnagione chiara e dal fisico inesistente c’è un killer che arriverà al bersaglio che nessun altro ha saputo avvicinare, il successo di Kathrin Bigelow e del suo cinema solo apparentemente “maschile”.
Ciò non toglie che la regista riservi le uniche scene di palpabile umanità alla comunione maschile dei soldati prima dell’attacco, nelle bellissime sequenze dei giochi al campo o del silenzio tragicamente poetico in elicottero, ma il punto non cambia, perché Zero Dark Thirty non è una missione di pace, bensì la storia di una (magnifica) ossessione.
Che Maya – personaggio solo vagamente ispirato alla realtà ma più che altro creato ad hoc - sia il film, e non solo la sua protagonista, lo testimonia anche la sua trasformazione fisica nella scena in cui indossa il chador sopra le All Star, che ad un certo punto sposta lo scopo dell’impresa dall’esterno verso l’interno del personaggio. Non è più, allora, la sicurezza della terra madre, né lo sventare nuovi devastanti attacchi, la priorità assoluta che la muove, bensì la fedeltà cieca a un obiettivo folle, come nella miglior letteratura cinematografica. Perché trovare Osama, per Maya, vuol dire prima di tutto trovare se stessa.

Barry Seal - Una storia americana - American Made (2017) Barry Seal - Una storia americana (2017)
CinePops user

Confezionato con filologica cura per gli anni Ottanta (è vera la storia del pilota Seal che, tra un contrabbando e l’altro, finisce nell’affare Iran-Contras arrivando all’apice per poi cadere rovinosamente) il film fatica a coinvolgere forse a causa della sua struttura troppo spezzettata. Malgrado (o forse per colpa) la struttura scorsesiana con il protagonista che racconta in voice over, il lavoro resta così al disotto della media per la coppia Liman/Cruise.

Barry Seal - Una storia americana - American Made (2017) Barry Seal - Una storia americana (2017)
CinePops user

Il lavoro di Cruise negli ultimi anni, ricco di autoironia e consapevolezza del proprio ruolo, è da non sottovalutare e, in questo senso, Barry Seal rappresenta un interessante upgrade. Il suo Maverick agé, dal sorriso piacione che permane mentre gli anni passano, si sposa perfettamente con la figura ambigua di un pilota coinvolto nei peggiori intrighi, ma a cui sembra impossibile voler male. È essenzialmente lui a elevare un lavoro gravato dai troppi scorsesismi e dalla fotografia di César Charlone, pregevole tecnicamente quanto pedissequa stilisticamente, vista l'insistenza nell'abuso di gialli e colori squillanti, ormai inevitabili per accompagnare una ricostruzione 70s. Per il discorso sui media - il flashback è ricostruito in base alle testimonianze lasciate su VHS da Barry stesso - gli esiti non sono forse all'altezza delle intenzioni di Liman, ma Barry Seal resta un esempio di ricostruzione a cuor leggero su una pagina di grave vulnus alla democrazia americana, che sa evitare le classiche trappole del biopic made in USA.

Equilibrium (2002) Equilibrium (2002)
CinePops user

Che già il soggetto sia fiacco, lo si intuisce anche senza vedere il film: una sorta di macedonia tra Fahreneit 451, Orwell e le teorie di Huxley, per giunta senza troppa fantasia. Ma la visione è sconvolgente: unendo senza pudore gli stilemi del thriller con i peggiori B-movies di arti marziali, il regista Wimmer confeziona un polpettone senza costrutto che risulta essere un capolavoro di nullità estetica e formale. Del tutto irrealistico nello svolgersi della vicenda, con dialoghi oltre la comicità involontaria ("Devi uccidere il Padre", dice il capo dei rivoluzionari al funzionario ribelle, e già immaginiamo Freud rivoltarsi nella tomba), il film non è neppure scalfito dall'interpretazione, comunque intensa, di Emily Watson, e dall'inespressività truce di Christian Bale.

I guardiani del destino - The Adjustment Bureau (2011) I guardiani del destino (2011)
CinePops user

Frutto (probabilmente) di un acido ben fatto, Philip K. Dick vide dentro una primavera degli anni Settanta il Programmatore programmare le nostre vite sulla terra. Quell'esperienza diretta di 'estasi' gli rivelò 'la verità', ossia che gli uomini sono lo strumento per mezzo del quale si compie il disegno del Gran Burattinaio. Da un'altra esperienza, questa volta di creazione letteraria e in ogni caso allineata con quella mistica, nasce invece I guardiani del destino, racconto breve dell'autore americano trasposto sullo schermo da George Nolfi. Thriller sentimentale, I guardiani del destino combina momenti forti, tesi all'emozione adrenalinica, con sequenze chiuse in se stesse alla ricerca della commozione e della realizzazione di un amore splendido. Mentre Matt Damon combatte l'oscuro antagonista che lo spinge a battere un percorso voluto, il film solleva le ossessioni di Dick sulla necessità di distinguere la realtà oggettiva da quella soggettiva, sull'idea del complotto come trama ordita ai danni dell'individuo, sulla sorveglianza ossessiva esercitata dagli apparati di potere. Il titolo originale (The Adjustment Bureau) anticipa di fatto il passo che conduce il film, l'accomodatura verso l'esito desiderato per il protagonista da una presenza o 'presidenza' superiore. L'entità ha un braccio di agenti armati di Borsalino che controllano scrupolosi che gli uomini si muovano lungo linee prestabilite senza compromettere l'esito finale, senza scrutare dietro la porta di un futuro prossimo. Ma David Norris non vuole prendere parte all'evento programmato, procedendo in direzione ostinata e contraria.
I guardiani del destino è l'ennesimo adattamento dickiano che prova a leggere la contemporaneità con uno sguardo che dalle sue pagine mutua i temi fondamentali (la crisi del soggetto, la sostanziale falsità delle nostre percezioni, la compresenza di realtà parallele, etc) mancandone l'anima diversamente da opere altre, influenzate dal suo mondo letterario senza esserne trasposizioni dirette (Memento, Se mi lasci ti cancello, eXistenZ). Senza avere meriti di innovazione estetica, nondimeno il thriller romantico di Nolfi (sceneggiatore di The Bourne Ultimatum) trova il suo punto di forza nel protagonista. Così I guardiani del destino è uno di quei film che vale la pena vedere solo perché. Solo perché c'è Matt Damon, stanato da Eastwood che gli ha tolto la maschera (Hereafter) e recuperato l'identità. Rimanendo fedele al concetto che il personaggio è azione e stringendo la mano della donna che ama, Matt Damon attraversa le porte di una New York 'liquida' e segna il punto di passaggio: da attore del fare ad attore dell'essere. Così Nolfi svelando la matrice, svela il divo. Un divo bravo. Bravo sul serio.

Moulin Rouge! (2001) Moulin Rouge! (2001)
CinePops user

Luhrmann (ricordate Ballroom e Romeo + Juliet?) continua nel proprio percorso di originale contaminazione di generi. Questa volta fagocita un plot "tipo Traviata" e lo immerge in una scenografia iperartefatta e kitch. Ma fa di più: gioca con l'abilità (e le voci) della Kidman e di McGregor per mescolare stili e generi musicali. Accade così che Satine entri in scena dall'alto cantando Diamonds are a girl's best friends (Marilyn Monroe) per interpolarlo con Material Girl (Madonna). Che Ewan intoni più volte My Song di Elton John e che poi ci sia dato di ascoltare canzoni dei Queen, di Sting, Paul McCartney. Il tutto senza perdere di qualità e di attrattività e senza mai far diventare il gioco sterile.

Profumo - Storia di un assassino - Perfume: The Story of a Murderer (2006) Profumo - Storia di un assassino (2006)
CinePops user

Sottoforma di Kolossal europeo, Tom Tykwer, seguendo il romanzo di Süskind del 1985, immagina gli odori, i profumi con i frammenti di immagini, seguendo ciò che dice Baldini, "Ogni profumo racchiude tre accordi. L'accordo di testa, di cuore e infine di base". Ogni volta che Jean-Baptiste annusa, odora, le sequenze si frammentano, fin dal momento della sua nascita. Il regista costruisce una visione di un mondo settecentesco, putrido e illibato, nauseante e profumato, senza tuttavia farci mai provare l'esperienza di annusare. I liquidi, i corpi, la pelle sono il modo in cui "Il profumo" si manifesta, e nello scorrere i 147 minuti di durata, alcuni tempi morti, anche per gli amanti del romanzo, risultano pesanti e infiniti, ma il finale illumina e l'orgia universale condita dalla colonna sonora sinfonica è una fotografia meravigliosa, sublime di cosa l'amore possa arrivare a rappresentare. L'imperfezione è dell'uomo, la violenza è del mondo. L'amore, invece, appartiene a ognuno di noi, che lo vive a modo proprio, anche quando il male prende il sopravvento.

Deepwater - Inferno sull'Oceano - Deepwater Horizon (2016) Deepwater - Inferno sull'Oceano (2016)
CinePops user

Il risultato è un disaster movie avvincente e intelligente, che ha saputo indovinare la giusta dimensione, un equilibrio riuscito tra dramma umano e componente spettacolare, e nel quale non c'è spazio per la vaghezza tecnica e logistica che in molti blockbuster funziona da alibi e da riempitivo.
Oggettivando il pericolo sempre in agguato su questo genere di impianti in una serie di piccoli contrattempi che si rivestono così, automaticamente, della suspence del presentimento, e presentando la forza d'animo dei personaggi che lavorano sulla piattaforma come una verosimile qualità di partenza, quasi una dote, che si portano dietro per necessità oltre che per virtù, Berg prepara con cura il terreno per l'esplodere dell'imprevisto come una catastrofe annunciata ma anche come un campo di guerra, dove regna il cameratismo e un senso di condivisione della sorte.
Deepwater non racconta, perciò, la vicenda di un uomo ordinario - Mike Williams, capo tecnico elettronico della Transocean - alle prese con una situazione straordinaria, o lo fa solo in apparenza, mentre racconta in realtà di un uomo e di un gruppo di persone dal coraggio quotidianamente straordinario, tali da meritare che le loro gesta riempiano un film e che tale film non sia frutto di un romanzo di fantasia sfrenata e catastrofica ma di una serie di dettagliate interviste ai protagonisti e contenga perciò una dimensione di realismo che si fa apprezzare.
Un buon disaster movie, dunque, che poggia su basi tragicamente reali, che non sbandiera istanze generiche né gronda retorica (eccezion fatta per il finalissimo, più a rischio in questo senso). E anche un film sulla responsabilità e le sue due facce: quella penale, di chi ha preso rischiose scorciatoie in nome del profitto, e quella morale, di chi, invece, non si è affrettato ad abbandonare gli altri alla comoda speranza di un colpo di fortuna.

La bussola d'oro - The Golden Compass (2007) La bussola d'oro (2007)
CinePops user

Il romanzo di Philip Pullman (il primo di una trilogia), è una favola adulta, psicologica, molto differente dagli Harry Potter della Rowling, e per questo motivo più complessa anche da trasferire sullo schermo. L'inizio del film è potteriano, non si parla di maghetti, ma di certo di un istituto dove vengono educati ragazzi che sembrano avere qualcosa di speciale. Poi viene introdotto il concetto di daimon, come scritto in precedenza una rappresentazione dell'anima umana che nei bambini non è stabilizzata e cambia continuamente di forma, che nel libro ha una sua reale complessità, e che nel film invece si dispiega in pochi minuti. Il Daimon è la chiave di tutta la storia, e forse come tale, avrebbe dovuto essere più approfondito.
Passando alla messa in scena del film, dopo il prologo necessario a introdurre situazioni e personaggi, il regista si impegna principalmente nell'impiego degli effetti speciali, tralasciando in parte l'approfondimento dei personaggi, che comunque colorano la storia e le danno vita. Più della protagonista Lyra, rimangono negli occhi l'orso polare Lorek Byrnison (che ricorda tanto Falkor, il cane volante della La storia infinita), la bella e malefica Mrs. Coulter interpretata da una Nicole Kidman dagli occhi glaciali e dalla pelle botulinica, e da Lee Scoresby, una sorta di Capitano Achab dalle sembianze di Buffalo Bill. Infatti la forza e la debolezza de La bussola d'oro è la commistione di elementi derivati da mille altre storie fantastiche, e il bello è forse anche scoprirle.
Il film, anche se freddo a tratti, riesce a coinvolgere per i dettagli e per i mille personaggi messi in scena, che dimostrano che se non sempre è facile inventare qualcosa di nuovo, è la nostra fantasia a farlo. Per noi.

La storia fantastica - The Princess Bride (1987) La storia fantastica (1987)
CinePops user

Favola arcinota, ma raccontata con garbo, impeto e ironia da Reiner che s'è servito di ottimi caratteristi e di una bella pattuglia di stuntmen che gli hanno offerto mirabolanti scene d'azione.

L'era glaciale - In rotta di collisione - Ice Age: Collision Course (2016) L'era glaciale - In rotta di collisione (2016)
CinePops user

Quinto appuntamento di una saga interminabile che si ripete senza rinnovarsi mai, se non allargando la famiglia e il bestiario, L’era glaciale: in rotta di collisione trova di nuovo in Scrat la sua ragione di essere, l’interludio ostinato di una saga che procede ormai per accumulazione e non per variazione. Dal primo episodio nel 2002 una folla brulicante di sidekicks comici, antagonisti variopinti, fidanzate imbellettate e marmocchi queruli si è raccolta intorno al trio originale. Ed è proprio su questa moltitudine che il prestigioso studio ha puntato tutto. Così al cuore di questa nuova avventura c’è la figlia di Manny, (in)decisa a lasciare mamma e papà per lanciarsi nella vita a due con un mammut rapper e naïve.
A dispetto della mole, l’argomento è esile, trito e gremito da un nugolo chiassoso di bestioline secondarie che colma la povertà creativa con vecchie gag. Che a scompigliare le fila giurassiche arrivi un asteroide, un’era glaciale o un T. Rex, gli autori della Blue Sky hanno dato fondo alle idee ‘disegnando’ il medesimo ritornello ad libitum. Nondimeno, se effetto sorpresa e originalità difettano, il valore resiste negli occhi strabuzzati di Scrat in cui si riflettono le galassie e una singolare cosmogonia. E se il Big Bang fosse stato uno scoppio di risa e l’idea di dio l’incontro mancato tra uno scoiattolo e una ghianda? L’era glaciale: in rotta di collisione canta allora l’epopea di Scrat da qualche parte nell’universo profondo. Responsabile, totalmente irresponsabile, è la causa di tutto quello che affligge l’era preistorica, è il personaggio secondario assoluto o il destino stesso le cui azioni determinano le re-azioni degli eroi, impegnati daccapo a salvare il mondo. A metà tra la caricatura e l’allegoria, la creatura di Peter de Sève dissimula dietro l’ostinazione assurda lo sforzo permanente di continuare.
Il corto che precede il film (Cosmic Scrat-tastrophe) rivela allora la grandezza metafisica di Scrat. Figura della perseveranza, e perseverare è impegnarsi a esistere malgrado tutto, ci insegna a trasformare i nostri limiti in nuovi orizzonti. In fondo la perseveranza è all’origine del mondo, di Scrat e di ogni desiderio impossibile.

Contrattempo - The Invisible Guest (2017) Contrattempo (2017)
CinePops user

Piccolo gioiellino, ben strutturato, non cala mai di tensione. Thriller consigliato

Exodus - Dei e Re - Exodus: Gods and Kings (2014) Exodus - Dei e Re (2014)
CinePops user

Testo di riferimento per il genere mitologico e testamento spirituale e stilistico di Cecil. B. DeMille, I dieci comandamenti è (solo) il punto di partenza di Exodus - Dei e Re, il nuovo e personale blockbuster di Ridley Scott. Ritratto singolare di Mosè, eletto e guerriero, Exodus - Dei e Re prima che di uomini parla di corpi in azione, macchine di morte e di spettacolo. Nell'arena di un circo come alla corte egiziana si dispiega il ludus di un sovrano e di uno schiavo a vantaggio di una folla di (in)fedeli, perché il film di Scott fa della religione un grande show, spalancando col Mar Rosso uno spazio alla sua critica. Analisi che sedurrà gli scettici ma non dispiacerà troppo ai devoti, attirati dal fondo etico su cui affogheranno i politeisti.
Dopo l'annuvolato fervore del Noah di Darren Aronofsky, è la volta di Ridley Scott di mettere mano e sguardo all'Antico Testamento col Libro dell'Esodo, che racconta la schiavitù e la fuga degli ebrei dall'Egitto per intervento di dio e per mano di Mosè. Come fu per Il gladiatore, anche questa volta la Storia c'entra poco e al centro c'è di nuovo la necessità di raccontare due antagonisti: Ramses, figlio di dèi minori affetto da egocentrismo patologico e complesso di inferiorità proprio come Commodo (Ramses pronuncia le stesse battute di Commodo davanti al figlio addormentato), e Mosè, ex-generale divenuto schiavo ribelle alla maniera di Massimo Decimo Meridio. Di nuovo, ancora, il desiderio del primo di diventare il divo dello spettacolo e la condanna del secondo ad essere oggetto scopico passivo, che naturalmente rivendicherà il diritto a ritornare soggetto, questa volta addirittura con l'intervento di dio. Un dio-bambino capriccioso e vendicativo, frutto di un trauma alla testa e del delirio derivante. Un dio messo in discussione da uno scienziato egiziano, che razionalizza per il faraone le dieci piaghe, e da un testimone che osserva Mosè parlare da solo quando si crede al cospetto di dio.
E 'creativo' e incorreggibile come il dio del Vecchio Testamento, Ridley Scott produce macchine teatrali piene di trucchi e di sorprese, di battaglie, di combattimenti di uno contro l'altro, di tutti contro tutti, di caccia con le bighe, di coccodrilli feroci e di locuste voraci, di fiumi di sangue e di ulcere che sanguinano, di cavalli che galoppano e di cavalli che si impennano, di fiamme e di cenere, di babelici brusii e di fendenti metallici, di demiurghi che usano lo spettacolo e di burattini sulla scena dello spettacolo. Perché Ridley Scott, stregone bianco della rappresentazione, sa bene che il potere si nutre prima di tutto di visioni.
E in tempi 'sensibili', l'autore britannico approccia con prudenza le questioni religiose e mette in guardia dagli integralismi della fede, realizzando un film che ha l'anima commerciale ma la testa vigile, che si guarda dalla polemica accesa, che conduce il discorso biblico con 'spirito' e dona finalmente a Mosè le ombre di un 'giustiziere' tormentato, un supereroe oscuro che nessuno poteva incarnare meglio di Christian Bale. Non un peplum ma un fantasy, un'allegoria, una science fiction del passato, più realistico certo della superproduzione biblica di DeMille ma impossibile da leggere secondo criteri realistici.

A Christmas Carol (2009) A Christmas Carol (2009)
CinePops user

Di "Canto di Natale" di Dickens il cinema si è impossessato sin dal 1914 e non ha smesso di occuparsene nel corso dei decenni a venire coinvolgendovi Paperone e soci, Bill Murray nei panni di un magnate televisivo e perfino i Muppets. Poteva mancare il 3D? Ovviamente no. Poteva Zemeckis, sperimentatore delle potenzialità del cinema da sempre, non tentare l'impresa? La risposta è ancora no. Al suo fianco trova il talento sempre più affinato e 'natalizio' (è stato Il Grinch ricordate?) di Jim Carrey che è pronto a quadruplicarsi (Scrooge e i tre spiriti) per questa storia 'morale' che resta valida oggi così come nel 1843.
Utilizzando il Performance capture (una tecnologia che permette di riprendere gli attori con cineprese computerizzate che spaziano a 360° gradi per poi trasformarli in personaggi da animazione) Zemeckis avrebbe potuto prendersi tutte le libertà. Invece si è attenuto con grande fedeltà al testo quasi che, appunto, vi riscontrasse una grande attualità che non abbisognava di adattamenti. Gli Scrooge non mancano nel mondo odierno (anche se magari vanno in palestra e sono eternamente abbronzati) e avrebbero anch'essi bisogno di uno sguardo retrospettivo unito a uno verso il futuro destinati a far loro percepire la fragilità dell'esistenza umana.
Zemeckis coglie il profondo senso morale dell'opera di Dickens e non ne attenua i toni. Ne nasce quindi un film non adatto ai più piccoli (le scene con Marley e con lo Spirito dei Natali Futuri sono degne di un horror di classe, per di più in tre dimensioni). E' però capace di far riflettere con efficacia non tanto su una visione edulcorata del Natale quanto piuttosto sul senso che la vita di ognuno (credente o non credente che sia, considerata la non leggera considerazione sugli uomini di chiesa pronunciata dal quasi mitologico Spirito del Natale Presente) può assumere su questa terra. Il 3D con le sue magie lo aiuta nell'impresa offrendogli una dimensione che si colloca costantemente sul confine tra l'immaginario e il 'reale' con grande effetto.

Spirit - Cavallo selvaggio - Spirit: Stallion of the Cimarron (2002) Spirit - Cavallo selvaggio (2002)
CinePops user

Nuovo lungometraggio animato della Dreamworks e dei creatori di Shrek, meritato successo planetario. Bastano poche sequenze per capire che Spirit non ha molto a che vedere con Shrek. Prima di tutto è realizzato con le tecniche tradizionali del cartone animato e lo si nota subito nella morbidezza dei tratti e nel movimento fluido dei personaggi. Poi non è così sopra le righe come il fortunato Shrek, ma è stato pensato come un prodotto per famiglie: è più conformista, politicamente corretto nel suo apologo ecologico. Per di più il protagonista, lo stallone Spirit, è un personaggio completamente antropomorfizzato nel modo di sentire e di agire. Lo schema è manicheo: il bene da una parte, il male dall'altro; la civiltà e la natura, l'odio e l'amore. È una sfida a Disney con un contenuto disneyano 100%. La storia è semplicissima. L'animale, nato libero e selvaggio nelle praterie erbose del West, viene condotto in cattività in un fortino di bianchi che compiono le peggiori nefandezze nei confronti dei pellerossa e della natura che li circonda. Il giovane Lakota Little Creek lo libera e lo conduce in un villaggio indiano dove l'animale incontra l'amore e ritrova il suo stato primordiale.

La vita di Adele: Capitoli 1 & 2 - Blue Is the Warmest Color (2013) La vita di Adele: Capitoli 1 & 2 (2013)
CinePops user

Ancora una volta Abdellatif Kechiche guarda a Pierre de Marivaux, maître dei sentimenti nella società francese del diciottesimo secolo, spiando il cuore della 'petites gens' dove si nasconde l'amore. L'amore che il suo cinema come la letteratura dello scrittore fa uscire allo scoperto, segnato da un movimento della parola e da una naturalezza di espressione che incanta. Sul romanzo "La Vie de Marianne" apre La vie d'Adèle, storia d'amore e di formazione di un'adolescente che concede alla macchina da presa ogni dettaglio e ogni sfumatura di sé. Eludendo il compiacimento dell'esibizione, il regista tunisino racconta una stagione d'amore dolorosa e irripetibile, senza psicologismi e con una carnalità priva di morbosità. Al centro del film due giovani donne che leggono la realtà con gli occhi del desiderio, il loro, che esplode sullo schermo accordando i capitoli della loro esistenza. L'abilità dell'autore a dirigere gli attori, già osservata nei lavori precedenti (La schivata, Cous cous, Venere Nera), produce periodi di pura bellezza come in occasione della lunghissima scena dell'amplesso, delle cene di presentazione e delle letture scolastiche. Con un movimento dall'esterno verso l'interno, Kechiche realizza un film che quanto più si distende nel tempo (quello diegetico e quello effettuale), tanto più si stringe nello spazio di una camera, di un'aula, di una cucina, placandosi nel ritmo e dentro un'appassionata ricerca di interiorità. La galleria di reincarnazioni dell'eterno femminino dopo la danzatrice del ventre di Cous cous e la 'schiava assoluta' di Venere Nera si arricchisce di un'altra figura, questa volta divorata dall'eros, spregiudicata, libera e bellissima. Adèle Exarchopoulos è l'Adèle del titolo, colta nell'incandescenza di un sentimento fervidissimo e totalizzante per Emma e congedata con una raggiunta consapevolezza. Dentro un abito blu, 'preso in prestito' dalla bande dessinée di Julie Maroh ("Le Bleu est une couleur chaude"), la protagonista comprenderà di poter sopravvivere agli amori che non possiamo trattenere, preferendo le lacrime (tante lacrime) e lo struggente languore all'innaturale rimozione. E la bellezza di La vita di Adele nasce proprio nei momenti di frattura, chiavi per aprire il futuro alla protagonista rimasta sola col suo sentimento infelice. Come nei romanzi, tutti francesi, che divora da studentessa e poi da insegnante, Adèle si cerca nel fondo del proprio amore, sopportando una solitudine che ha imparato a curare. Alla maniera di Antoine Doinel, la protagonista di Kechiche è iniziata alla vita adulta nel tempo di due capitoli, che la formano e la rimandano a una nuova avventura esistenziale, dopo averne determinato il sé sociale ed emotivo con tenace aspirazione. 'Ricomposto' il corpo freak di Saartjie Baartman, su cui si fissava il potenziale oppressivo dello sguardo, il regista 'assedia' quello vitalistico di Adèle, a cui corrisponde quello impressionista e languido di Léa Seydoux, magnifica ossessione che la introduce alla 'belle arti', all'arte amatoria e alla celebrazione dell'energia del corpo.

La passione di Cristo - The Passion of the Christ (2004) La passione di Cristo (2004)
CinePops user

Film impossibile da recensire, in chiave “normale”. Perché non si può non partire da due pregiudizi, quello del credente o quello del non credente. Critici e commentatori normalmente equidistanti e distaccati, molto accreditati, non hanno resistito al sentimento, al coinvolgimento, sì, al pregiudizio. La Passione è stato definito pulp, horror, e via dicendo. Vanno rilevati, prima di tutto, l’attesa e il marketing. In tutta la storia del cinema mai un film ha generato tanta attesa, da Via col vento a Ben Hur, da Otto e mezzo a Schindler’s List. Un’attesa certamente buona e benemerita, al di là di tutto. Lo si deve a Gesù, personaggio eccezionale, magari divino. Guardato al microscopio della filologia, dei vangeli, della Storia eccetera il film presenta… solo errori: il linguaggio, le omissioni, questi troppo cattivi, quelli troppo buoni, l’eccesso di violenza, i pesi del racconto, la parte di croce orizzontale, la croce intera, i buchi prefabbricati, l’invenzione del diavolo. Trattasi di un vero manifesto di tutte le licenze che può permettersi il cinema. E non vale neppure la (più o meno grande) consapevolezza di Gibson, che è comunque autore tenace e capillare e certamente ha molto ragionato su ciò che doveva fare. Il film va dunque inteso come eccesso di cinema e magari di licenze, e come iperbole generale. Col paradosso degli opposti: troppa filologia di linguaggio - aramaico e latino - troppa semplicità e sproporzione di caratteri - le facce da bestie dei torturatori, di Barabba, la crudeltà di Caifa eccetera -, 90 minuti di torture, 2 minuti di resurrezione. E poi quel simbolo grottesco del tavolino costruito dal falegname Gesù, di perfetto design, che mette in difficoltà anche la Madonna. Dunque iperbole e eccesso di espressione. Però, rispetto all’iconografia tradizionale certamente Caviezel si avvicina molto a quell’immagine. La scena iniziale nel Getsemani, la sagoma di Gesù, il buio, gli ulivi neri, la paura del destino che si compirà, davvero commuove. Chi crede è tenuto a ritenere che quella rappresentazione sia vicina alla verità. Così come cerca di essere verità il linguaggio, l’aramaico e il latino tradotti dai sottotitoli. E i sottotitoli sono, questa volta, una mediazione particolare, sono la metafora di sé stessi. Certo, è sentimento, è suggestione. Non è fede, che deve giungere da altri luoghi, non dalla corteccia, ma dalla profondità cerebrale. E poi il cinema, si sa, non ha lo stomaco per i grandi pronunciamenti. Puoi entrare in sala dubbioso ed uscire credente, magari per un’ora, o per un giorno. Nessuno si convertirà assistendo alla Passione, perché il cinema non converte nessuno. Il film potrà essere acquisito come moda o suggestione però il primo risultato c’è stato, quello dell’attesa, dell’evento e, appunto, del promemoria. La violenza, la sofferenza, il sangue, iperrealisti, esasperati, ne sono il valore aggiunto. In venti secoli di tradizione, di memorie, di omelie reiterate, forse l’istantanea della sofferenza di Gesù è diventata abitudine, è stata dimenticata e azzerata. Gibson ce la ripropone con un supplemento di shock. Un promemoria che può servire. In questo momento storico, dove la nostra cultura occidentale, e la nostra religione, sono taciturne, sconcertate e aggredite, è bene ricordare che anche dalle nostre parti c’è una mistica forte e c’è la fede, se vuoi interessarti a lei.

Casper (1995) Casper (1995)
CinePops user

Spielberg sovrintende a un'operazione che sarebbe stata interessante se non soffrisse di ipertrofia. C'è troppo di tutto. Effetti speciali distribuiti a iosa, citazioni cinefile (imperdibili Dan Aykroyd e Clint Eastwood), rimandi disneyani. In tutto questo sovrapporsi di gioco e, talvolta, di farsa, il tema della crescita e della solitudine adolescenziale rischia di perdersi o, quanto meno, di risolversi in una piccola dose di commozione a buon mercato. Forse, come Casper, bisognava sapere scegliere.

The Post (2017) The Post (2017)
CinePops user

Girato d'urgenza per non perdere niente della sua risonanza, The Post non racconta un'epoca passata ma una storia che si ripete. Per realizzarlo Steven Spielberg ha interrotto un progetto in corso (The Kidnapping of Edgardo Mortara) e ha lavorato nelle medesime condizioni dei suoi protagonisti. L'energia è quella di un reportage di guerra ma la regia agisce negli interni delle redazioni o di lussuose dimore, creando opposizioni, spazi chiusi, linee di fuga. Film indifferibile, traboccante di impeto e fervore, The Post è prossimo a Lincoln.
Lo è nel fondo e nei meccanismi, lo è nello slittamento dalla potenza delle immagini a quella della parola, lo è nell'interessamento alla procedura, ai caratteri umani pieni di intelligenza strategica, alla forza dei sentimenti, all'eroismo del cuore, alla comunione di un gruppo di persone, sovente in un ufficio, qualche volta su campo a operare in maniera 'illegale' nonostante l'istituzione che incarnano. Se nel 1865 era necessario acquisire abbastanza voti per far passare il Tredicesimo Emendamento, nel 1971 è indispensabile mettere le mani sui fascicoli confidenziali della Difesa per denunciarli sulle pagine del giornale. Allo stesso modo per Spielberg è importante realizzare il suo film prontamente per 'trattare' la perdita di controllo di un altro capo di stato e la condizione della donna. E il film aderisce all'impellenza del suo intrigo manifestando la sua urgenza (anche) nella forma e ribadendo in filigrana uno dei grandi temi della sua filmografia, la comunicazione. Quella che nasce dall'incontro tra un bambino e un alieno, tra un israeliano e un palestinese, quella che passa per lo storytelling o gli aneddoti di Lincoln

Io & Marley - Marley & Me (2008) Io & Marley (2008)
CinePops user

Ce la farà il biondo Labrador Marley a spodestare il longevo Collie Lassie, nato dai ricordi di infanzia dello scrittore Eric Knight e reso popolare dal cinema? Se Lassie era disciplinato, in costante movimento e sempre (troppo) lontano dai suoi padroncini, Marley è indisciplinato, irrimediabilmente stanziale e per tutta la vita incollato ai coniugi Grogan. Entrambi però condividono lo spirito di abnegazione, desiderano ardentemente stare insieme ai loro padroni e "riuniscono" e risolvono la famiglia. Lontano dalla "bestia" che incarna sullo schermo l'alterità assoluta e la minaccia (King Kong) o ancora dagli animali antropomorfi di Walt Disney, Marley è un cane in carne ed ossa che non si limita alla comparsata ma diventa protagonista e titolare di una commedia incentrata su di lui e a cui si affianca, nel titolo e sullo schermo, la performance misurata di Owen Wilson. Prodotto di un addestramento straordinario e non di effetti specialissimi, Marley è il figlio "bestiale" di una giovane coppia che vuole sperimentare la genitorialità in anticipo sui pannolini, le coliche e le notti bianche.
Io & Marley è a tutti gli effetti (e gli affetti) una commedia familiare che apre come splendente e innevato romance (lui, lei e la complicazione di turno) senza note stonate e procede con un letto raffreddato da tre gravidanze, un lavoro che non è mai quello aspirato e una casa che non è mai abbastanza capace. Meno male che c'è Marley "di guardia". Un colpo di zampa travolge il travolgibile, azzera i problemi e "riacciuffa" i Grogan a un passo dal precipizio e dalla rottura. Owen Wilson e Jennifer Aniston resistono con ironia e moderazione alla concorrenza "bestiale" di Marley, strumento comico cui il film di David Frankel (Il diavolo veste Prada) si affida completamente, con i suoi clichè di mobili mordicchiati, di cuscini spiumati, di posteriori addentati, di corpi spompati (dalle rincorse) o investiti, trascinati e abbattuti dall'incontenibile eccitazione della "bestia". Indeciso sulla direzione da prendere (risate grasse o lacrime copiose) e deciso a rimandare all'infinito l'happy ending malinconico, Io & Marley espone un senso di contemporanea precarietà e introduce al contempo un elemento peloso di stabilità. Il miglior amico dell'uomo è destinato suo malgrado a rubare ogni scena in cui appare e a "sorreggere" i casqué della coppia scoppiata.

Amabili resti - The Lovely Bones (2009) Amabili resti (2009)
CinePops user

In una delle prime scene di Amabili resti, quelle in cui racconta i suoi ultimi giorni in vita, Susie riceve per il suo quattordicesimo compleanno una macchina fotografica compatta e venticinque rullini di pellicola 110 che esaurisce nel giro di pochi giorni. Di fronte ai genitori, che le rimproverano di aver sprecato tutte le fotografie disponibili, la giovane adolescente si giustifica dicendo "in questa famiglia, la creatività è vista come un ostacolo". Le stesse parole con le quali potrebbe difendersi Peter Jackson dalle accuse di chi gli rinfaccia di aver perso la sintetica fluidità dei primi film in favore di un cinema espanso nella durata e nella sovrabbondanza di piste narrative. Ma appellarsi al principio di creatività per legittimare il progressivo allontanamento da quell'inventiva artigianale e anarchica con cui un tempo si crogiolava nel trash più arguto (Bad Taste, Splatters) o in raffinate biografie immaginifiche o immaginate (Creature del cielo, Forgotten Silver), non sempre regge.
Il signore degli anelli aveva richiesto ben tre film e dieci ore di pellicola, giustificabili nell'approccio filologico alla materia del romanzo tripartito di Tolkien. La sua versione di King Kong conteneva praticamente tre diversi film in un unico corpo (la Grande depressione, l'avventura a Skull Island, l'arrivo della Bestia a New York).
Con Amabili resti, Jackson decide di ricostruire linearmente il flusso di coscienza atemporale dell'io narrante del romanzo di Alice Sebold, per poi scomporlo in numerosi percorsi, in soggetti diversi e in una narrazione episodica, frammentata. Ad ognuno dei personaggi spetta una personale scena chiave, un momento di gloria diegetica (la caduta nella depressione e nella paranoia del padre Mark Wahlberg, la fuga spirituale della madre Rachel Weisz, i siparietti comici della nonna degenere Susan Sarandon, la metempsicosi in stile Ghost dei due compagni di scuola), senza tuttavia mai raggiunge un livello di profondità psicologica o emotiva tale da giustificarne la presenza. Questa dispersione della focalizzazione, per di più, toglie spazio alla dimensione interna della protagonista e alla costruzione di un senso che riguarda il percorso collettivo di formazione, l'elaborazione e l'accettazione sia personale che familiare del lutto. Alla sventurata Susie tocca invece attraversare tutti i cliché della cultura new age sull'universo post-mortem, dal paesaggio edenico dai colori ipersaturi fino alle più triviali figurazioni dei desideri e dei simboli psicanalitici, passando per l'abusata versione dream pop di Song to the Siren dei Cocteau Twins.
Vittima della serializzazione cinematografica da lui stesso inaugurata, Peter Jackson risveglia attenzione e emozioni solo in presenza di Stanley Tucci, (stra)ordinario psycho killer di provincia dalla frenesia assassina tenuta nascosta sotto ad un parrucchino biondo, due occhi glaciali e una mascella allargata. Nel costruire la presenza del signor Harvey, anche la regia di Jackson trae nuovo istinto e ispirazione, aggiornando Hitchcock ai tempi delle nuove microcamere digitali e regalando gli amabili resti di un film fatto a pezzi, che vive di molte sensazioni ma di scarsa sensibilità.

Robin Hood (2010) Robin Hood (2010)
CinePops user

Dopo il generale Massimo Decimo Meridio, divenuto poi stella dell'arena, Ridley Scott mette in scena un altro eroe guerriero di impeccabile fattura, interpretato dal volto e dalla fisicità gladiatoria di Russell Crowe. Meno epico e rutilante del Gladiatore, Robin Hood, storia di un esperto arciere a un passo da Sherwood e dalla leggenda, esaudisce comunque l'evasione nel passato e l'identificazione con un personaggio verticalmente positivo. Spade sferraglianti, fendenti metallici, lame nella carne, frecce di fuoco nel cielo, sangue a fiotti, corpi fatti a pezzi, la contea di Nottingham mutua il Colosseo e diventa una formidabile macchina teatrale piena di trucchi e sorprese, meraviglie e attrazioni, rivelando al suo centro un fuorilegge impenitente, fedele a un codice antico e alla "bucolica" Marion di Cate Blanchett.
Archiviato (ma mai scordato) l'eroe in bianco e nero di Douglas Fairbanks, quello a colori di Errol Flynn, quello animato e antropomorfo della Disney, quello in calzamaglia di Mel Brooks, quello crepuscolare di Sean Connery e ancora quello in fuga dai mori e da uno sceriffo incapace di Kevin Costner, Ridley Scott rilegge la leggenda popolare inglese e impone un eroe generoso e libertario che trova la sua forza, la sua differenza e la sua specialità nell'interpretazione di Russell Crowe.
È lui ad aggiungere l'oro e a diffondere sul film la lucentezza di un metallo più fatale dell'acciaio. Che impugni una spada o brandisca un'ascia di guerra, che imbracci un arco o scagli una freccia, che cavalchi verso la gloria o seduca ai piedi di un talamo, l'attore neozelandese è mirabilmente naturale sullo schermo, in grado di eseguire perciò senza sforzo apparente le più complicate performance. Questo accade non tanto (e non solo) perché Crowe ha alle spalle il senso epico dello spettacolo e il gusto della coreografia bellica in costume di Ridley Scott, quanto perché l'attore ha maturato lunghe e faticose sedute di allenamento che hanno consentito all'esecuzione del gesto tecnico di diventare "seconda natura".
Se il Maximus di Crowe fu il magnifico (s)oggetto del desiderio di Commodo, similmente il suo Robin Hood appaga l'eccitazione e la visione dello spettatore senza questa volta dover morire nell'arena. Il suo arciere guerriero compie azioni credibili e giustificate, colpendo al cuore i cattivi e la menzogna della recita. Corpo in action quello di Russell Crowe, che si preoccupa di essere creduto mentre una foresta va in fiamme o sullo schermo piovono frecce e cenere. Braccio flesso e pollice alzato.