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Movie lists

Latest reviews:

Dracula Untold (2014) Dracula Untold (2014)
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Dai tempi del fondamentale libro "Alla ricerca di Dracula" di McNally e Florescu, l'ascendenza da Vlad l'Impalatore (personaggio storico realmente esistito, benché caratterialmente piuttosto diverso da quello descritto in questo film) del Dracula letterario è diventata un luogo comune ben al di là delle intenzioni di Bram Stoker, creatore del personaggio. L'intenzione stavolta è quella di trovare un'angolatura parzialmente diversa con cui ripresentare per l'ennesima volta il principe dei vampiri, uno dei personaggi più sfruttati della storia del cinema. Perciò viene valorizzato al massimo il collegamento tra il personaggio di fantasia e quello storico: l'horror - che pure è presente - lascia spazio al dramma storico, all'epica, al sentimentalismo, in sostanza al melodramma più o meno tonitruante.
La commistione tra storia e leggenda mira a creare un racconto simbolico dominato da un personaggio positivo - Vlad è mostrato come un buon padre di famiglia e un governante saggio e preoccupato per il suo popolo - trasformato suo malgrado in un dannato proprio per la necessità di compiere le azioni utili a salvare chi ama. Le origini di cui viene dotato Dracula non sono distanti da quelle di un super eroe, costretto dai fatti ad assumersi un peso enorme a costo di tutto: la circostanza non è casuale, visto l'enorme successo dei film super eroistici.
La storia lavora su elementi molto semplici e basilari - i temi del sacrificio, della responsabilità e anche dell'ingratitudine - scontando con la prevedibilità la sua sostanziale mancanza non tanto di originalità quanto di inventiva. A livello spettacolare però il film regge e gli epici scontri hanno un discreto valore catartico, grazie anche alle possibilità scenografiche concesse da un budget consistente. Efficace, in questo senso, l'uso dei pipistrelli come armi d'offesa, dal buon impatto figurativo. L'esordiente Gary Shore proviene dal mondo dei commercials e lo si nota per l'uso di svariati espedienti ottici, ma saggiamente opta per per una gestione tradizionale e solida del racconto. Lo aiuta una recitazione complessivamente ricca di convinzione, in particolare da parte dell'energico Luke Evans e della fragile Sarah Gadon. Nel fondamentale, ancorché ridotto, ruolo del vampiro originario, spicca Charles Dance, attore dal buon carisma e dal curriculum importante.

Contagion (2011) Contagion (2011)
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Se un alieno fosse messo dinanzi a Ocean's Eleven, Full Frontal e Il Che quasi sicuramente non direbbe che sono frutto del talento dello stesso regista. Perché uno dei grandi pregi di Steven Soderbergh (anche quando, come in questo caso, lavora su commissione) è quello di continuare a sperimentare sia sul piano della sceneggiatura che su quello linguistico cinematografico. Potremmo rifarci a Traffic per questo film ma la memoria corre piuttosto al cinema altmaniano in cui una molteplicità di personaggi (nessuno dei quali viene mai narrativamente abbandonato) contribuisce alla costruzione di un mosaico in cui le ombre prevalgono sulle luci. Il tema sociologicamente impegnativo della reazione nei confronti dell'ignoto sembra appassionare il regista che lo scandaglia sotto le più diverse prospettive che finiscono con il rivelarsi sempre e comunque parziali e incapaci di fornire risposte risolutive.
Che si tratti della reazione dell'uomo che perde moglie e figlio o del responsabile del Consiglio Mondiale della Sanità oppure che si evidenzino le ragioni (ma anche la paranoia) del fustigatore mediatico di qualsiasi complotto (vero o presunto) gli elementi dei primordi (sesso, bugie e videotape) non sono estranei a un film che prende l'avvio dal giorno numero 2. Da lì si dipanano vicende private e pubbliche scandite con la cronometrica precisione dell'orologio della Morte. Il principio della fine verrà reso noto solo in conclusione. Dove si mostrerà che le piaghe che tormentano l'uomo d'oggi non hanno la dimensione epica di quelle bibliche. Possono avere cause molto ma molto più banali.

Bumblebee (2018) Bumblebee (2018)
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Avevamo infatti lasciato la serie con la discutibile e discussa rivelazione che Bumblebee fosse in origine un guerriero piuttosto feroce, sulla Terra da molto tempo, tanto da essersi battuto anche contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale. Chiaramente il disappunto dei fan ha fatto breccia tra gli sceneggiatori e i produttori della serie, così l'arrivo di Bumblebee viene posticipato agli anni 80, facendo di quel flashback in Transformers - L'ultimo cavaliere una sorta di febbricitante sogno di Anthony Hopkins.
Alla regia esordisce nel cinema in live action Travis Knight, figlio del co-fondatore della Nike e vicepresidente dello studio di animazione Laika, per cui aveva diretto il suo primo film in stop motion, il notevolissimo Kubo e la spada magica.
Nul ruolo di Charlie si cimenta Hailee Stanfield, che esordì come la cocciuta bambina di Il grinta dei fratelli Coen, mentre in quello di sua madre troviamo la comica Pamela Adlon, ideatrice e protagonista della comedy tv Better Things. Gli altri nomi prestigiosi del cast, ossia Justin Theroux e Angela Bassett, hanno invece prestato solo le proprie voci ai Decepticon e quindi sono assenti dalla versione doppiata in italiano. Infine il wrestler John Cena veste i divertenti panni di un militare americano tutto d'un pezzo e incazzato, sorta di caricatura del machismo reaganiano che segna una delle più gradite novità della serie, in passato spesso fin troppo vicina alla propaganda militare americana.

Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre - Mrs. Doubtfire (1993) Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre (1993)
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Tratto dal romanzo Alias Madame Doubtfire di Anne Fine, sceneggiato con astuzia (e molti prestiti), diretto con brio veloce, suggerisce che bisogna fare in modo che i bambini non vivano la separazione dei genitori come un abbandono. Il film appartiene a Williams: il suo trasformismo fonico e mimico è paragonabile a quello di Peter Sellers.

Scemo & più scemo - Dumb and Dumber (1994) Scemo & più scemo (1994)
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Vicissitudini disastrose di due cretini irresistibili, la cui fortuna deriva dal tentativo degli interlocutori di dare un senso alle loro assurdità. Jeff Daniels recita, Jim Carrey è quasi naturale. Con la loro comicità brutale e istintiva riescono comunque a scatenare le risate del pubblico di teenagers cui è destinata la pellicola, prodotta sull'onda dell'improvviso successo di Carrey. Non a caso sui due protagonisti è stata immediatamente realizzata una serie di cartoni animati.

Dirty Dancing - Balli proibiti - Dirty Dancing (1987) Dirty Dancing - Balli proibiti (1987)
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Dirty Dancing costituisce senza dubbio un 'caso' nella storia del cinema di intrattenimento. Perché la trama rappresenta quanto di più scontato si possa trovare in una love story contrastata dove la prevedibilità regna sovrana e in cui, per inutile sovrappeso, si identifica la famiglia della fanciulla come ebrea. La fortuna del film nasce tutta dalla sapiente miscelazione di una colonna sonora che è rimasta negli annali e che gli è valsa ben due premi Oscar e tre Golden Globes e dai numeri di danza.
Perché è nelle coreografie e nel rapporto tra l'aitante Swayze e la timida (inizialmente) Jennifer Grey (che non sarà più gratificata da un successo simile) che si concentra il valore del film sul piano visivo. Emile Ardolino (o chi per lui) ha avuto il pregio di saper poi trovare uno dei titoli più accattivanti della storia del cinema: quelle danze 'sporche' hanno saputo attrarre milioni di spettatori in tutto il mondo.

Eyes Wide Shut (1999) Eyes Wide Shut (1999)
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Attesissimo, beatificato a priori, questo film ha chiuso tre parabole: ricerca, carriera e vita. È quasi naturale che Kubrick, dopo tanto rigoroso, totale, maniacale e mistico impegno, non gli sia sopravvissuto. È un altro allarmante elemento del mito di Eyes Wide Shut e dell'autore, che ha sempre fatto film diversi, affrontando (e risolvendo a modo suo) questo e quel tema della vita e del cinema. Qui pone il suo suggello, la verità ultima, sul sesso, che è certamente più importante, per fare un solo esempio, della fantascienza. Il regista si ispira a un racconto di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, ambientato nella Vienna degli anni venti, e traspone la vicenda nella New York dei giorni nostri. Alta borghesia, alto censo, belle case, bella gente. Cruise è il medico William Harford, e Kidman è sua moglie Alice. A un party la coppia corteggia e si fa corteggiare (venialmente), ma tornando a casa lei gli confessa di aver recentemente provato un'attrazione irresistibile per un ufficiale. William sembra sorriderci, ma la rivelazione lavora sulla sua coscienza e nei suoi incubi. Immagina la moglie in atti sessuali con l'ufficiale. Cambia il suo rapporto con il sesso, cede alla corte della figlia di un suo paziente, esce nella notte e incontra una prostituta, non resiste alla tentazione di partecipare a un'orgia. Anche il sesso con sua moglie si trasforma. E anche la sua vita si trasforma. Perché il sesso è una cosa seria e misteriosa, dolorosa e, soprattutto (ed ecco Kubrick) pensata. Il sesso è di certo a lungo e fortemente rappresentato, ma Kubrick si è abbondantemente guadagnato la franchigia di artista (come Fellini), dunque lo stile tutto soccorre. Tuttavia l'autore, per la versione americana, ha nascosto certi particolari. Potrebbe essere inteso come una sorta di metafora del dispetto, di un americano che ha scelto di vivere a Londra e che da tempo non ha voluto far cinema negli USA, mecca del cinema: "le nascondo l'essenza, che tengo per gli evoluti europei". Il resto è ormai cronaca-leggenda, appunto: i quasi tre anni di lavorazione, certi attori assunti poi protestati, come Keytel e Malcovich, e le crisi matrimoniali-sessuali di alcuni protagonisti, a cominciare dalla coppia regina Tom-Nicole. Chissà se è tutto vero.

Madagascar 3 - Ricercati in Europa - Madagascar 3: Europe's Most Wanted (2012) Madagascar 3 - Ricercati in Europa (2012)
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Che quello del circo sia un tremendo cliché lo verbalizza il film stesso, ad un certo punto, ma le invenzioni sono tali e tante che presto lo scrupolo viene messo da parte e ci si gode lo spettacolo nello spettacolo, non solo perché narrativamente non occupa una misura debordante, ma anche perché il 3D è sapientemente sfruttato a questo scopo (una per tutte: l'immagine dell'anello dentro il quale salta Vitalj, la tigre).
Nonostante gag e battute non siano numerosi come nei capitoli precedenti e l'umorismo sfrenato lasci in generale il posto ad una commedia più tenera (il che potrebbe anche essere una traccia di Noah Baumbach alla sceneggiatura), aumentano le incursioni nella comicità surreale, non più solo grazie alla squadra dei pinguini ma anche all'arcinemico di turno, la poliziotta DuBois, mossa non certo da una missione per conto della legge ma solo dal desiderio sfrenato di appendere la testa di un leone alla propria parete. Sopra tutti, come sempre, sebbene il terzo capitolo gli riservi molte meno "pose", è il re dei lemuri Julien: personaggio straordinario, la cui partecipazione al gruppo è ingiustificata come tutto quel che fa e che dice, e la cui imprevedibilità, che è la chiave della sua bellezza, questa volta lo porta ad innamorarsi romanticamente di un orso in bicicletta col tutù.
Il film chiude il cerchio rientrando alla base, anche se ciò non basterà ad impedire che i nostri vengano spediti al Polo o su Marte, se la convenienza economica lo richiederà, ma non è per questo un capitolo minore. Certo, la conoscenza pregressa dei personaggi è probabilmente indispensabile, se non si vuole rischiare di trovare i protagonisti più insipidi dei nuovi arrivati, ma mai come a questo giro l'equilibrio nell'individuazione del target di riferimento è compiuto e il film nasce classico, buono per qualsiasi età.

Tropic Thunder (2008) Tropic Thunder (2008)
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Tra esplosioni a colori, effetti speciali, e proiettili a salve troveranno lo spirito di gruppo e un finale conforme al genere. Il "soldato Charlot" di Charlie Chaplin e il macchinista di Buster Keaton furono i primi a mettere alla berlina la vita militare e a parodiare l'insensatezza della guerra. La guerra, l'esercito e la caserma sono luoghi privilegiati della risata, vuoi per il desiderio di esorcizzare la drammaticità degli eventi che vi si svolgono, vuoi per portare un caos travolgente dentro un'istituzione organizzata. L'applicazione del comico a un oggetto drammatico come la guerra è perciò una delle tante e possibili declinazioni del concetto di war movie. Diversamente, la comicità di Tropic Thunder non affonda i denti nella follia di uno scenario di guerra. Si tratta piuttosto di una "dichiarazione di guerra" al cinema bellico, di una commedia parodistica dei conflitti statunitensi rappresentati da Hollywood: Normandia, Corea, Vietnam, Golfo. Un film pieno di rimandi metalinguistici, citazioni e ammiccamenti ironici ai clichè dei classici del genere: da Platoon ad Hamburger Hill, da Apocalypse Now a Salvate il soldato Ryan, da Rambo a Quella sporca dozzina. Ben Stiller fa esplodere, oltre alle bombe e alle postazioni nemiche, l'arsenale retorico e narrativo dei film con cui si cimenta, rimontandoli in maniera iperbolica. Tropic Thunder diventa così un film pieno di cinema ma anche un film sul cinema e su Hollywood, circo di celluloide che esibisce divi volubili, agenti zelanti e produttori villain e villosi. Lo "smontaggio" delle pellicole più note del genere non è un gioco gratuito ma un attacco all'immaginario bellicista hollywoodiano e ad alcuni "vizi" della fabbrica del cinema. L'umorismo della commedia di Stiller è di stampo prettamente metalinguistico e non pertiene né alla tradizione chapliniana del comico antimilitarista né a quella altmaniana (M.A.S.H.) del cinema brillante dalle connotazioni critiche. A misurarsi con la vita in divisa, al fianco di Ben Stiller, ci sono le maschere esagerate, eccentriche e stereotipate del black soldier di Robert Downey Jr. e del commilitone in astinenza di Jack Black. Citazioni viventi del soldato forgiato nel fuoco e temprato nel sangue della "cultura bellica" hollywoodiana, le performance degli attori diventano occasioni per omaggi o riletture di figure classiche dei war movies: Downey Jr. incarna il coinvolgimento e l'esperienza della comunità nera nel conflitto in Vietnam, Stiller compie il rite de passage del colonnello Kurtz, "morendo" crivellato e dentro un ralenti come il sergente Elias di Willem Dafoe, Black è il reduce squilibrato e straniato nato il quattro di luglio. Un mucchio selvaggio che gioca alla guerra, agendo in un film volutamente sgradevole e intelligentemente stupido.

Mulholland Drive (2001) Mulholland Drive (2001)
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L’idea alla base nasce come spin-off di ‘Twin Peaks’ con al centro il personaggio di Arlene: abortito il progetto, ecco la riconversione in film che della serie e del suo autore porta tutte le caratteristiche. Lynch è questo e come tale si accetta o si rifiuta: senza cercare di capire ogni cosa (gli indizi suggeriti dal regista vanno bene dalla seconda o terza visione) e lasciandosi andare al flusso della narrazione per quanto saltabeccante sia. All’inizio abbiamo una ragazza che perde la memoria (Laura Harring assomiglia moltissimo a Sherilynn Fenn), un’aspirante stellina (Naomi Watts) che la accoglie, un regista (Justin Theroux) che ha problemi con la moglie (Lori Heuring) e la produzione condizionata dalla mafia, un killer particolarmente sfigato: dopo una novantina di minuti in cui queste vicende si intrecciano, il filo narrativo si ribalta e il rapporto fra le due ragazze vira in tragedia. La prima metà è il sogno, la seconda è l’incubo (della realtà), ma, come dice il presentatore al Silencio (Richard Green) tutto è illusione e ancor di più visto che la storia si svolge a Hollywood e nell’ambiente del cinema maccihna dei sogni – in fondo lo stesso Cowboy (Monty Montgomery) è il simbolo di una delle icone hollywoodiane per eccellenza. Ne deriva la commistione di generi che va dalla commedia al noir in un percorso che se dà punti di riferimento s’incarica di metterli in discussione subito dopo: Lynch gioca con lo spettatore, mette tutti i suoi marchi di fabbrica – i piani sequenza lentissimi, le figure misteriose, le scene cariche di un pathos insopportabile – e riesce nell’impresa di far scorrere inavvertite due ore e mezza di certo non semplici: una sorte di summa del suo modo di raccontare e forse non è un caso che la sua arte si sia in pratica fermata qui.

Mulholland Drive (2001) Mulholland Drive (2001)
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Mulholland Drive è una lunga e vecchia strada di Los Angeles: nasce nel deserto, attraversa i quartieri ricchi e finisce a strapiombo sulla costa di Malibù. Bisognerebbe ricordarsi di questa simbologia per cercare di dare un senso all'ultimo onirico ed enigmatico film di David Lynch. Quella che il regista stesso ha definito come "una semplice storia d'amore nella città dei sogni" è in realtà un intricato enigma sospeso tra allucinazione e realtà, con un tocco di nostalgia per il noir degli anni '40 ed una aperta ostilità verso l'attuale star system. Film astratto, con una straordinaria potenza visiva, è nello stesso tempo affascinante e disturbante. Difficile trovare una chiave di lettura razionale. E difficile descriverlo. Seguendo il linguaggio dei sogni voluto dal regista, bisognerebbe limitarsi a viverne le emozioni.

Lilo & Stitch (2002) Lilo & Stitch (2002)
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Si tratta di un lungometraggio gradevole, che conquista grandi e piccini. Una particolarità: dopo diversi anni la Disney porta sullo schermo un cartone animato i cui sfondi non sono creati in digitale, bensì realizzati ad acquarello.

Transformers - L'ultimo cavaliere - Transformers: The Last Knight (2017) Transformers - L'ultimo cavaliere (2017)
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Se esteticamente Bay nell'ultima ora dà davvero il meglio di sé, ripagando tutto sommato della pazienza per le parti più superflue del racconto, dall'altra la saga di Transformers rimane vittima di intrecci inutilmente arzigogolati e del tutto improbabili. Non sembra esserci niente di troppo ridicolo o tragico per gli sceneggiatori, che aprono il film ai tempi di Re Artù e Merlino e non si fanno neppure mancare riferimenti al Terzo Reich e alla Prima Guerra Mondiale. In fatto di guerra Bay ha da sempre un ottimo rapporto con la marina e l'aviazione degli Stati Uniti e lo dimostra in uno sfoggio di mezzi militari come raramente si è visto sullo schermo, il tutto inquadrato con un'enfasi spettacolare che ne fa l'apologia e inserito in un prodotto per ragazzi come il più surrettizio e insidioso degli spot per l'arruolamento. Roba da Starship Troopers che macchia ideologicamente il film, lasciando un retrogusto manipolatorio davvero fuoriluogo in un'opera che si presenta come il più innocuo degli intrattenimenti.

The Lobster (2015) The Lobster (2015)
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Essere _single_ è considerato reato. Le persone "colpevoli" vengono rinchiuse in un albergo nel quale dovranno trovare l'anima gemella entro 45 giorni. In caso contrario verranno trasformate in un animale a loro scelta, il quale verrà deciso al colloquio conoscitivo dopo l'ingresso nella struttura. Al suo arrivo, il protagonista David (**Colin Farrel**) sceglierà proprio un'aragosta: "_The Lobster_".
**Yorgos Lanthimos** ci pone subito davanti una situazione drammatica, a tratti comica per quanto surreale. Le scelte che farà David per non essere escluso da questa società, fanno da denuncia alla nostra attuale, alle decisioni che spesso prendiamo per sentirci parte di qualcosa e ai ruoli sociali che spesso essa ci impone.
Dopo aver finto di trovare come compagna una persona completamente lontana dal suo modo di essere, David, deciderà di ribellarsi a questo sistema e scappare dalla struttura per rifugiarsi nei boschi confinanti. Qui incontrerà i "_ribelli_". Persone che come lui hanno rifiutato di trasformarsi in animali, scappate per essere libere, ma che, paradossalmente, vivono esattamente, come spesso accade ai rivoluzionari, nel modo esageratamente opposto, più brutale: vietati contatti e relazioni tra esseri umani.
Ovviamente è qui che David incontrerà la sua anima gemella, il suo frutto proibito.
Insieme fuggiranno da entrambi i mondi per essere liberi, ma per ironia della sorte saranno impossibilitati a vivere a pieno la loro relazione.
Un film grottesco, stonato come la colonna sonora ricorrente per tutta l'opera che ci trasporta perfettamente in questa distopia a tratti fantascientifica. Il finale aperto, che lascia a diverse interpretazioni, aiuta a riflettere sul significato delle relazioni e l'ossessione, per alcune persone, di costruire necessariamente e ad ogni costo una relazione o di fare parte a tutti i costi di un qualcosa.
"_Noi balliamo da soli. Per questo ascoltiamo solo musica elettronica_"

Atomica bionda - Atomic Blonde (2017) Atomica bionda (2017)
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La città più fredda di tutte è ovviamente la Berlino ormai vicina al crollo del Muro e pertanto pullulante di agenti appartenenti alle Intelligence di svariati Paesi. Perché ovviamente? Perché la capitale tedesca ha una tale consapevolezza di questo specifico passato da aver inaugurato circa due anni fa un interessantissimo museo dedicato allo spionaggio con il claim "Berlino città delle spie". È in questa città livida ma simile ad un ordigno esplosivo il cui timer è già stato attivato che agisce Lorraine Broughton la cui missione ci viene narrata in flashback informandoci sin da subito, grazie a un corpo segnato dalla violenza, che non deve essere stata priva di ostacoli.
David Leitch ha nella sua biografia una lunga attività di stuntman e, dinanzi alla graphic novel, deve aver pensato di poter trasformare il disegno in azione avendo a disposizione un'attrice capace di affrontare personalmente anche le scene più complesse ed oggettivamene pericolose. Ecco allora che lo 007 di Daniel Craig, che ha traghettato Bond in un universo in cui la brutalità degli scontri non è soggetta a censure, ha trovato una collega che gli sta alla pari ed è anch'essa perdipiù britannica. Lorraine Broughton non ha remore nell'uso delle armi e della forza fisica così come non ne ha nella dimensione sessuale. Questo però non significa che Leitch abbia costruito il film solo attorno a questi elementi.
La spy story c'è ed è più che sufficientemente dotata di sospetti e di colpi di scena. Il fatto stesso che Lorraine venga interrogata anche da un agente della CIA mentre il capo dei servizi britannici osserva il tutto dietro a un vetro monodirezionale la pone nella condizione non solo di chi relaziona su una missione ma anche di sospettabile e sospettata. Questo aumenta l'interesse nell'azione di una donna che non perde nulla della sua splendida femminilità anche quando agisce come il più spietato degli uomini. Ciò che la contraddistingue è la consapevolezza di essere alla pari con gli esponenti dell'altro sesso con i quali condivide, come da istruzioni ricevute, la più completa diffidenza nei confronti di chi la avvicina. Al punto che di ognuno di loro dirà di fidarsi come delle previsioni meteo. Come in ogni spy story degna di questo nome.

Noah (2014) Noah (2014)
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La storia di Noè e del diluvio si sviluppa nei capitoli dal 5 al 9 della Genesi, all'interno della Bibbia. Si tratta di poche pagine, descrizioni stringate e accenni (come è uso nel libro sacro) a tratti molto ermetici. Da questa esigua fonte d'ispirazione Darren Aronofsky assieme allo sceneggiatore Ari Handel (entrambi provenienti da un'educazione ebraica) ha tratto un film di più di 2 ore, aggiungendo molto e interpretando la componente visiva con libertà ma sempre a partire da una decisa fedeltà al testo. Non sono quindi sostanziali i tradimenti di Noah, quanto visivi. Le parole della Bibbia sono trasposte con cura e dovizia, semmai è l'immaginazione che le porta in vita a cercare iperboli e un titanismo narrativo, che in questi anni al cinema è parente del fantasy, molto distante dalle usuali rappresentazioni. A tutto ciò poi vanno aggiunte sparute invenzioni come quella dell'infiltrato nell'arca, delle scene di combattimento di Noè, il ruolo delle donne (mai nominate nel testo d'origine) o ancora della rappresentazione dei poteri di suo nonno Matusalemme. Simili trovate fanno subito suonare straniante e fastidiosa la rappresentazione biblica, specie ad un occhio europeo.
Da un punto di vista cinematografico però la visione di Aronofsky non manca un colpo, fonde come di consueto nel suo cinema una passione per il montaggio serrato usato per raccontare i processi mentali ad un uso espressivo dei volti (che da The Wrestler in poi è una costante), trovando in Russell Crowe rasato e con la barba la personificazione di un patriarca, in un corpo filmico tra i più pesanti e vivi. Se il mondo di Noah è dipinto come una fusione di reale e magico, gli uomini sono invece quanto di più materiale e carnale ci sia. Umanità concreta in un universo mitologico. Dunque, al netto delle molte trovate che iniettano la storia tradizionale con lo spettacolo hollywoodiano, quel che interessa ad Aronofsky non è diverso da quel che interessa a Scorsese quando si occupa dei miti cristiani: come possa accadere che un uomo di carne ad un certo punto dialoghi con l'assoluto e si faccia interprete della sua volontà.
Questo Noè è molto lontano dalle rappresentazioni bibliche classiche e molto vicino al cinema di grande incasso contemporaneo, agisce spesso come un invasato, interpreta male il volere divino e sembra preso in un delirio che gli viene dall'aver ricevuto più di quel che possa tollerare. Punti di vista dai quali Noah è molto riuscito, interessante e animato da un vivo interesse per lo sforzo emotivo (The Wrestler), la difficoltà di avere nella propria testa qualcosa di superiore (Pi greco), un frustrato desiderio di relazione con l'assoluto (The Fountain) e la dissociazione mentale (Il cigno nero).
Melodrammatico, a tratti dozzinale nell'esporre sentimenti basilari e dinamiche elementari ma anche energico nella sua rappresentazione di un mondo antidiluviano e della maniera in cui la volontà di un Dio possa piegare gli elementi, Noah è duro da ricevere se non si considera la cultura in cui è prodotto ma anche portatore di una fusione tra tradizionale e contemporaneo (mantenere in vita le storie che fondano la società occidentale) che non è banale.

Scontro tra titani - Clash of the Titans (2010) Scontro tra titani (2010)
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Dopo 29 anni Scontro tra titani torna al cinema con il medesimo disprezzo per la mitologia greca, i medesimi semplicismi, la medesima truffa nel titolo (ma dove sono i Titani?) e un'immutata voglia di fare baccano senza fare senso.
Di diverso c'è l'atteggiamento del protagonista, una volta fiero di essere un semidio e inorgoglito dai doni celesti e adesso incattivito contro un padre padrone (incarnato da un Liam Neeson ai minimi storici di carisma) e la sua razza di privilegiati. Il Perseo del 2010 è dunque dalla parte del popolo: "Ho scelto di essere solo un uomo", dice rinnegando a parole la sua natura semideistica: Per accontentarlo dunque il regista non lo manda più in giro da solo ma gli affianca un piccolo plotone di rivoluzionari, più una donna palestratissima (Gemma Arterton), molto utile per gli stacchi sull'espressione sognante.
Tra scorpioni che emergono dalla sabbia al rallentatore come fossero Transformers, una Medusa che ricorda quella della serie di God Of War e una visione dell'Olimpo che sembra arrivare dal Superman di Richard Donner, il nuovo film incautamente affidato a Louis Leterrier (e al team creativo dietro Aeon Flux) porta a casa il risultato senza guizzi e senza la decenza dell'onestà.
Non solo Scontro tra titani crolla totalmente quando si tratta di creare immagini originali (tutto viene da qualcos'altro, specie dagli effetti speciali originali di Ray Harryhausen) ma in più di un'occasione ha l'arroganza di porsi su un piedistallo, ad esempio facendo gettare via ad un certo punto il gufo meccanico del primo film (uno degli elementi più ingenuamente kitsch cui spettava il compito di alleggerire comicamente), salvo poi prevedere ben due personaggi-macchietta a svolgere il medesimo ruolo.
Al massimo della presunzione questo nuovo Scontro tra titani, nato vecchio e (cosa ancora peggiore) pompato con un 3D posticcio utile solo a spillare un po' più di soldi, vorrebbe addirittura trovare una vaghissima legittimazione intellettuale con il colpo di coda finale affidato a Ralph Fiennes, cui spetta la frase cruciale (ovviamente escludendo il classico "Liberate il Kraken!" pronunciato con enfasi esagerata): "Gli dei traggono forza dalla debolezza degli uomini". Quando si dice cambiare tutto perché non cambi nulla.

The Legend of Tarzan (2016) The Legend of Tarzan (2016)
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Pallido, quasi lugubre, e però scattante all'occorenza e appassionato nel bacio sul collo: il Tarzan di Alexander Skarsgard si fa avanti come se provenisse direttamente dalla Bon Temps di True Blood. Sappiamo che gli abiti pluristratificati che lui e Margot Robbie indossano quando facciamo la loro conoscenza sono destinati a ridursi del 90%, ad un paio di pantaloncini strappati e poco più. La domanda, allora, è: come racconterà David Yates questa trasformazione? E la risposta passa dal sentiero recentemente battuto dal Libro della Giungla per approdare al superhero-movie.
Procede dunque parzialmente a rovescio, The Legend of Tarzan, non verso la civilizzazione dell'enfant sauvage cresciuto dalle scimmie ma verso un ritorno alla natura intesa come luogo di lealtà, di lotta senza trucchi, di fecondità. Il film, che in fin dei conti diverte e intrattiene quanto basta, o di poco sotto la soglia, soffre però anche di qualche malattia della pelle, ovvero di alcuni difetti visibili in superficie, tra i quali una computer grafica non eccellente (niente a che vedere con l'eleganza e la misura del film di Favreau, e con l'emozione che ne derivava), e una trasudante preoccupazione per il politicamente corretto, da cui la tematica anticolonialista e il radicamento nella verità storica dello scontro tra l'ex soldato della Guerra Civile G.W. Williams e Leopoldo II re del Belgio.
Al fondo, però, il Tarzan di Yates è anche una commedia del rimatrimonio e soprattutto un ritorno al primigenio carattere americanissimo del personaggio di E. R. Burroughs, concepito già in chiave pop, a metà tra il mito del Far West e quello di Superman, tra fumettone ecologista e impavido sprezzo del ridicolo.

Il libro della giungla - The Jungle Book (1967) Il libro della giungla (1967)
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Passarono 4 anni e mezzo tra l'uscita sugli schermi di La spada nella roccia e quella de Il libro della giungla. L'attesa per un nuovo film targato Disney da parte di grandi e piccini si era fatta davvero pressante. Walt non voleva deluderli e questo sarebbe stato, anche se non poteva saperlo, l'ultimo film di cui si sarebbe occupato. La prima mondiale avvenne infatti un anno dopo la sua morte e il film sarebbe stato destinato a diventare uno dei classici in assoluto della produzione disneyana (ancora oggi lo si trova citato nelle hit list dei film di tutti i tempi).
Dopo la versione di Alexander Korda del 1942 Disney voleva che il passaggio all'animazione avesse una precisa identità. Per questo motivo diede un'indicazione precisa a coloro che avrebbero lavorato al film: "La gente deve venire al cinema non per 'leggere' il libro di Kipling ma per divertirsi grazie ad esso". Si può affermare, senza timore di essere smentiti, che il risultato ha rispettato le attese e che ancora oggi il divertimento è assicurato. Questo è uno dei film disneyani che maggiormente punta sulle caratterizzazioni che divengono un elemento di forza considerevole. A Mowgli vengono date le caratteristiche del bambino volitivo e simpatico ma ci si concentra in modo particolare sugli animali.
Se Bagheera è il tutore responsabile a Baloo viene affidato il ruolo di compagno di giochi che proprio per la sua struttura fisica ingombrante diventa immediatamente simpatico. Ma anche i 'cattivi', a partire dal temibile serpente Kaa che vedrà nel Sir Biss di Robin Hood il suo degno successore, hanno un loro spessore psicologico che va al di là dello stereotipo. L'unica nota che può apparire stonata è data dal modo in cui vengono rappresentate le scimmie che vogliono compiere il salto evolutivo scoprendo il segreto dell'accensione del fuoco. A loro viene attribuita una musicalità tanto attrattiva per Baloo quanto marcatamente afroamericana. I temi affrontati non sono poi di poco conto. Mowgli è in fondo un 'ragazzo selvaggio' che vede nella giungla il proprio habitat naturale in cui, come gli insegna l'amico orso, si può trovare 'lo stretto indispensabile' che permette di vivere.
A Bagheera e a Baloo (seppure con accenti diversi) spetta il compito, che è proprio degli adulti, di aiutarlo a separarsi da loro perché possa crescere. Trovano degli alleati inaspettati in animali che la Natura non ha favorito né come aspetto né come ruolo nella catena alimentare: gli avvoltoi. Questo, insieme alla formazione militare degli elefanti, è uno dei tanti colpi di genio di un film immortale.

Polar Express - The Polar Express (2004) Polar Express (2004)
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Chissà se Tom Hanks, abituato a correre, a vivere su un'isola deserta o a trascorrere le sue giornate in un aeroporto, avrebbe mai immaginato di trasformarsi in digitale e impersonare il capotreno del Polar Express? L'ultimo futuristico progetto di Robert Zemeckis, che vede protagonista l'attore americano, è un viaggio nel Luna Park del Natale (così ce lo illustra), sovraccarico di effetti speciali,di sali e scendi sulle rotaie, nella più classica tradizione dei rollercoaster. Protagonista di questa avventura in 3D è un ragazzino che, sotto la neve, la vigilia di Natale, sbarra gli occhi e prende al volo il Polar Express, fantasmagorico treno diretto al Polo Nord per incontrare Babbo Natale. Tratto da un libro dello scrittore Van Allsburg, Polar Express fa riferimento alla tradizione anglosassone del Natale, non tanto per le icone nordiche, quanto per la spettacolarizzazione (affascinante la sequenza del treno che scivola sul ghiaccio) e l'utilizzo del "musical" (pensiamo a White Christmas con Bing Crosby) come forma di ibridizzazione. Un esempio è l'apparizione di Babbo Natale con la moltitudine di folletti, vera immagine da concerto rock da stadio, e la digitalizzazione di Steven Tyler, cantante degli Aerosmith. Il ruolo di maestro di cerimonie è perfetto per Tom Hanks, capace, anche in animazione, di esprimere severità e buoni sentimenti da vero leader, fino a moltiplicarsi in più personaggi. Certamente un prodotto per il pubblico giovanissimo che potrà rivivere la magia della favola di Natale come se fosse a Gardaland, fischiettando allegramente quelle canzoncine da festa sentite migliaia di volte.
Un film furbo? Può anche darsi, ma modernizzare una tradizione è qualcosa che può riuscire solamente a chi ha ancora dentro, a oltre cinquant'anni, il bambino che c'è in noi, raccontandoci, con i fuochi d'artificio, che non bisogna mai smettere di credere e di sognare, perché la fantasia è uno dei motivi per cui vale la pena vivere.

Inferno (2016) Inferno (2016)
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Esattamente dieci anni fa con Il codice Da Vinci aveva inizio il sodalizio tra Dan Brown e Ron Howard, proseguito nel 2009 con Angeli e Demoni. Considerati gli esiti al Box Office non si poteva non attendersi che anche la terza impresa del professor Robert Langdon trovasse la via del grande schermo confermando la solidità della coppia e la presenza di Tom Hanks nel ruolo principale. Chi ha letto il libro (e sono stati tanti se si considera che solo venti giorni dopo l'uscita si erano già raggiunti i nove milioni di copie vendute nel mondo) si è chiesto come avrebbero fatto Howard e lo sceneggiatore David Koepp a trasformare in un film di due ore una storia che aveva due caratteristiche di difficile trasposizione. Perché il romanzo, facendo costante riferimento all'Inferno di Dante Alighieri, ha una forte base legata alla letteratura, cioè alla parola scritta e inoltre, in modo costante, offre ai lettori di tutto il mondo approfondite spiegazioni di luoghi ed opere d'arte che si trovano a Firenze, Venezia ed Istanbul rischiando a tratti di assomigliare a una guida Lonely Planet.
Si può dire che l'impresa sia andata a buon fine anche se, come accade spesso nel passaggio dalla pagina allo schermo, i lettori troveranno numerosi e, almeno in un caso, sostanziali mutamenti. Questa volta però ci verranno risparmiati anatemi e vade retro considerato che il tema non è più il rapporto con la fede cattolica e con coloro che la professano e diffondono ma si apre a prospettive di indubbia e pregnante attualità. Perché lo scienziato Bertrand Zobrist innesca il suo percorso distruttivo a partire da un dato reale: la crescita esponenziale della popolazione mondiale con i conseguenti e devastanti riflessi sul futuro della vita sul nostro pianeta. La soluzione che trova è drastica e Langdon dovrà impegnarsi per impedirne l'attuazione.
Qui si innesca una dinamica che differenzia il film dai precedenti. Se prima la detection si fondeva con l'azione, qui la dinamica è quella della fuga costante da pericoli incombenti cercando di impedire un evento catastrofico. Tom Hanks ha da sempre nello sguardo e nelle espressioni del volto un fondo di paura misto alla volontà per neutralizzarla. Quindi chi meglio di lui poteva fuggire correndo o cercare temporanei rifugi in una Firenze che con il suo splendore diviene coprotagonista a tutti gli effetti della narrazione? Tutto ciò mentre allucinazioni e sprazzi di memoria disturbanti lo perseguitano e una giovane donna lo accompagna? Se la storia di un amore che torna dal passato rischia di attenuare la tensione, resta però ripetuta con forza la questione di base che non è di carattere solo finzionale. Perché a un anno di distanza dall'uscita del libro, non lo Zobrist inventato da Brown ma il fondatore del Front Nationale francese Jean-Marie Le Pen dichiarava che il virus Ebola avrebbe potuto risolvere in tre mesi il problema dell'immigrazione dall'Africa. Quindi ben vengano film come questo che hanno lo scopo di intrattenere mentre ci ricordano che il confine tra finzione e realtà è talvolta decisamente sottile e che, come recita la frase che apre il romanzo, "i luoghi più caldi dell'inferno sono riservati a coloro che in tempi di grande crisi morale si mantengono neutrali". Un'affermazione a doppio taglio ma che non può non far pensare.

La carica dei 101 - One Hundred and One Dalmatians (1961) La carica dei 101 (1961)
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Non è stato facile per Herek, regista sempre più importante all'interno dei Disney's Studios, lavorare su una sceneggiatura di Hughes che punta direttamente alla comica slapstick piuttosto che a una rilettura capace di non far dimenticare l'originale. I cani diventano così "veri" ma, al contempo e quasi paradossalmente, sembravano più reali i Pongo e Peggy disegnati.

The Impossible (2012) The Impossible (2012)
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La didascalia iniziale del film ci ricorda che quella a cui stiamo per assistere è una storia vera e lo ribadisce. Si tratta di una giusta segnalazione perché è su questo elemento che si basa la credibilità del film. Quante volte assistiamo a vicende che sul grande schermo ci costringono alla 'non' sospensione dell'incredulità che la materia di cui sono fatti i sogni richiederebbe? Quante volte cioè ci vediamo proporre vicende per le quali ci viene da dubitare che chi ha scritto la sceneggiatura e poi diretto e montato il film sia dotato di un minimo senso della realtà? Non poche purtroppo.
The Impossible prende le mosse da questa nostra consapevolezza e sin dal titolo ci mette in guardia: ci verrà raccontato l'impossibile. Un impossibile che però, negli elementi essenziali che vengono proposti sullo schermo, è davvero accaduto. Perché la realtà talvolta supera la più fervida immaginazione e ciò che nella finzione ci appare come retorico si rivela invece come dannatamente umano. Perché è concentrandosi su un nucleo ristretto (una famiglia) coinvolto in un'immane tragedia che Bayona riesce a restituirci il senso di un disastro che nessun telegiornale era riuscito a offrirci. C'era arrivato vicino Clint Eastwood in Hereafter muovendosi però su altri piani di narrazione. Bayona falsifica volutamente un solo elemento: la famiglia nella realtà era spagnola ed era formata da Maria, Quique, Lucas, Tomas e Simon. La distribuzione internazionale del film e il casting richiedevano questo cambiamento.
Chi non sa nulla della loro vicenda però farà bene a non informarsi preventivamente perché il regista sa come toccare le corde più sensibili degli spettatori immergendo la sala quasi fisicamente in quelle acque in tumulto. Lo fa soprattutto grazie non tanto alle star Watts e McGregor ma con lo sguardo dolente di Tom Holland che interpreta Lucas. Bayona aveva già dato prova con The Orphanage di un'attenzione particolare verso i più giovani e quindi più indifesi (da quel film porta con sé per un cameo role scaramantico Geraldine Chaplin).
Il viaggio di Lucas nell'orrore inatteso ricorda da vicino quello di Jim 'Jamie' Graham de L'impero del sole di Steven Spielberg. Entrambi vengono catapultati all'improvviso in un inferno in cui sembra contare solo la possibilità di sopravvivere. Scopriranno che la paura della perdita e del distacco da chi ci è più caro lascia segni nel profondo ma avranno anche modo di entrare in contatto con un'umanità capace, nei momenti più estremi, di ritrovare una solidarietà che nel quotidiano sembra sempre più spesso anestetizzata.

Il mistero dei templari - National Treasure (2004) Il mistero dei templari (2004)
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Orfani di Indiana Jones, è arrivato il vostro momento.
Prendete Spielberg, Ford e Connery e sostituiteli con Turteltaub, Cage e Voight. Non è proprio la stessa cosa vero? Però a rimpolpare le fila dei protagonisti c'è anche la divina Diane "Elena" Kruger che, alla fine, si dimostra la migliore del gruppo. Il mistero dei templari è un film oggettivamente banale e scontato, la classica mega produzione Bruckheimer costosa e pacchiana, ma riesce comunque a giocarsi la proprie carte, data anche la penuria di film di puro intrattenimento in circolazione in questo periodo.Come per La maledizione della prima luna, il mix tra umorismo e azione funziona alla grande, ed il tempismo della pellicola è perfetto (in fondo tra mappe da decifrare, simboli da riconoscere ed un generale clima da caccia al tesoro, i richiami a successi editoriali recenti come Il codice Da Vinci, sono piuttosto evidenti). I personaggi sono tagliati con l'accetta, le performance di buona parte del cast sono sopra le righe e Cage ha una sola espressione, ma l'helzapoppin messo in piedi da Turteltaub regge e regala anche momenti appassionanti e divertenti. Chiaramente scevro da contaminazioni politico-sociali e privo di qualsiasi messaggio etico-morale (e per fortuna direi, oramai pare che ogni pellicola che esce al cinema debba avere dei significati sottintesi e delle lezioni da impartire al pubblico), il film è senza pretese, se non quelle di far passare al pubblico due ore di assoluto svago. Mai la definizione di pop corn movie (o film panettone, vedete voi) è stata più azzeccata, ma, anche questo (anzi, soprattutto questo) è cinema.

Ocean's Thirteen (2007) Ocean's Thirteen (2007)
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Finalmente possiamo dimenticare il pasticciato ed estremamente confuso Ocean's Twelve e tornare a divertirci con Clooney e soci. C'è meno tensione rispetto al primo film (ormai sappiamo per certo come andrà a finire) ma si potenzia il gusto per la struttura narrativa. Tutte le imprese, anche le più improbabili, trovano una loro motivazione tra il fantasioso e il logico ma comunque plausibile.
Quello che poi emerge in maniera si potrebbe quasi dire spudorata è il divertimento del gruppo che gode nell'intrattenere il pubblico. Soderbergh poi non si risparmia citazioni da altri film (in particolare con un personaggio vessato come accadeva nelle migliori Pantera Rosa). Chiama poi Ellen Barkin a ricoprire il ruolo di unica donna in cartellone e la mette al fianco di Al Pacino. Qualcuno forse ricorda che Ellen deve gran parte della propria notorietà a un film con Al Seduzione pericolosa e al Blake Edwards di Nei panni di una bionda. Quindi eccola qui. È la donna giusta pronta a farsi sedurre da un Matt Damon con naso finto.
Alla sceneggiatura ci sono poi due esperti (di quelli che sanno tutto ma proprio tutto) dei tavoli da gioco. Rispondono ai nomi di Brian Koppelman e David Lieven e hanno scritto Rounders. Il giocatore. Se aggiungiamo a tutto ciò i ritmi giusti che ti incalzano ma che ti lasciano anche il tempo di pensare e le battute metatestuali che gli interpreti si scambiano non come personaggi ma come attori (c'è un dialogo molto divertente tra Pitt e Clooney) il gioco è fatto. Intelligenza e divertimento si coniugano all'autoironia e il film è pronto per far saltare il banco.

Come ammazzare il capo... e vivere felici - Horrible Bosses (2011) Come ammazzare il capo... e vivere felici (2011)
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Per una crisi del mondo del lavoro e un tasso critico di disoccupazione, c'è un'altra faccia del problema che guarda a impiegati in sempre maggiore subordinazione e boss legittimati a tenere misure estreme e regimi assoluti. In questa situazione, la commedia americana reagisce alla recessione con un sorriso contratto (Tra le nuvole), oppure voltandosi dall'altra parte per ridere più sonoramente. Come ammazzare il capo adotta questa seconda reazione: guarda di striscio alla recessione mondiale e allo spettro della Lehman Brothers non certo per indagare cause finanziarie e conseguenze sociali come in Inside Job, ma come pretesto per erompere in uno sfogo più violento, una baldoria più molesta e sfrenata. Così, dietro a un titolo da ironico manuale di automiglioramento, avvampa una commedia che, recuperando il sogno dell'uomo medio e i luoghi comuni sui criteri balordi della meritocrazia, trova in una deliberata anarchia, energica e vitalmente cialtrona, il proprio istinto primario e la sua forza scaccia-crisi.
Alla faccia della crisi, infatti, Seth Gordon (The King of Kong, Tutti insieme inevitabilmente) si concede un cast di sole celebrità e, per tenere alto il tasso di adrenalina e comicità all'interno di una farsa mossa da una pulsione omicida ma senza particolari guizzi di humour nero o toni grotteschi, decide di metterle alla prova lungo il sentiero della new wave del buddy movie goliardico, strampalato e vagamente misogino del genere Una notte da leoni. Se è vero che i continui cambi di situazione della storia sono dettati più da una vivacità sopra le righe vicina ai Farrelly che dai paradossi cerebrali dei Coen, il potenziale di pura anarchia dispiegato dal racconto può contare sull'impiego di ottimi attori e sulla singolare energia propulsiva liberata dalla loro interazione.
L'impetuosa verve del film sta quindi tutta nel gioco di squadra, in uno schema che conta su tre punte prese fra le nuove reclute della comicità televisiva e su una retrovia di soli fuoriclasse. I tre protagonisti lavorano su dinamismo e improvvisazione, danno luogo a dialoghi strampalati, situazioni improvvide e citazioni sbagliate ("Delitto per delitto è quel film con Danny De Vito?") e creano tempi comici altalenanti ma perfetti attraverso il loro preciso disequilibrio da "strano trio". Nelle retrovie, la leva professionista dei cattivi si fa forte del fatto di poter esaltare i personaggi che portano naturalmente dentro se stessi (Kevin Spacey, che diventa un Kaiser Sose in versione executive) o il relativo rovesciamento (Jennifer Aniston, che da fidanzatina d'America si fa ninfomane sboccata, e Colin Farrell, ridotto da action hero a impiegato esaltato con panza e riporto).
Certo, Come ammazzare il capo è in fondo solo una farsa spaccona a cui piace vincere facile: una commedia che punta sull'eccesso più che sul paradosso, sull'accumulazione di continui detournement sempre più concitati, con la certezza di poter contare su una pletora di celebrità tale da dover perfino lasciarne qualcuna sullo sfondo (come Donald Sutherland, praticamente una comparsa). Ma il film ha il pregio di alzare continuamente la posta, continuando a bluffare e a distrarre gli avversari con turpiloquio e sbruffonate, come a dimostrare che il gioco della commedia non è solo questione di quanti assi si ha in mano.

Dragon Trainer - Il mondo nascosto - How to Train Your Dragon: The Hidden World (2019) Dragon Trainer - Il mondo nascosto (2019)
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Poi DeBlois è rimasto solo, già dal capitolo secondo, ben più funzionale che dilettevole, ma con Dragon Trainer 3 - Il mondo nascosto la solitudine pesa molto meno: il vento dell'ispirazione torna a soffiare e il film spiega a fondo le vele, come si addice ad un finale di trilogia nell'era della sparizione del finale.
Hiccup non fa più solo coppia con Astrid, per ragioni di cuore, e con Sdentato, per ragioni di coda, ma s'interfaccia con la sua nemesi, quel Grimmel che da ragazzino si trovò davanti una Furia Buia, proprio come accadde a lui, ma non ci pensò un attimo a sparare per uccidere. Questione di carattere e di identità, che, nel giro di vite finale, non possono che aumentare di volume e di valore, facendosi questioni ideologiche. Da un lato, cioè, il cacciatore umano, che si professa appartenente ad una "specie superiore", dall'altro il primo rappresentate di una mutazione ideale e antropologica che, dal mutuo-soccorso, attraverso l'amicizia più sincera, ha annullato la distanza tra uomo e drago. Non è un caso, infatti, che, in questo capitolo, Hiccup e i suoi attacchino brandendo l'arma del fuoco, vestiti con tute squamate dotate di ali: l'altro è stato incorporato e dunque la separazione, per quanto dolorosa, è ora possibile, perché non sarà mai definitiva, mai totale.

The Blind Side (2009) The Blind Side (2009)
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Il blind side è la "zona cieca" dello spazio visivo, quella parte dell'orizzonte che sfugge anche alla coda dell'occhio e che rappresenta il nostro lato indifeso, quello più esposto ad un possibile attacco. In termini di competizione, il cinema americano è quello più attento a non lasciare niente scoperto durante la fase di gioco, ad adempiere con la stessa forza l'attacco e la difesa, la logica dell'intrattenimento e la solidità della struttura. Ma questo istinto a tutelare tanto lo spettacolo quanto la morale ed appagare i sensi così come la coscienza, è il principio di forza di tutte le espressioni della cultura popolare americana, non ultima, ovviamente, quella sportiva. Ed è così che una storia vera ed estremamente recente tratta dalla cronaca dello sport più americano che ci sia, il football, permette di tornare a far splendere il fulgore dell'American Dream.
The Blind Side fa uso della stessa metafora che racconta: il gigante buono Michael Oher impara a difendere il quarterback e la sua squadra attraverso la scoperta degli affetti familiari e sfruttando un innato istinto protettivo e una fisicità adatta al ruolo; allo stesso modo il regista John Lee Hancock (Alamo - Gli ultimi eroi, Un sogno, una vittoria) sfrutta la struttura più edificante del cinema istituzionale e l'innata predisposizione del grande pubblico per salvaguardare il suo film da ogni possibile attacco di cinismo o disillusione. Ad un primo tempo più drammatico improntato sulle questioni sociali e sulle sfortune e le miserie di Michael, ne segue un altro riguardante la formazione sportiva del ragazzo e l'integrità dell'umanitarismo alto-borghese della repubblicana e cristiana di ferro Leigh Anne e della famiglia Tuohy.
In questo ibrido apertamente piacione fra sguardo minimal-misericordioso à la Sundance e storia mainstream di redenzione sportiva, si rappresenta l'emblema della nuova ideologia repubblicana: un modello aggiornato della vecchia famiglia devota e altruista delle illustrazioni di Norman Rockwell, in cui il padre ex-atleta è proprietario di ristoranti fast food, la mamma ex-cheerleader è un'elegante signora con porto d'armi e i figli sono perfettamente educati e simpatici. In opposizione tanto alla crudeltà patinata di American Beauty quanto al conservatorismo idealista e libertario di Clint Eastwood, la famiglia Tuohy di The Blind Side dimostra la buona fede della propria filantropia e la capacità di scherzare sul proprio credo politico ("Chi l'avrebbe mai detto che avremmo avuto un figlio nero prima di conoscere un democratico?" si domanda ironicamente il padre di fronte alla situazione), ma senza mai apparentemente interrogarsi sulle ragioni che sottostanno alle iniquità sociali contro cui si mobilitano.
Anzi, lasciando quasi intendere che ci sia una certa idea di predestinazione nel sogno americano: chiunque merita una possibilità e chiunque può farcela, ma meglio se si è grandi e grossi come Michael o come l'industria del cinema.

Le cronache di Narnia - Il principe Caspian - The Chronicles of Narnia: Prince Caspian (2008) Le cronache di Narnia - Il principe Caspian (2008)
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La seconda parte della saga di Narnia vede ancora alla regia Andrew Adamson il quale deve essere un regista che, insieme alla produzione, legge la critica internazionale. Ha così rivisto pregi e difetti del primo film e ha lavorato sulla pagina letteraria cercando di sfruttarne al massimo l'impatto cinematografico. Ecco allora due imponenti battaglie a marcare visivamente Il Principe Caspian con una difficoltà in più rispetto, ad esempio, a Il Signore degli Anelli. Perché questo è un film dichiaratamente per famiglie e quindi il sangue (sia che sia degli umani che dei centauri) non può scorrere copioso e con immagini truculente.
La sceneggiatura libera poi la storia dalle pastoie teologiche che avevano fatto iscrivere d'ufficio Le cronache di Narnia al loro primo apparire nella schiera teocon quasi che questo ciclo si contrapponesse a quello che poi ha visto il suo primo episodio con La bussola d'oro. Certo Aslan rappresenta ancora il simbolo di una fede in Qualcuno che può venire in tuo aiuto anche se è non più fisicamente dinanzi ai tuoi occhi. Però se nella pagina scritta il Leone si confronta con Bacco e le Menadi in un complesso mix di Cristianesimo e Paganesimo, qui ci si limita alla spettacolare antropomorfizzazione della forza delle acque in un momento cruciale della vicenda.
Vicenda che vede i tre fratelli crescere, così come accade in Harry Potter e quindi mutare il loro sguardo nei confronti della realtà (fosse pure quella magica del mondo di Narnia). Ecco allora un primo amore, per quanto solo accennato e una solidarietà/rivalità tutta maschile tra Peter e Caspian. I cattivi questa volta (tranne un breve e significativo, anche sul piano dell'interrogativo morale posto dalla scena, ritorno della Regina delle Nevi) sono di stirpe italica.
Sergio Castellitto, nelle vesti di ispirazione ispanico seicentesca di Lord Miraz , è rapace e barocco quanto basta. Pierfrancesco Favino, con lo sguardo più cupo del solito, gli fa da braccio destro dubbioso quel tanto che basta per esaltare la bramosia di potere del suo signore.

Die Hard - Un buon giorno per morire - A Good Day to Die Hard (2013) Die Hard - Un buon giorno per morire (2013)
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In ogni caso prima di vedere il film è utile, anzi necessaria, un'avvertenza: questo capitolo è meglio del penultimo, ma peggiore degli altri. Quindi non c'è da esaltarsi: il giovane coprotagonista ha il carisma di una sagoma da poligono, il regista John Moore, dopo il discreto esordio di Dietro le linee nemiche è andato sempre peggiorando. E qui la mediocrità di entrambi si fa sentire. Il punto è che la saga di Die Hard è qualcosa che va oltre la critica cinematografica, è uno tra i pochi fenomeni di genere e generazionali che ha creato dei discepoli, prima ancora che degli appassionati. E per loro conta solo che Bruce Willis sia in forma, con un'arma carica in pugno e la battuta sempre pronta. Hippy ya ye compreso, anche se pronunciato una volta sola.
Fa niente se le scene d'azione sono tutte coreografia, macchine generosamente devastate, salti attraverso i vetri e schemi militari tanto elementari quanto già visti. Non puoi non divertirti con John McClane che ripete ossessivamente di essere in vacanza, con i simboli del comunismo che fermano il tempo (l'Aeroflot all'inizio, la statua di Lenin che guarda le esplosioni provocate dagli americani, il mercenario con la sigla CCCP tatuata sulla schiena), con i nomi dei nemici storpiati di proposito. Sarà anche il grado zero dell'intrattenimento action, ma il buon John ci conquistò proprio così in quel grattacielo - anche grazie al grande McTiernan - e continua a farsi voler bene anche per questo. Sarà, forse, perché rimarrà sempre l'ultimo boyscout. Il consiglio, quindi, è di godervelo nel caso amiate la saga e il suo (anti)eroe, altrimenti non ne apprezzerete la regia di (scarso) servizio né la sceneggiatura striminzita.
A chi, invece, avesse intenzione di regalarci altri capitoli della storia di questo sbirro duro e puro, il consiglio è di lasciarlo solo, com'è sempre stato. McClane non è fatto per avere un partner, men che mai un figlio non alla sua altezza.