L’idea alla base nasce come spin-off di ‘Twin Peaks’ con al centro il personaggio di Arlene: abortito il progetto, ecco la riconversione in film che della serie e del suo autore porta tutte le caratteristiche. Lynch è questo e come tale si accetta o si rifiuta: senza cercare di capire ogni cosa (gli indizi suggeriti dal regista vanno bene dalla seconda o terza visione) e lasciandosi andare al flusso della narrazione per quanto saltabeccante sia. All’inizio abbiamo una ragazza che perde la memoria (Laura Harring assomiglia moltissimo a Sherilynn Fenn), un’aspirante stellina (Naomi Watts) che la accoglie, un regista (Justin Theroux) che ha problemi con la moglie (Lori Heuring) e la produzione condizionata dalla mafia, un killer particolarmente sfigato: dopo una novantina di minuti in cui queste vicende si intrecciano, il filo narrativo si ribalta e il rapporto fra le due ragazze vira in tragedia. La prima metà è il sogno, la seconda è l’incubo (della realtà), ma, come dice il presentatore al Silencio (Richard Green) tutto è illusione e ancor di più visto che la storia si svolge a Hollywood e nell’ambiente del cinema maccihna dei sogni – in fondo lo stesso Cowboy (Monty Montgomery) è il simbolo di una delle icone hollywoodiane per eccellenza. Ne deriva la commistione di generi che va dalla commedia al noir in un percorso che se dà punti di riferimento s’incarica di metterli in discussione subito dopo: Lynch gioca con lo spettatore, mette tutti i suoi marchi di fabbrica – i piani sequenza lentissimi, le figure misteriose, le scene cariche di un pathos insopportabile – e riesce nell’impresa di far scorrere inavvertite due ore e mezza di certo non semplici: una sorte di summa del suo modo di raccontare e forse non è un caso che la sua arte si sia in pratica fermata qui.