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Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe - Hansel & Gretel: Witch Hunters (2013) Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe (2013)
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Tra i molti modi di gestire la parentela obbligata con la favola di riferimento, Tommy Wirkola sceglie di usarla come base, assunto da riportare fedelmente per poi raccontare, con l'atteggiamento geek, analitico e indagatorio tipico del cinema contemporaneo, cosa sia successo dopo la storia nota (e indirettamente cosa l'abbia causata). Dunque, sbrigata in fretta, ancor prima dei titoli di testa, la pratica del tributo alla prima parte del titolo, Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe, si muove di corsa verso la seconda parte del titolo e verso le proprie scelte d'adattamento.
I due fratelli sono cresciuti come avventurieri e si muovono in un mondo dipinto con i toni della graphic novel. Le scelte di messa in scena sono infatti tutte incanalate verso la stilizzazione di personaggi e ambienti, con un gusto particolare per l'anacronismo controllato. Come tipico di una certa tipologia di fumetti anche il film di Wirkola immagina una versione adatta all'epoca di idee, malattie, tecnologie e abbigliamenti moderni. Come in una storia steampunk seicentesca ci sono fucili, grammofoni, giubbotti dal taglio contemporaneo, diabete curato con iniezioni e altri dettagli anacronistici che raccontano come il blockbuster hollywoodiano contemporaneo cerchi, anche quando svincolato da debiti d'ispirazione, di rifarsi all'universo dei fumetti e in particolare a quello delle graphic novel (fenomeno esploso negli anni '80 e '90, quando la gran parte della classe realizzativa hollywoodiana di oggi era nell'età giusta per esserne il target), reimmaginando un passato filtrato dallo stile e dalla moda moderni.
Peccato che Wirkola non abbia l'occhio giusto per il compito o anche solo l'abilità e la capacità di appoggiarsi a collaboratori che l'abbiano. Proveniente da Dead snow, horror norvegese in cui nazisti zombie appena scongelati assalgono turisti di località sciistiche, il regista sembra non essere riuscito a passare ad un livello superiore in quanto a stile e sofisticazione. Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe grida infatti approssimazione ad ogni inquadratura e stacco di montaggio (il comparto di gran lunga peggiore, capace di rendere stranianti i campi/controcampi delle conversazioni e, cosa ancor più grave visto il genere, poco comprensibili le sequenze d'azione), il film sembra tornare serio solo quando si tratta di mettere in scena momenti splatter.
Anche la componente sulla carta più interessante ed originale, ovvero il fatto di avere una coppia uomo/donna dalla fortissima carica sessuale (basterebbe solo la presenza eccezionale di Gemma Arterton) che intrattiene un rapporto stretto e sentimentale eppure casto e fraterno, viene sprecata, preferendogli la separazione dei personaggi per più consuete e stereotipiche avventure (sessuali per l'uomo, sentimentali per la donna) con personaggi terzi.
Nella mediocrità generale purtroppo finisce per incidere poco l'ottimo lavoro fatto sulla resa tridimensionale del film.

Red (2010) Red (2010)
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Tratto dal breve fumetto DC Comics scritto da Warren Ellis e illustrato da Cully Hammer, Red è stato completamente reinventato nella sceneggiatura dei fratelli Hoeber, responsabili dell'inserimento dei compagni di ventura del protagonista e del tono divertito e alleggerito del film. Non è, infatti, come uno dei più significativi adattamenti da un fumetto che si fa apprezzare e ricordare questo film, ma piuttosto come una riuscita composizione di quadri, personaggi e situazioni provenienti da spezzoni di pellicole diverse e originalmente e gradevolmente assemblati. I film come materiali di partenza e il racconto come risultato, dunque, anziché viceversa.
Ecco allora che nel bel prologo con Bruce Willis, ex supereroe in vestaglia, che prende a pugni il sacco dopo colazione, non c'è solo l'eco del suo Butch in Pulp Fiction (il pugile, la colazione, il mitra) ma c'è anche mister Incredibile e Léon (la piantina), mentre arrivati alla scena del ricevimento di gala, vien da chiedersi quando ci siamo già stati, se in un episodio cinematografico della saga di Danny Ocean o in uno televisivo di Alias. Eppure non sono citazioni soffocanti, forse non sono neppure citazioni, e c'è spazio per molto altro, compreso il sublime personaggio di John Malkovich, un panzone paranoico con un maialino di peluche sotto braccio dal quale estrarrà l'arma con cui umiliare una signorotta col bazooka, in una sequenza emblematica dell'operazione nel suo insieme, quanto a connubio tra ironia e spettacolarità.
Ma Willis e Malkovich non sono i soli a portare un valore aggiunto al proprio ruolo: a loro modo lo fanno anche "la regina" Helen Mirren, con il richiamo sornione alla passione tutta inglese per il giardinaggio, e Brian Cox, con la trilogia di Bourne nel curriculum. In assoluto, oltre a qualche buona battuta e a qualche ambientazione più originale del solito, è essenzialmente a quest'alchimia tra attore e personaggio che si deve il piacere della visione.
Da segnalare, in coda, un motivo di interesse anche nella figura di Sarah che, nel campionario dei caratteri femminili cinematografici, si può ascrivere come appartenente alla categoria della "palla al piede". Con i romanzetti rosa in testa e le manette alle mani (quando non la pistola alla tempia), pretende ed ottiene di essere portata in prima linea e salvata ogni volta, contribuendo a fare del consenziente Bruce Willis un gentleman come pochi altri.

Mission: Impossible 2 - Mission: Impossible II (2000) Mission: Impossible 2 (2000)
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Dopo l'equilibrio spettacolar fantastico di De Palma, che firmava MI1,ecco John Woo principe dell'effimero. Tutto deve essere (iper)spettacolo, anche una semplice passeggiata per le vie di Siviglia deve promettere qualcosa di straordinario che non c'è: attraverso il rallenty, per fare un esempio. È il solito cinema esasperato da tensioni e scene madri, che la fa da padrone nel nostro tempo. La prima parte di MI2 è tutta una perdita di tempo. Trucchi e orpelli senza sostanza. Poi il racconto prende a ispirarsi a due fra le più belle storie del cinema, Notorious e Intrigo internazionale. E naturalmente comincia a funzionare. Si tratta di recuperare un virus terribile e il suo antidoto. Entra in azione Ethan Hunt-Cruise, agente dell'impossibile. Il suo passepartout è una ladra internazionale. C'è il cattivone e il suo assistente. Alla fine tutto bene. Cruise è sempre più innamorato di se stesso. Risulta davvero incomprensibile la presenza di questa Thandie (bertolucciana), mulatta senza naso.

Le 5 leggende - Rise of the Guardians (2012) Le 5 leggende (2012)
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Il film DreamWorks di Natale quest'anno punta in alto e centra il bersaglio, mettendosi per la prima volta alla pari con l'ultimo Pixar, "Ribelle", se proprio si vuol restare in tema di competizioni e di frecce all'arco. Ma il confronto più utile da fare è un altro e si gioca a livello di fabula. È alle recenti revisioni dei film di supereroi che guarda questo "Rise of the guardians" (fin dal titolo), ovvero alla riscrittura della mitologia dalle origini. Che il progetto sia ambizioso e destinato a porre i semi di una gittata di lungo corso, lo dimostra l'impegno in fase di scrittura, con William Joyce arruolato per lavorare contemporaneamente alla saga letteraria e al film (sceneggiato da D. Lindsay-Abaire), ma evitando la sovrapposizione immediata. Se la Aardman si era spinta a dare un'aggiustatina alla composizione famigliare di Babbo Natale, indovinando un terreno sempreverde con enormi spiragli d'inserimento, nonostante la longevità della tradizione, qui l'operazione è palesemente più massiccia e simile ad una ricolonizzazione in tutta regola. Sunny, Tooth, Sandy, Boogey e Manny appartengono alla cultura anglosassone, in alcuni casi, o a più antiche culture nordiche, e vanno importati in Europa e nel resto del mondo con la giusta strategia di comunicazione. Un po' come la festa di Halloween, che non ha caso ha trovato proprio nel cinema l'autostrada della sua diffusione. Scegliendo di privilegiare la storia di Jack Frost, perché è quella che meglio si presta alla messa in discussione che fa gioco al film, Le 5 leggende di fatto riscrive anche gli altri personaggi e si prepara la pista per futuri sbarchi.
Al di là dell'operazione commercial-ideologica, il film di Peter Ramsey riesce, fortunatamente, anche sotto parecchi altri aspetti: ha ritmo, è inventivo, contiene il pericolo di straripamento retorico (per quanto possibile sotto Natale) e coniuga sapientemente mezzo e messaggio, ruotando, in fin dei conti, attorno ad una necessaria sospensione dell'incredulità.

I mercenari 2 - The Expendables 2 (2012) I mercenari 2 (2012)
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A distanza di due anni dal primo capitolo, gli eroi sacrificabili (l'expendable del titolo originale) capitanati da Sly tornano a mettere in mostra i muscoli con altra consapevolezza. Superato il rischio dell'inattualità a suon di biglietti venduti - I mercenari ha incassato 274 milioni di dollari - e quello della ripetizione della stessa formula con la serializzazione, sostituiscono alla nostalgia il diritto ad una seconda e ancora più fracassona avventura. Il film diretto da Simon West non ha nessun timore di essere fuori tempo massimo, scegliendo, a titolo di esempio, di limitare quel contributo della tecnologia così centrale negli action contemporanei per far sfoggio solo degli attori messi in scena e delle loro rispettive mitologie.
Se, nella prima pellicola, Stallone quasi plasmava un super-corpo collettivo, formato dai divi che - in epoche diverse - hanno trasformato il cinema d'azione in pura performance fisica e, nel peggiore dei casi, in propaganda politica, oggi sviluppa una storia autonoma ben al di là del sapore della rimpatriata. Nella sua disarmante prevedibilità, la sceneggiatura scritta dal divo italoamericano accumula sequenze esplosive - soprattutto il primo quarto d'ora - momenti introspettivi, corpo a corpo condotti con le specialità di ognuno e un'ironia, purtroppo, non sempre in grado di amalgamarsi. Sia sufficiente pensare all'incontro con Chuck Norris, nel pieno della parodia, o alle battute di Arnold Schwarzenegger per capire che sotto alla storia principale ne scorre un'altra che riguarda le carriere di ognuno: dopotutto, la possibilità di eludere la fine del proprio mito a colpi di botox oppure mischiandosi con i colleghi più giovani, qui, appare meno patetica di quanto si possa immaginare.
Quest'antologia del cinema al testosterone degli ultimi trent'anni ricorda solo incidentalmente la formula di classici come Il mucchio selvaggio o Quella sporca dozzina - citati da Stallone come ispirazione - perché mette in gioco un tipo di racconto che all'elegia preferisce l'esibizione e alla stretta eventualità della fine una diffusa immortalità. Peccato che il ruolo di Jet Li sia limitato alla prima sequenza. Girato principalmente in Bulgaria.

Prince of Persia - Le sabbie del tempo - Prince of Persia: The Sands of Time (2010) Prince of Persia - Le sabbie del tempo (2010)
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Da quando la Disney ha deciso di sopperire al declino delle sue opere d'animazione lavorando in sinergia con il produttore di blockbuster Jerry Bruckheimer, la sintesi chimica che ne è venuta fuori ha visto unirsi il tocco magico delle fiabe con la frenesia adrenalinica di Bad Boys, il fantastico più mirabolante con il muscolare più spinto. Così, dopo la riscoperta del genere piratesco in funzione fantasy dei Pirati dei Caraibi e la caccia al tesoro intorno al mondo de Il mistero dei Templari, Disney e Bruckheimer lanciano un nuovo possibile franchise che attinge in parti uguali dal romanticismo delle avventure esotiche, dal mondo dei videogiochi e dai loro stessi patrimoni.
La fonte d'ispirazione videoludica è un brand che permette di sviluppare una continuità tanto con l'universo di Topolino che con il fantasy-action più moderno: il principe Dastan di Jake Gyllenhaal è un Aladdin in carne e ossa dotato di un'agilità e una capacità di destrezza consentite unicamente dalla mobilità di un joypad, così come la storia magica che consente di riavvolgere il tempo e di scatenare un vero e proprio Armageddon di fuoco, vento e sabbia, pare fuoriuscire direttamente da un roboante finale di un'avventura disneyana. Non potendo contare né sul simpatico carisma del Capitan Sparrow, né sugli enigmi nascosti nella Storia statunitense, Mike Newell spinge al massimo le dinamiche apprese sul set di Harry Potter e gioca sul continuo incalzare delle azioni. La prevalenza di piani stretti, il montaggio ipercinetico, perfino le schermaglie amorose di Dastan e Tamina fra una sequenza d'azione e l'altra: tutto è finalizzato a mantenere il fiato corto e a tenere alte le soglie dei sensi. Ma non è solo la componente dinamico-estetica a cercare di mantenere il passo accelerato della contemporaneità, ma anche la politica, che vede l'esercito del regno invadere una roccaforte iraniana perché sospettata di nascondere armi delle forze ribelli e un bislacco sceicco proprietario di struzzi da corsa lamentarsi della situazione dei piccoli imprenditori. È però la grana grossa di questi vari elementi a rischiare di inceppare la clessidra del film e a non permettere a questa rivisitazione sinceramente (video)ludica de "Le mille e una notte" di scorrere fluidamente.
Anche se Prince of Persia cerca attraverso l'esuberanza di esercitare una pressione costante, è la mancanza di un'omogeneità fra le varie sequenze e nelle dinamiche fra i personaggi (con la sola eccezione di Gyllenhaal e della Arterton) a non dar vita ad uno spettacolo integro e pienamente appassionante. L'atteggiamento spavaldo e rutilante si impegna da solo a lasciare il segno, ma alla fine pare proprio che il destino della propria avventura sia scritto sulla sabbia.

Jupiter - Il destino dell'universo - Jupiter Ascending (2015) Jupiter - Il destino dell'universo (2015)
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C'è di nuovo la coltivazione e il consumo della razza umana al centro dell'immaginario dei fratelli Wachowski. Gli uomini sono una massa indistinta come piante in un campo, da predatori di risorse del pianeta (come la maggior parte della fantascienza li ha sempre immaginati, non ultimo il contemporaneo Interstellar) a risorse essi stessi, prede di altri coltivatori. In Jupiter - Il destino dell'universo non sono più le macchine di Matrix a bramare il possesso dell'umanità ma razze aliene più antiche, potenti, ricche e nobili, casati che da millenni si mantengono giovani grazie allo sfruttamento di razze come quella del pianeta Terra e ora, dopo la morte della madre padrona, sono in lotta per la successione.
I principali innovatori della fantascienza del nuovo millennio scelgono stavolta di fare un passo indietro. Dopo il grande affresco corale e storico di Cloud Atlas, mettono a fuoco una storia che ha tutte le caratteristiche del cinema di 30 anni fa. Una piccola pedina di un grande gioco è in grado di far crollare tutto il sistema, la più insospettabile e ordinaria delle carte, un'umana, si rivela il pezzo più pregiato in uno scacchiere che non conosce e di cui sa pochissimo. A ridare vitalità a questo tuffo nel recente passato del cinema c'è per fortuna l'epica avventurosa che i fratelli sanno infondere alle loro scene madri.
L'universo che i Wachowski mettono in piedi senza appoggiarsi a fumetti, libri o altri film antecendenti a questo ha il sapore dei grandi affreschi, pieno di dettagli, regole e ordini, cita apertamente Brazil, Dune e Ritorno al futuro II senza porsi troppi problemi, risolvendo ogni incongruenza grazie al proprio ritmo e un bieco ricorrere alle dinamiche più classiche di damigella in pericolo e cavaliere sempre pronto. In anni in cui anche la più conservatrice delle case di produzione (la Disney) racconta di eroine che si salvano da sole e relega gli uomini al ruolo, inedito per loro, di comprimario, i Wachowski pongono il loro Jupiter come la controriforma, il ritorno al classico.
Nella maniera in cui centrano bene non solo lo spirito avventuroso di un viaggio oltre il noto, attraverso lo spazio e all'interno di reami sconosciuti, ma anche l'esaltazione dello scontro (specie nel cielo delle metropoli terrestri) c'è il sapore del cinema migliore. Putroppo questo si avverte decisamente di meno quando si tratta di far interagire le loro pedine. Il cuore che dovrebbe battere al medesimo ritmo dei colpi subiti e inferti in realtà è molto meno sollecitato degli occhi. Mila Kunis è brava a rilasciare la tensione con uno sguardo, concentra benissimo l'emozione nei punti che servono e anche le battute più scontate riesce a consegnarle al suo partner come ottimi assist, dall'altra parte però Channing Tatum, perfetto, dinamico e coinvolgente nelle scene d'azione, non raccoglie come dovrebbe.

Mission: Impossible III (2006) Mission: Impossible III (2006)
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Da sempre esiste un cinema d'autore e un cinema commerciale (leggi Hollywood), il primo buono, il secondo cattivo. Ma come molti registi del passato hanno dimostrato, è possibile realizzare un film che sia simultaneamente un oggetto culturale e un prodotto industriale. Mission Impossible III è questo film. Prodotto dalla Cruise/Wagner, interpretato da Tom Cruise e diretto dall'autore rivelazione J.J. Abrams, la terza missione dell'agente Ethan Hunt è compiuta: il "buono e il cattivo" coesistono per rendere desiderabile la visione. Ma il manicheismo del film non si limita alla sola produzione commerciale, per l'agente Hunt, Abrams concepisce un cattivo mai così cattivo, che come un "bravo" si opporrà alla felice riuscita del suo matrimonio.
Alle mille vite di cui pare godere il felino agente di Cruise si contrappone la fisicità burrosa e sofisticata di Philip Seymour Hoffman, uno spietato trafficante ossessionato da quello che Hitchcock chiamava un Mac Guffin, un pretesto che diventa motore della storia. L'oggetto in questione è una "zampa di coniglio" che pare contenere una fantomatica arma chimica, di assoluta importanza per i personaggi e in grado di catalizzare l'interesse dello spettatore. Archiviata la missione "in giallo" di De Palma e rimossa quella "action" di John Woo, la terza riduzione è telegenica, e suoni come una virtù trattandosi della trasposizione di un telefilm.
L'"episodio" di Abrams, come un serial televisivo, contiene e anticipa gli ingredienti della quarta puntata. Il regista, creatore del mondo perduto di Lost, combina l'azione con l'emozione: garantendo la prima col lavoro prezioso di Vic Armstrong, regista della seconda unità e coordinatore delle sequenze più spettacolari, e introducendo la seconda con una regia introspettiva interrotta da flashback. Come in Lost il cinema di Abrams torna indietro nel tempo e col tempo per ricostruire la vita dei suoi personaggi proiettati in una realtà aleatoria e temibile. Per sapere come sopravvivere basterà comprare un biglietto di sola andata per Xitang, un paese di pescatori a due ore da Shangai, dove scoprirete che niente è quello che sembra ma tutto alla fine è decifrabile e plausibile.

Sette anime - Seven Pounds (2008) Sette anime (2008)
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Il titolo italiano, al solito, non "traduce" il senso del secondo film americano di Gabriele Muccino, sostituendo sette pounds (sette libbre) con sette anime e spostando in questo modo l'attenzione dello spettatore dal debitore ai creditori. Di carne, o meglio di libbre di carne, parla invece il titolo originale e aderente alla storia raccontata, riferendosi al pound of flesh (una libbra di carne umana) che "il mercante di Venezia" shakespeariano chiedeva ad Antonio per estinguere il suo debito. Dopo aver affrontato con La ricerca della felicità il dramma a sfondo sociale e a lieto fine, Gabriele Muccino gira un film sulla "donazione" che ha fatto molto discutere in America e altrettanto farà discutere nella cattolicissima Italia. Riconfermato come attore protagonista, Will Smith sembra idealmente restituire, o meglio, ridistribuire un po' della happiness inseguita con tanto accanimento e dopo tante (rin)corse nel precedente film mucciniano. Dopo la redenzione economica del broker Chris Gardner, che intendeva la felicità come ricchezza, il Ben Thomas (sempre di Smith) ricerca una redenzione spirituale che metta a tacere il dolore provocato e il rimorso patito. La supposta distanza, che un regista non americano avrebbe dovuto e potuto garantire rispetto ai meccanismi e alle modalità narrative hollywoodiane, non è in questa seconda esperienza evidente come fu per La ricerca della felicità.
Sette anime è decisamente un film americano che si regge sull'interpretazione degli attori e poco o niente dice dell' "anima" italica che lo ha diretto. Qualche perplessità la solleva pure l'interpretazione non risolta di Will Smith, che rinchiude un dolore cupo e profondo dentro un corpo da supereroe mai tragico, mai corrotto o compromesso dai conflitti inconciliabili del suo protagonista. Se tutto può l'amore, fornendo in qualche modo la chiave morale del film, poco o nulla può contro il ridicolo distribuito a piene mani sull'epilogo, attraversato da affannose corse, frequentato da meduse letali, martellato da un cuore donato e osservato da occhi neri che tornano a guardare. Il tono e il sapore del dramma incombente e inevitabile viene allora travolto da invenzioni maldestre, che precipitano quel poco di intimo che il film era riuscito a costruire, mancando l'abbraccio fatale con il destino inevitabile, bruciando il calore di ciò che è insondabile.

Una parola può cambiare tutto - Yes Man - Yes Man (2008) Una parola può cambiare tutto - Yes Man (2008)
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Da qualche tempo, Peyton Reed tenta un rinnovamento della commedia, ibridandola con ingredienti di segno opposto, ma in Abbasso l'amore la strategia spegneva il romanticismo e il film soffocava, stretto nella sua stessa messa in scena, mentre in Ti odio, ti lascio, ti... avveniva l'esatto contrario e il killer assumeva il volto di un naturalismo fatalmente fuori luogo. Con Yes man, Reed fa centro, affidandosi ad un meccanismo sfornacomicità -l'obbligo, per il protagonista, di accettare l'inaccettabile- che garantisce la risata e mantiene sottotraccia tutto l'amaro che il regista era andato cercando per strade solo apparentemente più consone.
Questa volta, dunque, non manca la formula ma non viene meno il cinema, regno del possibile per eccellenza, della creazione di mondi a partire dal nulla, o da un sì. Nonostante la convention capitanata da Terence Stamp costituisca un innegabile punto debole nell'impalcatura motivazionale, talmente "di servizio" che di più non si può, la grandezza di Jim Carrey permette al suo personaggio di liberarsi in un attimo dalle maglie di un percorso troppo scritto: gli basta una smorfia, un sorriso tirato dei suoi, che sembrano voler dire "è tutta una presa in giro e io posso prendervi in giro meglio di chiunque altro" per far reagire commedia scenica e tragedia umana in modo esplosivo.
Nell'impasto di diverse tonalità del comico c'è, poi, il traguardo più difficile e più interessante: lo slapstick facciale del protagonista -che, invecchiato, è meravigliosamente "più scemo" e meno stupido- si scontra vantaggiosamente col ridicolo di Rhys Darby nel ruolo di Norm (nomen omen) e l'eccentrica tenerezza di Allison/Zooey Deschanel e dei testi della sua band, le Munchausen By Proxy. La scena all'Hollywood Bowl, invece, basta a colmare le lacune romantiche di un'intera filmografia.

Warcraft - L'inizio - Warcraft (2016) Warcraft - L'inizio (2016)
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I numeri degli umani che, dal momento del lancio, hanno comprato il software e aperto un account per entrare nel "World of Warcraft", nelle sue prime e successive uscite, è strabiliante: una moltitudine difficile da visualizzare, esattamente come l'orda di orchi del film, e un fenomeno con radici multiple, legato a sua volta ad un universo di pensiero di diviso in due e zeppo di pregiudizi. Chi sono gli utenti di Warcraft, un'orda di sociopatici frustrati o un'alleanza di creativi, interpreti sani delle opportunità della globalizzazione digitale? Il film giunge come risposta universale: nel buio della sala si potranno sedere gli uni e gli altri, spettatori di ogni età, giocatori virtuali e fini biblisti (il figlio di Durotan viene messo dalla madre in una cesta e affidato alla corrente proprio come Mosè, in attesa di rivestire un ruolo fondamentale nel prossimo capitolo della saga), riuniti e pacificati nel nome del fantasy e della sua natura potentemente allegorica.
Gli orchi che si affollano all'entrata del portale magico per l'altro mondo, dopo che il loro è stato raso al suolo dalla politica di un dittatore assetato di sangue e potere, sono infatti personaggi dell'oggi e di sempre, che le magie grafiche della ILM e gli occhialini 3D permettono di vedere in più dimensioni: da lontano come branco indistinto, preda di tradizioni tribali e rumorose, e da vicino, come esseri più che mai antropomorfi, la cui etica è spesso più solida di quella degli uomini stessi.
Duncan Jones, specialista di storie a cavallo tra due mondi, si cimenta col kolossal con discreto successo, guardando decisamente più verso L'Ultimo dominatore dell'aria che alle creature di Peter Jackson e indovinando perfettamente il cast, a partire da Travis Fimmel nei panni di Lothar.
Una guerra senza buoni o cattivi, dove la violenza stessa è presupposto e condanna, ultima ratio e unica alternativa. Jones asseconda l'urgenza narrativa con grande senso del ritmo e fa del suo meglio per spianare un sentiero emotivo riconoscibile nel campo troppo vasto, monocromatico e caotico che è di sfondo agli Orchi. Non è che l'inizio della saga, dunque le priorità narrative sono molte e lo spazio per le sfumature risicato. Il limite maggiore del film sta infatti nella natura classica e prevedibile degli snodi di trama e si ha la sensazione di star assistendo a ciò che deve accadere prima che cominci il bello. Per fortuna, non tutto è rimandato: attorno ai personaggi del dolente Lothar, della mezzosangue Garona e di Khadgar, l'apprendista guardiano, prende rilievo un film nel film in grado di appassionarci quanto basta fino allo scadere del tempo.

Angeli e demoni - Angels & Demons (2009) Angeli e demoni (2009)
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Ha ragione Umberto Eco, il piacere del lettore (e dello spettatore) non risiede nel godere della novità della storia, "che è fondamentalmente sempre la stessa", ma nel ricorrere di uno schema narrativo fisso e nel ritrovare l'eroe noto, con le sue abitudini, le sue espressioni e le proprie tecniche di soluzioni dei problemi e dei misteri. È probabilmente per questa ragione che Ron Howard ha scelto di girare il sequel (letterario) di un prequel, introducendo l'identico, opportunamente aggiornato e sviluppato. Nel cuore spirituale di Roma e al centro del film, (ri)troviamo allora l'esimio professore Robert Langdon reduce da uno "scoop esoterico", ansioso di lanciarsi in un'altra impresa di pensiero e di averla vinta sui cattivi di turno. Il campione della ragione, rielaborazione del John Nash di A Beautiful Mind, dovrà vedersela questa volta con una sedicente e antica confraternita, dentro le chiese romane e dentro un'abile miscela di esoterismo, storia dell'arte, fisica fondamentale, anima e anti-materia, revisionismo e provocazioni, al solito, in odore di blasfemia.
Tre anni dopo Il Codice da Vinci, best-seller di Dan Brown sulla natura umana di Cristo e il suo amore per la Maddalena, Ron Howard adatta per lo schermo Angeli e Demoni, prima avventura del nobile professore che muoverà verso una forma di esistenza superiore, verso l'eccellenza del cavaliere. Se la Chiesa edificata negli studios ha rimesso debiti e peccati a Robert Langdon, invitandolo in Vaticano per fare luce e dare "ragione" di una minaccia di matrice occulta, quella costruita sulla pietra (e sulla fede di Pietro) ha di nuovo avviato una campagna di boicottaggio e di contro informazione. Riconosciuto il diritto di indignarsi della narrativa da saccheggio di Dan Brown, ammessi i pregiudizi anticlericali e la singolare ignoranza dei cattolici, praticanti e non, in fatto di problemi scritturali e di storia della Chiesa, resta la domanda entro quali limiti tale posizione possa essere esercitata. Senza sottovalutare il ruolo del cinema e della letteratura nella formazione delle coscienze, è d'altra parte evidente quanto la cialtroneria della ricostruzione storica, che soltanto i blockbuster hollywoodiani possono esibire (e vantare), sia lontana dal produrre un qualsivoglia collasso del pensiero cattolico e della sua mitologia. Il fascino per la "teoria del complotto" e per la cosiddetta "storia alternativa" sono le ragioni che hanno mosso una fetta larga di lettori e che muoveranno una parte altrettanto consistente di spettatori, ansiosi di gustare il ritorno dell'attesa. Ma da almeno duemila anni il bisogno di mistero e la resa incondizionata alla seduzione dell'irrazionale valgono bene una crociata.

Ricatto d'amore - The Proposal (2009) Ricatto d'amore (2009)
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La commedia matrimoniale newyorchese, un vero e proprio genere a sè, va in trasferta in Alaska, dove risiedono i genitori dello sposo e dove si svolgerà gran parte del film (dopo l'opportuna introduzione cittadina). Retaggi indiani all'acqua di rose, beghe familiari di poco conto e un'evoluzione dei personaggi ai minimi storici tuttavia non inficiano eccessivamente la godibilità di un film diretto con gusto, ritmo e qualche guizzo.
Come già nel precedente 27 volte in bianco ad Anne Fletcher non viene dato nulla di ciò che solitamente è concesso ai registi di questo tipo di film. Non gode di attori carismatici, non ha caratteristi d'eccezione per i ruoli di secondo piano, non ha uno script degno di questo nome (la trama vecchio stampo sembra rubata ad una commedia screwball degli anni '40) e non ha nemmeno un'ambientazione coreografica e suggestiva come New York. Ma la coreografa è lei. Anni d'esperienza nel mondo della danza in teatro consentono alla Fletcher un approccio plastico ad ogni scena e un modo di concepire la scansione del racconto che si incentra su singoli assoli di ogni personaggio invece che basarsi sulle solite scene di gruppo in cui ognuno dice la propria.
In questo la solita commedia sulla battaglia fra i sessi acquista un po' di spessore. Le idee visive della Fletcher cercano la sorpresa e sono in una curiosa armonia con l'Alaska, luogo sconosciuto alla protagonista e straniante per chi non ci ha mai vissuto a causa delle sue peculiarietà ambientali.

Raya e l'ultimo drago - Raya and the Last Dragon (2021) Raya e l'ultimo drago (2021)
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Da Dante Alighieri a oggi è sempre una questione legata alle tre "fiere": lince, leone e lupa - lussuria, superbia e cupidigia - mali oscuri del debole uomo, prima indotto in errore da loro e poi obbligato a pagarne le conseguenze. Una nota malinconica e pessimista accompagna tutto Raya e l'ultimo drago, a partire dall'inizio in medias res, che ci cala in una distopica landa desertica, degna di Mad Max: Fury Road.
Raya è parte Furiosa e parte Max, oltre che Rey di Star Wars: un crocevia di principessa disneyana ed eroina action da post #metoo. Così come Sisu, il drago che finirà per accompagnarla nelle sue avventure, unisce i tratti della tipica spalla disneyana, con lo humour stralunato del genio di Aladdin e l'aria un po' svampita e sopra le righe di Dori da Alla ricerca di Nemo (le fattezze invece tradiscono la somiglianza con Awkwafina, rapper e personaggio mediatico che, nella versione originale, presta la voce al doppiaggio del personaggio).
A emergere come personaggio meglio delineato dalla sceneggiatura è l'antagonista Namaari: la tensione che la dilania, scindendola tra dovere di figlia verso il proprio popolo e aspirazione utopistica legata ai sogni di bambina, è il cuore del film e forse rappresenta la chiave di volta disneyana sul ruolo del nostro fanciullino interiore di fronte all'apocalisse.

Il ponte delle spie - Bridge of Spies (2015) Il ponte delle spie (2015)
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Quando si accendono le luci mentre scorre il solito rullo di coda di lunghezza infinita, il primo pensiero che si affaccia in mente somiglia a ‘ah, i bei filmoni che si facevano una volta’. Perchè, con un’architettura drammaturgica accurata e una messa per immagini che sa emozionare più di una volta, il lavoro di Spielberg va oltre i propri difetti e avvolge lo spettatore riscaldandolo piacevolmente. Ovviamente, nei filmoni di una volta, iI buoni erano tutti da una parte e i cattivi pure un po’ stupidi dall’altra, perciò chi è affetto da antiamericanismo acuto sia avvisato, ma la bravura del regista nel raccontarci questa favola è tale che si può per una volta ignorare l’ennesimo mattoncino nell’edificazione del mito a stelle e strisce. A controbilanciare la questione, sta, inoltre, l’interesse spielberghiano sempre concentrato sulle persone e sulle relazioni che si instaurano fra di esse, mentre la storia (con la maiuscola o meno) fa da sfondo: la costruzione del rapporto tra Donovan (Tom Hanks) e Abel è tutto incentrato sul crescente rispetto che si va instaurando fra i due, laddove a Berlino lo stesso Donovan insiste a parlare di uomini quando discute dello scambio di prigionieri. In più, a voler ben vedere, con ‘Il ponte delle spie’ si hanno due film al prezzo di uno – il processuale nella prima parte con tanto di triangolazioni che coinvolgono giudice e pubblica accusa, lo spionaggio classico nella seconda – e quindi è davvero difficile lasciare la sala insoddisfatti. La vicenda romanza (parecchio) dei fatti accaduti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: a New York è arrestato Rudolf Abel (notevolissima l’interpretazione di Mark Rylance) perchè sospettato di essere una spia sovietica e gli viene assicurata una difesa competente per dimostrare la superiorità del sistema americano. La patata bollente viene scaricata a Donovan dal suo capo (è sempre un piacere ritrovare Alan Alda), ma ben presto l’avvocato si appassiona in quella difesa dei diritti dell’accusato che doveva essere solo formale, arrivando fino alla Corte Suprema; è sconfitto ogni volta, ma almeno gli salva la pelle. Così, quando Gary Powers (Austin Stowell) si fa abbattere con il suo U-2 - Eve Hewson interpreta la figlia di Donovan - c’è una pedina di scambio: ne conseguono la trasferta in una gelida e imbiancata Berlino e i contatti con sovietici e tedeschi orientali con la rituale partita a scacchi che conduce all’inevitabile finale girato sul vero ponte di Glienicke. A parte il fatto che il protagonista poi ritorna a casa dove è ancora tarda estate, la rappresentazione della capitale tedesca è davvero efficace, staccando con i suoi bianchi sporchi alternati ai grigi metallici con le tonalità assai più calde presenti negli altri segmenti, oltre che nell’ambasciata sovietica (la fotografia è del polacco Janusz Kaminski, in Polonia è stata ricostruita la Berlino post-bellica ormai impossibile da ritrovare nella città odierna): la forzatura dell’edificazione del muro serve a raccontare un momento storico fondamentale e ad aumentare le difficoltà che l’avvocato si trova a superare. Malgrado i rischi, la narrazione procede mantenendo ai minimi i livelli di retorica: soggetto e sceneggiatura sono firmati da Mark Charman assieme ai fratelli Cohen e viene facile immaginare che i moltissimi tocchi di ironia sparsi un po’ ovunque siano soprattutto farina del loro sacco, come, uno fra tutti, il tormentone dei raffreddori berlinesi. Accompagnati dalla partitura poco invadente di Thomas Newman, gli attori offrono anch’essi una prova di alto livello: già detto dell’interpretazione dell’inglese Rylance sostenuta dalle capacità affinate in teatro (ovviamente nel doppiaggio va persa la differenza di accento, Abel era russo ma cresciuto in Scozia), fra le altre comunque irreprensibili, va sottolineata ancora una volta quella di Tom Hanks, la cui bravura è ormai una sicurezza. La raffinatezza con cui impersona Donovan è causa di un’empatia immediata, anche se è lecito il dubbio che il vero avvocato impiegasse un po’ più di due secondi a prendere qualsiasi decisione (immancabilmente giusta): ma se si tratta di una favola, per di più raccontata così bene, che problema c’è?

L'ultimo samurai - The Last Samurai (2003) L'ultimo samurai (2003)
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Last Samurai porta la firma di Tom Cruise più che del suo regista, Zwick, che si conferma un discreto mestierante: la sua è una regia senza impennate né cadute, prevedibile ma godibilissima. Nel complesso il film è molto curato e la minuziosa rappresentazione di una cultura a noi così lontana tiene alta l'attenzione fino alla fine, nonostante le due ore e mezzo di durata complessiva. Visivamente prezioso, risaltano purtroppo tre pecche troppo comuni al cinema hollywoodiano di oggi: la morale "a la Rocky Balboa" eccessivamente pervasiva e al limite della nausea; i dialoghi macchinosi e senza mai un guizzo; come mai per quanto venga riconosciuta la grandezza morale altrui (nel caso specifico il samurai) c'è sempre un americano che è un pochino più grande?

Una notte al museo 2 - La fuga - Night at the Museum: Battle of the Smithsonian (2009) Una notte al museo 2 - La fuga (2009)
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Se il target del primo Una notte al museo era "familliare" qui bisogna abbassare l'età consigliata di almeno un paio d'anni. Shawn Levy (questa volta senza l'aiuto del prodigioso Guillermo Navarro) non devia in nulla rispetto a quello che ci si aspetta da un sequel hollywoodiano, prende cioè gli elementi che si sono rivelati di maggiore successo del primo film orchestrandogli attorno una trama diversa (ma nemmeno troppo), che sfrutti un nuovo scenario e che metta in pratica il motto prettamente statunitense per il quale "the bigger the better". Più effetti, più creature, più attrazioni, più stanze e via dicendo, che si tradurranno in meno divertimento e più noia.
Anche il percorso del protagonista sarà quello già visto: il personaggio di Larry nonostante l'evoluzione e il successo professionale è allo stesso punto di partenza del primo film, se lì cercava un lavoro per realizzarsi qui non si sente realizzato con il lavoro che ha e la risposta sarà ancora una volta il museo.
A cambiare fortemente è l'impianto pedagogico del film che per larghi tratti di fatto decanta e pubblicizza lo Smithsonian Museum e per altri snocciola nozioni di storia americana. Dati i personaggi storici coinvolti e il target dell'opera è infatti impossibile non considerare come indirettamente (ma anche direttamente) Una notte al museo 2 sbandieri e promuova una determinata visione della storia del proprio paese.
Una visione che inevitabilmente risulta neoconservatrice e per la quale, ad esempio, il generale Custer era sì un po' cretino (la storia del resto gli ha dato torto) ma in fondo buono, che magnifica i propri presidenti (saranno loro a salvare tutto) e che contrappone i campioni americani (tenendo in seconda linea però donne e neri) a tutto un esercito di cattivi sempre stranieri.
Incommentabile l'adattamento italiano che non solo abusa arbitrariamente di parlate dialettali ma opera anche una serie di cambiamenti nei dialoghi inserendo provinciali riferimenti all'attualità nostrana. Riferimenti che non solo cozzano con il film (Napoleone che parla come Berlusconi, Custer che dice di pettinarsi con 100 colpi di spazzola e il cowboy che afferma: "Sei matto come Cavallo Pazzo!") ma che sono anche incomprensibili ad un bambino.

The Fast and the Furious: Tokyo Drift (2006) The Fast and the Furious: Tokyo Drift (2006)
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Ambientato in una Tokyo decisamente underground, e ricco di momenti altamente adrenalinici, The Fast and the Furious: Tokyo Drift fa accelerare i battiti cardiaci a ritmo di musica e di motori rombanti. Sia chiaro: a parte le gare, le macchine preparate, e le feste piene di belle ragazze, la pellicola offre ben poco (pur riservando una sorpresa finale). Ma non è detto che ogni film debba insegnare qualcosa o divenire simbolo di una generazione, come nel caso di Gioventù bruciata. Chi sceglie di vedere The Fast and the Furious: Tokyo Drift potrebbe volere anche solo distrarsi per un'ora e trentasette minuti e sentire il brivido dell'alta velocità, senza provarla sulla propria pelle.

Madagascar 2 - Madagascar: Escape 2 Africa (2008) Madagascar 2 (2008)
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Nuovamente pesci fuor d'acqua, per opera dei registi Eric Darnell e Tom McGrath, cui si aggiunge in sede di scrittura Etan Cohen (Tropic Thunder), i quattro dello zoo di Manhattan si ritrovano a fare i conti con un secondo e ben più pregnante rovello identitario: scoprire di non essere soli al mondo ma, al contrario, parte di una comunità di esseri identici o di una famiglia con un carico impegnativo di aspettative può esser causa di una crisi che non si risolve semplicemente con un balletto sul cubo.
Mentre la vicenda di Alex, del padre Zuba e dell'usurpatore Makunga scorre sul binario principale, talvolta passando per i solchi tracciati dal Re Leone, gli sceneggiatori possono sbizzarrirsi con quanto di meglio hanno per le mani: la giraffa ipocondriaca, i pinguini meschini e militarizzati (uno schianto) e re Julien, uno dei personaggi più assurdi e divertenti che la Dreamworks abbia mai animato (interpretato non a caso, nella versione originale, da Sacha Baron Cohen). A margine di una linea primaria in cui la vena emotiva si fa decisamente più pulsante rispetto al primo capitolo, le linee narrative secondarie scherzano intelligentemente con l'ambientazione -con i turisti dei safari, la medicina naturale, l'immaginario legato ai sacrifici propiziatori- e meno con i modelli cinematografici.
Mentre gli animali vanno alla ricerca delle loro radici e i paesaggi vanno oltre la bellezza del tratto e scivolano nella poesia, la musica black fa da fil rouge, tanto che si potrebbe dire -per rubare una battuta ad Alex the king- che il primo Madagascar era un film bianco con le strisce nere mentre questo secondo è... un film nero con le strisce bianche.

Easy Girl - Easy A (2010) Easy Girl (2010)
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Il setting, ovvero l'alveare scolastico in cui api e fuchi ronzano tra corridoi, mense, aule e cortili con la precisazione intenzione (che il copione si occupa di sabotare) di schivarsi opportunamente o scontrarsi piacevolmente, è luogo noto e frequentato, da cinema e tv, quanto una bella spiaggia in agosto. Distinguersi al suo interno, a meno di non sconfinare nel fantastico (Twilight), è impresa meno scontata. Ci riesce bene Easy girl (che nel titolo originale si dà il voto da solo: A), impastando in modo nuovo i topoi del genere e affondando la sua lama oltre quella del dignitosissimo Mean Girls, senza mai perdere la tenerezza e la verosimiglianza, gentilmente fornite dallo spirito guida del film, John Hughes.
Il film, che formalmente trova una formula semplice ma efficace e azzeccata, utile a tenere saldi ritmo e curiosità, salta tanto le tipologie antropo-teen più abusate (non ci sono secchioni, supersportivi, nerd brufolosi, ma solo qualche molesta bionda ultrareligiosa) quanto le premesse inutili e sorpassate: non si tratta di perdere un'innocenza che non esiste, ma di testare in prima sofferta persona la spinta all'omologazione di un'età tanto cruciale quanto sorda e cieca, e di approdare a quel riconoscimento e apprezzamento di sé che è il fine di tanti racconti simili imboccando però una strada inversa al comune senso di marcia.
Per farlo, ci voleva una protagonista speciale e questo film ce l'ha. La Olive di Emma Stone, per la prima volta star assoluta dello show, con una voce che andrebbe davvero ascoltata in versione originale, è sveglia e tosta a sufficienza, degna figlia - cinematograficamente parlando - di due genitori quali Stanley Tucci e Patricia Clarkson.
Esce dal cilindro un ritratto attendibile, orchestrato non a caso come una video-documentazione, di una generazione di giovani americani disposti a pagare perché si dica in giro che fanno sesso senza che sia vero (se il quadro sia più divertente o più avvilente è questione aperta e detta il tono agrodolce del film) e un bel modo di rispolverare il romanzo di Hawthorne, senza esimersi dallo sconsigliare apertamente l'adattamento con Demi Moore.

Captain Phillips - Attacco in mare aperto - Captain Phillips (2013) Captain Phillips - Attacco in mare aperto (2013)
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Greengrass si trasferisce dal ventre dell'aereo United 93 a quello di una nave che porta soccorsi umanitari, ma la sostanza non cambia, e non solo perché si tratta della ricostruzione di una storia vera, ma soprattutto perché, se là era la fine ad essere nota, qui lo è in qualche modo la premessa. Il governo americano non abbandona i suoi cittadini (è una morale che torna sempre più spesso nei film hollywoodiani degli ultimi anni), foss'anche uno solo, e non importa quali e quanti costi umani e militari questo comporti. La cavalleria arriverà e quella somala potrebbe allora tradursi in un'altra missione suicida, ma -ancora una volta- l'abilità cinematografica di Greengrass sta tutta nel saper creare, tra due estremi noti, una tensione che non lascia scampo.
La scrittura non è mai stato il punto di forza dei film da lui diretti, e i dialoghi di Captain Phillips non si segnalano per particolare smalto, ma questa volta la dinamica narrativa è più semplice e al contempo più sofisticata. Dalla condizione di assedio, che vede tutti contro tutti, il film vira ad un certo punto verso un contesto più asfittico e cardiopatico: l'Iliade si trasforma così in Odissea e Philipps si ritrova a vivere una serie di peripezie in solitaria. Per tornare a casa, dovrà ricorrere alle sue doti umane (il rapporto tra i due capitani è lo spazio emotivo del film), all'astuzia e alla fede in un'entità superiore (i Seals).
L'ambientazione in alto mare, il ritratto lucido della Marina statunitense nei suoi vari gradi, l'impatto visivo e metaforico della piccola scialuppa circondata dalle enormi navi da guerra sono parte integrante dello spettacolo inscenato da Greengrass. Completa il quadro la performance di Tom Hanks e il cast di non professionisti che dà sguardo e sangue ai pirati somali. Non si cerchino, però, grandi spunti etico-politici: that's entertainment.

Millennium - Uomini che odiano le donne - The Girl with the Dragon Tattoo (2011) Millennium - Uomini che odiano le donne (2011)
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Più affine alla letteratura gialla di Friedrich Dürrenmatt che ai romanzi giallosvezia di Stieg Larsson, il Millennium di David Fincher produce arte là dove nessuno se lo aspetta e avvia un'indagine più importante della soluzione. 'Colpevole' degli esiti più felici e rilevanti del genere delittuoso e seriale (Seven e Zodiac), Fincher realizza una versione autoriale del primo episodio di "Millennium", trilogia poliziesca già adattata per lo schermo da registi ordinari e scandinavi. Introdotto da "Immigrant Song" dei Led Zeppelin (nella cover di Karen O., Trent Reznor e Atticus Ross) e 'terminato' da "Orinoco Flow" di Enya, Millennium ribadisce l'ossessione del regista per il delitto e la decodificazione. Sotto il segno del male e dentro baratri esistenziali, invariabilmente lastricati da sangue, lividi e ferite, il suo thriller nero rifiuta come il Vanger di Christopher Plummer lo sguardo superficiale. Per questa ragione il patriarca al tramonto assolda Mikael e Lisbeth, diversamente motivati ma incarnazioni ugualmente silenti e laboriose dell'individuo che respinge il sistema chiuso e omertoso in cui è costretto a muoversi e contro il quale mette in piedi ipotesi e intuizioni.
Altrimenti da Oplev e da Alfredson, l'autore americano esce dai confini 'nazionali', dal paese dei Nobel, dal benessere scandinavo e dai suoi rovesci sociali, per abitare un'inquietudine indeterminata e assumere uno sguardo astratto sul disagio dello stare assieme. A dirla tutta il romanzo di Larsson prima di essere adattamento si adatta alla poetica fincheriana, che riguarda da sempre la morale individuale e la patologica condizione di smarrimento interiore dell'individuo nella società contemporanea. Millennium secondo Fincher innalza la temperatura interpretativa e chiarisce una volta per tutte che l'adattamento non è una traduzione (fedele) ma un'interpretazione, o perlomeno ne implica una. In questo senso la trasposizione dell'autore è qualcosa di diverso dal romanzo di origine, una riscrittura che scava più in profondità, producendo valore aggiunto, illuminando Larsson e concedendo un'ulteriore chance al suo romanzo.
A muovere la situazione di impasse apparente, accumulando dettagli utili a edificare una costruzione indiziaria e contro un conclamato fraintendimento del reale e delle evidenze, ci pensano la Lisbeth diafana e disperatamente vitale di Rooney Mara e il giornalista assediato e depotenziato di Daniel Craig, crepe luminose che lottano per dare visibilità a esistenze e corpi inghiottiti dal nulla, ricercatori (in)sani che indagano con fiducia nella verità dentro l'impenetrabilità dello spazio domestico. E l'iniziazione alla verità nel cinema di Fincher avviene sempre in un 'mondo parallelo'. Agli scenari allestiti dal serial killer mistico di Seven, ai club notturni e alle cantine sporche di Fight Club succede la Hedestad immaginaria di Larsson, un territorio 'raffreddato', un luogo mentale che disprezza il presente (e lo stile Ikea), che esala vapori densi e l'odore cattivo degli spurghi dell'anima. Aperto alle innovazioni tecniche e sperimentatore indefesso di soluzioni visive potentemente funzionali al racconto (nel modo dei titoli di testa), Fincher riapre il caso 'Larsson' e fa giustizia.

Jack Reacher - La prova decisiva - Jack Reacher (2012) Jack Reacher - La prova decisiva (2012)
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Ex investigatore dell'esercito americano, mosso soltanto dagli imperativi morali di giustizia e verità, e dunque al di sopra della legge, il Jack Reacher di Tom Cruise assomma tali e tante qualità mitiche da risultare quasi ridicolo. Con un piede ancora negli anni Ottanta, sul suo Top Gun, ma una lucidità mentale che non ha nulla da invidiare a Sherlock Holmes, non si può davvero prendere troppo sul serio. Dopo di che, smessa l'insana pretesa, il divertimento è innocuo e garantito.
Se non è la scrittura brillante, piena di battute, ad illuminare la vera natura del film, perché in realtà essa si affianca a tutta una serie di altri elementi, dal romance al thriller, collezionati per non farsi mancare proprio nulla, lo è però sicuramente la presenza di Werner Herzog. Il suo Zec è il personaggio chiave dell'insieme: qualcuno che si diverte a giocare al duro e lo fa con immensa classe, nessuno sforzo e il sorriso sotto la maschera. E lo stesso vale pe Robert Duvall. Tom Cruise e la malcapitata Rosamund Pike, invece, si trovano in una posizione più scomoda, perché è evidente che a lui manca qualsiasi distanza critica e lei, di conseguenza, è sua prigioniera.
Basato su "La prova decisiva", nono romanzo della serie creata da Lee Child con protagonista Jack Reacher, il film conta una gestazione record di ben sette anni, ma il risultato, per quanto godibile, non premia affatto Christopher McQuarrie. Lo sceneggiatore dei Soliti sospetti, qui impegnato con entrambe le mani, nella scrittura e nella regia, fa la fine del presunto killer e si ritrova ad essere un burattino comandato da mani altrui. Non c'è dubbio alcuno, infatti, che il regista dell'impresa sia Cruise stesso, che si fa cucire su misura scene in cui è in grado di sedurre una ragazzina con la forza morale del suo sguardo o altre in cui, nel bel mezzo della massima urgenza, si prende il tempo di preferire ad un efficace scontro armato una bella scazzottata goliardica a mani nude.
Dimenticate le sottigliezze del metodo deduttivo e le ombre di Bourne, e piuttosto, se credete, rimpiangete Sly.

La mummia - Il ritorno - The Mummy Returns (2001) La mummia - Il ritorno (2001)
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Dopo il grande successo del primo episodio poteva non esserci il ritorno della mummia? No davvero. Ecco il film tracimare di effetti speciali, sempre più stupefacenti, e sempre più all'eccesso, fino al punto di oltrepassare il confine. Che la storia presenti un incremento di intreccio è naturale: le due mummie del primo episodio, portate a Londra, resuscitano, e cercano di rapire il figlio di Evelyn e di Rick. Primo nodo. Si aggiunge un nuovo personaggio già sulle magliette dei teen americani, il Re scorpione. Orrendo mostro che vuole conquistare il mondo alla testa di un esercito di zombi.

Wanted - Scegli il tuo destino - Wanted (2008) Wanted - Scegli il tuo destino (2008)
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Nel Wanted di Timur Bekmambetov, un telaio misterioso sostituisce le capacità divinatorie dei precog di Spielberg, capaci di pre-vedere un omicidio, producendo il nome della vittima e del suo assassino (Minority Report). Se i precog non hanno relazioni con il mondo, eccezione fatta per le allucinazioni che la loro mente proietta all'esterno, i giustizieri in action, nati dalla penna di Mark Millar e dai disegni di Jeffrey G. Jones, sono "eroi" conservatori che sorvegliano e puniscono con la morte i nominati dalle trame del Fato, azzerando in questo modo il numero dei delitti e garantendo i delicati equilibri del mondo.
Sperimentando le innovazioni tecnologiche legate al cinema, il regista kazako dei guardiani night and day, irrompe a Hollywood e costruisce un film sul controllo della verità e sulla sua trasformazione in regime, sulla perdita della privacy e della libertà a vantaggio di una sicurezza che implica l'annullamento dell'individuo (se pure criminale).
Nonostante l'intensità del look e il ritmo vertiginoso delle riprese, nonostante i prodigiosi istanti congelati, che isolano e sospendono gli scontri fisici tra i personaggi, il "ricercato" fantafilm di Bekmambetov, non colpisce la fantasia dello spettatore e solleva un problema di sproporzione tra il fumetto e il suo adattamento. Perchè Wanted si vuole basato sulla graphic novel di Millar e Jones ma ne prende al contrario le distanze? Che cosa è diventata l'opera originale in quella che ne deriva? Svestiti i costumi da supereroi, la confraternita disciplinaria di Bekmambetov pratica il precrimine e legittima l'uso della violenza, colpendo obiettivi colpevoli e malvagi. Diversamente, nelle tavole di Jones, gli assassini coi superpoteri sono una lobby sanguinaria che, sterminati gli impavidi supereroi in calzamaglia, uccide arbitrariamente e "creativamente". Niente telai del destino per mettersi a posto la coscienza e tollerare meglio l'omicidio sistematico. Wanted non è l'adattamento del romanzo grafico di Millar e Jones, non è nemmeno la sua traduzione visiva (come fu per il Sin City di Rodriguez/Miller), è indiscutibilmente un nuovo oggetto estetico che non reca in sé nulla (o quasi) del referente. Un prodotto che non richiede la conoscenza dell'opera di partenza come condizione necessaria per la comprensione di quella di arrivo.
Un film prossimo a Minority Report (nella radicale visione politica dei contenuti) e a Matrix (nella fluida messa in scena dell'azione fantastica), che porta a galla il "rapporto di minoranza" (la voce dissonante del sistema) e sottrae la verità all'univocità della maggioranza. Sarà il dubbio di Wes e Fox, contro l'accettazione cieca del gruppo, a contemplare finalmente l'esistenza di un contrasto e a far collassare ideologia e metodo dei giustizieri "tessili".
Scegliendo Angelina Jolie e James McAvoy, Bekmambetov sorvola (anche) sulle "facce rubate" (dal fumetto) di Halle Berry (Fox) e di Eminem (Wes Gibson), che avrebbero potuto acquistare significati inediti, ricollocate nello spazio e nell'immaginario cinematografico.

Rampage - Furia animale - Rampage (2018) Rampage - Furia animale (2018)
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Anche quando non è arruolato in una commedia vera e propria, e persino nel caso di un disaster movie come questo, non rinuncia mai ad una certa leggerezza ed è grazie a questa sua preziosa attitudine se Rampage si rivela un film simpatico o, nel peggiore dei casi, innocuo, se così si può dire di un racconto in cui il centro di Chicago viene fatto letteralmente a pezzi, con una perizia da ditta di demolizioni.
Non è nel copione, infatti, che si troverà qualcosa di originale, redatto com'è in maniera a dir poco scolastica, come una risposta alla consegna: "cosa accadrebbe se un gorilla, un lupo e un coccodrillo venissero sottoposti per incidente ad un editing genetico?". E una risposta elementare, oltretutto, che non va oltre la sufficienza, perché ogni personaggio del film, ogni evento, quasi ogni battuta risentono di una prevedibilità disarmante. Eppure, in questa gara di forza tra creature geneticamente modificate, Johnson compreso, c'è qualcosa di tenero, che fa sorridere e restare in poltrona, come di fronte ad un gioco tra bambini, a chi ha il mostro di gomma più grosso.

I figli degli uomini - Children of Men (2006) I figli degli uomini (2006)
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Sulla linea degli scrittori utopistici e futuristici, P.D.James ha scritto il romanzo da cui è tratto il film, in cui Cuaròn fin dalle prime sequenze ci illustra un mondo grigio, oppressivo, incolore, fra il pre-industriale (le costruzioni e i palazzi sembrano proprio quelli della "industrial revolution"), e il post-atomico, (per la scarsità di vegetazione). Londra appare come non cambiata, se non per i mercati ai bordi delle strade e gli autobus a due piani completamente scrostati dal tempo. In questo ambiente senza profondità si muovono i protagonisti. Ne sono una conferma gli stereotipi del multirazzialismo e del multilinguistico (quello che sarà non è per forza diverso da quello che è oggi). Nel panorama così definito, la macchina da presa segue Theo-Clive Owen in tutte le situazioni, come un inviato di guerra in una visione quasi documentaristico-soggettiva del futuro per acuire il senso di chiuso, di claustrofobia, e di mancanza di certezze. Ne è un esempio la guerriglia che, all'esterno della zona franca, appare come uno spaccato del conflitto jugoslavo, dove tutti sparano a tutti, e un proiettile vagante ha il potere di cambiare il personale futuro (la sequenza dei carrarmati che colpiscono una palazzina, è una scena di guerra impressionante). Per antitesi, la speranza di vita, rinascita di un "nuovo mondo", è l'unica apertura del film all'ottimismo, in un percorso al buio, in cui il caso regna sulle esistenze di tutti. Children of Men è un film corale, è dell'umanità, (si propone raramente come singolo, per esempio nel caso dello scienziato Justice, Michael Caine, eremita per scelta ai bordi della società), perchè il futuro della terra non è dellindividuo singolo. È semplicemente globale.

Cloud Atlas (2012) Cloud Atlas (2012)
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Il gigantesco progetto di Tom Tykwer, a cui si sono uniti in corsa (sia per la scrittura che per la regia) i fratelli Wachowsky, è il film più costoso della storia della Germania ed essendo stato realizzato senza l'aiuto di nessuna grande produzione è probabilmente anche il film indipendente più costoso di sempre.
Composto da sei storie legate da un filo immaginario e spirituale che riguarda i temi della reincarnazione, del transfer spirituale e di come un'azione rivoluzionaria sia un germe che si muove nel tempo generandone altre, Cloud Atlas adatta il romanzo omonimo di David Mitchell facendo ben attenzione a creare una narrazione sospesa che incroci le storie con gran senso del cinema. Anche per questo il cast di attori interpreta personaggi diversi (alle volte con trucchi che li rendono quasi irriconoscibili) in praticamente tutti e sei i segmenti.
Il montaggio delle diverse storie infatti non è per nulla regolare e salta di storia in storia inventando molto, alle volte lasciando diversi minuti ad ognuna, altre rimanendo con essa solo pochi secondi. L'idea è di riuscire a suggerire grazie alla giustapposizione del montaggio, il legame tra diverse epoche, diverse persone o diverse azioni. Spesso i momenti di rivelazione, di crisi, di fuga o di tensione di tutte le storie sono montati insieme e si svolgono così in un impossibile parallelo, in altri sembra che una trama completi quanto appena visto nell'altra storia.
È questa la componente più interessante di un film che per il resto sfrutta una dimensione visiva straordinaria e alcune grandi intuizioni per un racconto non a livello. Non sempre il ritmo è infatti all'altezza delle aspettative e molte svolte appaiono puerili e infantili nei loro risvolti o nelle proprie implicazioni. Cloud Atlas è un film grande, grosso e largamente imperfetto che spesso confonde i toni, facendo scivolare la necessaria dose di autoironia di un simile progetto in un grottesco fuori luogo.
I registi hanno lavorato separatamente e parallelamente con troupe diverse, Tom Tykwer occupandosi delle storie che si svolgono negli anni '30, '70 e nella modernità, mentre i Wachowsky all'opera sulle due storie future e su quella che si svolge nel XIX secolo. Il risultato purtroppo non è omogeneo e i segmenti in cui l'idea di fantascienza che permea tutto il film prende davvero corpo sono solo quelli dei due fratelli (negli altri siamo più dalle parti del thriller politico, del melò o della commedia grottesca). Intuizioni tipiche del loro cinema sono subito riconoscibili, come la gigantesca e impressionante "macelleria" in cui i corpi sono stipati simili a quarti di bue non diversa dalle piantagioni di umani di Matrix, e una visione di futuro affascinante e catalizzante è presente anche nella storia che si svolge nel passato.
Troppo poco purtroppo per un film di 172 minuti.

I Croods - The Croods (2013) I Croods (2013)
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Sì, perché i Croods sono così uniti che si potrebbero dire appiccicati. Il capofamiglia, un cavernicolo che non ha mai avuto un'idea né ha mai sentito il bisogno di averla, ha fatto della protezione di moglie e figli la sua missione (di strappare la suocera alla morte farebbe anche a meno, ma è inclusa nel pacchetto) e gli animatori della DreamWorks giocano bene e a lungo sulla compattezza del clan, sui problemi che derivano dal dover restare sempre vicini ed uniti, e incollano i personaggi tra loro creando divertenti effetti a catena e rovinosi effetti "elastico", più slapstick che mai. Ma non è solo questione di movimentare la commedia o di renderla fisica, insistendo così sull'animalità degli uomini primitivi: è soprattutto per parlare di legami e di senso della famiglia che gli autori dei Croods spingono su questo pedale. Così, quella che poteva sembrare una trovata facile, in salsa Flinstones, si rivela invece un film spiritoso e sentimentale, nel senso positivo del termine.
Poi arrivano anche le scoperte e le invenzioni che punteggiano il viaggio degli eroi verso il "domani": il fuoco, le scarpe, le automobili (su quattro zampe), persino una sorta di navicella spaziale. Ma, ancora una volta, è più spettacolare la visione del cielo stellato (preclusa a chi non aveva il coraggio di affrontare la notte all'aperto) o quella dell'acqua del mare. La seconda trovata del film, infatti, è proprio quella di offrirci ogni scoperta come un'occasione di riscoperta, senza per questo farsi pedante o istruttivo (ma romantico sì).
Dietro la ragazzina coraggiosa che vuole cambiare lo stato delle cose e il genitore protettivo, che vorrebbe tenerla lontana da tutto, s'intravede la mano di Chris Sanders che già aveva vergato i corpulenti vichinghi e il "diverso" Ichab di Dragon Trainer, anche se la prima versione del copione è opera del coregista DeMicco e dell'ex Monty Python John Cleese. Migliore attore non protagonista: il bradipo Laccio, responsabile anche di un'elettrizzante colonna sonora.

Cenerentola - Cinderella (2015) Cenerentola (2015)
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La favola, come i miti, costruisce diverse versioni di sé, cambia forma fino a trovarne una definitiva. Per "Cenerentola" è quella animata della Disney, che sessantacinque anni dopo torna a raccontare sullo schermo la storia della celebre orfana perseguitata, che si riscatterà con un'impresa eroica (il ballo a corte). A 'condurla' nelle danze questa volta è Kenneth Branagh, che dopo il bipolare Thor, tragedia edipica nel cielo e commedia romantica sulla terra, rivisita l'adattamento edulcorato di Charles Perrault, conservando dei Grimm il ramo di nocciolo, l'albero materno e lo smarrimento prodotto dal fantastico. Senza stravolgere l'intreccio, Cenerentola non smette di rientrare a mezzanotte e il principe di cercarla con una scarpetta di cristallo, Branagh produce uno spiazzamento e fornisce i suoi personaggi di una psicologia sfumata ed evoluta, mai passiva e pienamente consapevole. Perché nella favola dell'autore inglese, che eredita la leggerezza, il 'bianco e nero', i raggiri e le maschere di Molto rumore per nulla, i protagonisti arrivano al lieto fine dopo essersi riconosciuti, scelti e voluti. Cinderella non sogna di un principe, Cinderella incontra il suo principe. Se nella versione animata, la festa e la relazione si sviluppano in una sola serata, (nella favola i balli sono due), nella traduzione live action, l'autore inglese incrocia Ella e principe nel bosco, prima del ricevimento danzante. Nel bosco, il luogo altro deputato alla magia e alle forze irrazionali, si rivela l'amore e si dissimulano identità e condizione sociale, ostacoli evidenti al sentimento nascente. Sentimento che Branagh esplode nel preziosismo scenografico e 'consuma' nel giardino segreto, dove il principe 'calza' il piede di Cenerentola. Tra animali antropomorfi (topolini, lucertole, oche e uccellini), coreografie geometriche, trasformazioni straordinarie che non trascurano il dettaglio, divise che definiscono i corpi e costumi che assecondano i movimenti, Branagh inventa la 'prima volta' di Cinderella e Kit, la scintilla di erotismo che rende la loro passione qualcosa di più profondo e di più difficile lettura. Attraverso il loro amore prendono coscienza di sé e delle proprie possibilità, riconquistando il loro nome e il loro posto nel mondo. Al principe di Richard Madden, (stra)ordinariamente azzurro, non serve in fondo un riscontro, la scarpina non è la prova per riconoscere la (Cinder)Ella di Lily James ma è il mezzo (frangibile) per ritrovarla. Infrangibile è invece il loro sentimento, che abbaglia e supera in bellezza la brutta favola di Lady Tremaine, vittima della propria invidia. Cate Blanchett, presenza divistica che scavalca i mortali come il tramonto di Norma Desmond o il primo piano velato di Rossella O'Hara, incarna in maniera mirabile la matrigna, misurandosi con le più belle cattive del reame (Julia Roberts, Charlize Theron, Angelina Jolie). Equilibrato il buonismo della fata madrina con i suoi bibbidi bobbidi boo, a questo giro di valzer la spinta autoriale e la maggiore adesione emotiva hanno la meglio suo 'tocco' Disney, che ancora una volta cede il passo alle principesse progressiste. Quelle che non hanno (più) bisogno di principi charmant, quelle che vogliono sceglierne uno ad occhi ben aperti, quelle che forse domani magari lo sposo, quelle che lo liquidano con l'universo simbolico che lo accompagna, quelle che lo trovano in viaggio, quello che lo sposano plebeo e quelle a cavallo che lo incontrano a cavallo, guardando sua altezza alla stessa altezza.