Quando racconta l’Inghilterra proletaria della contemporaneità, Ken Loach raggiunge sovente le vette della sua arte cinematografica, riuscendo a mettere in immagini il districarsi nell’apparente banalità quotidiana in modo da comunicare un impatto emotivo a tratti sconvolgente. L’equazione si ripresenta anche in questa nuova pellicola – a dispetto del ‘ritiro’ annunciato qualche tempo fa – ma il meccanismo si inceppa da qualche parte: il film è bello e regala momenti di scomoda partecipazione eppure l’impressione di fondo è che il regista inglese sia stato più efficace in altri lavori. Quando si riaccendono le luci, non si può negare che faccia capolino il dubbio che il premio a Cannes sia stato più alla carriera (e/o forse alla tematica) che legato alle qualità cinematografiche di un’opera che resta esplicita (e manichea) come le precedenti, ma senza le sfumature che in queste facevano la differenza. Daniel è un carpentiere vedovo che un infarto ha messo in una situazione di stallo: per il medico non può lavorare, per la società a cui lo Stato ha appaltato la gestione dell’assistenza ai lavoratori sì. Perciò, non riesce a percepire né il sussidio per la malattia, nè quello di disoccupazione, perché dovrebbe dimostrare di cercare un lavoro che comunque non potrebbe svolgere. Mentre combatte contro la burocrazia (e la sua cronica incapacità con i computer) per giungere a una revisione della sua posizione, incrocia la sua strada con quella di Katie (Hayley Squires), disoccupata con due figli a carico: tra i due si instaura una sorta di solidarietà tra gli ultimi che consente a entrambi di trovare la forza per continuare a lottare. Attraverso le loro storie in un certo modo speculari, Loach mette (ancora una volta) nel mirino il capitalismo dal volto disumano che tratta gli esseri umani come numeri e li scarta senza pietà quando non sono più produttivi e/o utili: Dan batte di continuo sul tasto del suo essere un cittadino con dei diritti e una dignità da difendere, aspetti che una società impietosa non sembra più disposta a prendere in considerazione. Il regista ambienta la vicenda negli case disadorne (anche perché i mobili bisogna venderli per campare) della periferia di una Newcastle fotografata con i colori spenti da Robbie Ryan e calibra con perizia i momenti duri – che raggiungono l’apice nella scena alla Banca del Cibo – con tocchi di commedia che vanno dalle difficoltà informatiche ai piccoli capitalisti vicini di casa (Kema Sikawze) per finire con la plateale protesta di Dan all’ufficio di collocamento. L’efficacia dei singoli passaggi viene però ridotta dallo svolgimento complessivo che patisce una certa debolezza negli snodi del racconto per la quale le maggiori responsabilità vanno ascritte alla sceneggiatura di Paul Laverty: malgrado l’empatia dei ragazzini, in particolar modo della maggiore Daisy (Briana Shann), il rapporto tra Dan e la famiglia di Katie fa a volte pensare più a una sovrapposizione che a una vera dinamica narrativa. Uno dei punti di forza è invece la prova degli attori, ulteriore dimostrazione della capacità di Loach di scegliere visi comuni eppure sempre significativi: Dave Johns viene dalla televisione, ma riesce a restituire con notevole bravura lo spaesamento di Daniel di fronte a una realtà che sembra sempre di più un tragico teatro dell’assurdo. E’ davvero impossibile non immedesimarsi nelle tribolazioni di questo ruvido dal cuor d’oro, disposto a scendere a compromessi ma sempre alla condizione di tenere la testa alta: una sensazione che permane a film abbondantemente concluso, dimostrando che, al dilà dei difetti contingenti, Ken il Rosso sa alla perfezione come rendere potente l’impatto del suo cinema.