Rivisto più volte. Credo tra i più bei cartoon Giapponesi mai visti.
Film romantico, surreale, malinconico e drammatico in puro stile nipponico. La trama, se pur intricata, si dipana agevolmente.
Sicuramente da non perdere per gli appassionati dei cartoon made in Japan
È affascinante come Apes revolution attraversi diversi generi cinematografici, partendo con titoli di testa tipici da cinema della pandemia (molto forte negli anni 2000, oggi lentamente scomparso), per deviare su suggestioni postapocalittiche con le città divorate dalla vegetazione come già abbiamo visto solo nell'ultimo anno in Transcendence e Divergent (anche se l'impressione è che l'archetipo visivo rimanga sempre il videogioco Last of us) e finire nel puro cinema di guerra, con l'azione che si mescola alle tattiche e le difficoltà nel mantenere il fronte interno. Tutto con il passo spedito e appassionato del cinema di grande respiro abile tanto nei primi piani quanto nelle panoramiche.
Questa volta al timone c'è Matt Reeves e la differenza si sente. Pur rimanendo dalle parti di una narrazione molto semplice e diretta, in cui tutto quel che c'è da sapere passa per i dialoghi o è chiaramente messo in scena, l'avventura della scimmia Cesare e del suo rapporto difficile sia con gli umani che con i suoi simili è raccontata con l'abilità necessaria a rendere la parabola una storia appassionante. Non è certo intenzione di Apes revolution innovare lo storytelling ma la maniera in cui interpreta questo preciso mix di generi guardando sempre il suo protagonista in faccia, partendo e tornando da lui e dai suoi occhi (come nell'apertura e chiusura del film), sembra l'unica possibile per fare di un film simile un'opera coinvolgente.
A partire da un inizio molto forte in cui le scimmie cacciano e nel quale con un solo grande salto vengono stabiliti i termini affettivi tra personaggi (cosa siamo disposti a fare gli uni per gli altri e con quale atteggiamento), Reeves mette in chiaro non solo la volontà di dare uguale spazio a uomini e scimmie ma soprattutto di trattare quest'ultime con la complessità che solitamente è riservata agli uomini. Così il film ha due poli d'attrazione e repulsione (in ognuna delle due fazioni ci sono buoni e cattivi) e senza dirlo mai afferma anche più che nel precedente (e anche più di Avatar che molto si era sforzato in questo senso) l'indistinguibilità tra falso e vero. Accostando moltissimo reale e digitale, mettendoli a confronto e in parallelo ne sfuma i confini.
Cesare è una scimmia creata al computer, non c'è nulla di vero se non i suoi movimenti sia corporali che facciali, tutti "catturati" attraverso i sensori del motion capture dal corpo e dal volto di Andy Serkis, attore maestro di questa tecnica. Quel che Cesare vive tra i suoi simili, la lotta che conduce per la pace, è speculare a quella che i protagonisti umani conducono tra i propri simili. Non ci sono scimmie e uomini ma pacifisti e guerrafondai, esseri spaventati che vogliono vendicarsi o azzerare il nemico ed esseri che cercano di vivere in armonia, Cesare come il buon Malcolm, la scimmia che odia gli umani Koba come il guerrafondaio interpretato da Gary Oldman. Un parallelo evidente che non è in nessun modo messo in difficoltà dal fatto che le scimmie sono esseri inesistenti, anzi che si esalta nei dettagli con i quali gli attori-scimmia fondono movimenti animali con altri più evoluti e umani, ragione e istinto, avvicinamento al passaggio evolutivo successivo e mantenimento di una radice bestiale. Un vero gioiello di minuzia recitativa.
Altro segno della volontà di dare alle scimmie la complessità necessaria a renderle protagoniste, rendendole qualcosa di più di una versione aggiornata del ruolo occupato dagli indiani nativi americani nei western revisionisti (vittime dell'uomo bianco, retti e immacolati, dotati di valori solidi e cristallini, ma mai realmente protagonisti solo specchi di purezza utili a mostrare il loro contrario, la brutalità di chi li combatte), è il fatto che gli incrollabili principi sbandierati dalle migliori scimmie non siano seguiti fino alla fine nemmeno da loro, fallibili e complessi come noi, come le espressioni che sono in grado di fare.
Tutto il cuore di Rapunzel - L'intreccio della torre (brutto adattamento del molto evocativo titolo originale Tangled ovvero "intrecciata") potrebbe stare simbolicamente in una delle prime scene in cui vediamo la matrigna della protagonista presentarsi nella torre. Vestita di colori scuri si specchia rimarcando alla figliastra come la sua vicinanza la tenga sempre bella (ma l'abbiamo già vista essere in realtà vecchia e brutta), mentre nel cesto che ha portato tiene delle mele. Il riferimento è chiaro, siamo nell'universo classico delle favole eppure le cose non sono come le ricordavamo.
Lontano dalla storia originale dei fratelli Grimm e molto vicino alla tradizione favolistica moderna inaugurata da Disney stesso (che di adattamenti differenti dagli originali era esperto), Rapunzel presenta infatti tutti i temi e le figure cardine del suo genere, con una ricerca del classico talmente smaccata da non poter non essere voluta. La principessa perduta, la residenza nascosta nel bosco, i numeri musicali corali comici, le scene romantiche nel lago illuminate da piccole luci, i fuochi d'artificio, le spalle comiche, l'eroismo scanzonato e via elencando sono il legame con la tradizione ma la verà novità sono il modo in cui questi elementi sono correlati e le relazioni che li legano.
Rapunzel attende l'uomo ma non perchè la salvi, le serve solo qualcuno che la scorti in un mondo che non conosce. La principessa perduta si salverà come sempre, ma da sola. Tutti gli altri, dalle spalle comiche fino a quello che dovrebbe essere l'eroe, sono aiutanti. Eppure, da vera ragazza moderna, per fare questo non rinuncia alla sua femminilità nè ad un approccio femminile al mondo (che da reclusa è l'unico che conosce). Rapunzel non è un eroe maschiaccio (anzi!) nè aspira a nulla di diverso rispetto alle principesse del passato. È una ragazza che si muove in un universo in cui gli ostacoli che le si frappongono sono prettamente moderni.
A tenere Rapunzel intrappolata nella torre infatti non è un vincolo fisico, potrebbe uscire quando vorrebbe se non fosse tenuta in scacco dalla paura instillatale fin dalla più tenera età dalla matrigna e dal ricatto sentimentale di quella che, fingendosi sua madre, professa un amore sconfinato nei suoi confronti. E proprio qui, nella sincerità e nella forza con cui questo finto amore è mostrato, il film dimostra una maturità superiore alla media. Il rapporto madre/figlia subito da Rapunzel è fondato su un continuo sminuimento, su insulti mascherati da scherzi e sul rinfaccio di un amore solo sbandierato e mai dimostrato, perchè non esiste. Il massimo del male ben mascherato dietro il massimo del bene. Si tratta di dialettiche che al cinema abbiamo visto solo nei migliori e più duri film drammatici e che qui sono perfettamente tradotte per l'universo infantile, senza cioè mai cedere un passo sul piano della godibilità o della leggerezza.
Si vede insomma come a 4 anni dalla fusione Disney/Pixar la seconda abbia cominciato finalmente ad influenzare la prima (alla sceneggiatura c'è uno degli autori di Cars) e non solo nel campo della perizia tecnica. Sebbene infatti il character design della principessa sia talmente azzeccato da consegnarla immediatamente alla storia delle migliori eroine Disney e i movimenti facciali dei personaggi consentano una "recitazione" superiore alla media (si veda la profondità con cui un solo sguardo del servo annuncia alla coppia reale il ritrovamente della figlia perduta), è però l'approccio moderno agli archetipi narrativi e la capacità di svolgerli in un racconto sufficientemente canonico da risultare classico (eppure anche sufficientemente autentico da parlarci dei rapporti familiari moderni) a svelare la longa mano di John Lasseter.
Il film è stato un "caso". Negli USA ha battuto l'incasso del nostro La vita è bella. In Francia il chiasso è stato altissimo, con riferimenti al grande cinema del passato, da Carné a Malle ( Zazie nel metro), a Lelouch alla magica scrittura di Prévert. Con tutto il rispetto, la sceneggiatura di Jeunet-Laurent, spumeggiante e fantasiosa, non si avvicina certamente allo spessore di Prévert. Dunque Amélie più che beatificata, va considerata una bella storia, diversa e curiosa, che fa star bene, uscita nel momento propizio. Ma noi continuiamo a preferire Benigni.
**Non sarò imparziale... Sono un vero fan della saga!**
A mio parere è uno dei migliori film nel suo genere, cast d'eccellenza, film leggero e che si presta ad essere visto e rivisto. Uno studio curato dei personaggi, ognuno con il suo profilo psicologico e che si relaziona con gli altri, come perfetti ingranaggi di un orologio.
L'antagonista di questo primo film della saga, "Terry Benedict" (interpretato egregiamente da Andy Garcia) diventa uno dei personaggi fondamentali tanto che lo ritroveremo in ogni capitolo.
Se amate i film d'azione e di rapine non potete tralasciare la saga di Ocean.
Ripreso da Colpo grosso, interpretato a suo tempo dal clan Sinatra: Sammy Davis, Dean Martin, Peter Lawford. Il linguaggio di Soderbergh, ormai legittimato dall'Oscar, per fortuna non intende essere "di tendenza". La storia fila via senza intoppi stilistici. Certo, quelli del cast sono tutti bravi, con Clooney che forse emerge sugli altri. Buona evasione.
Primo film di produzione statunitense girato da Denis Villeneuve, il regista franco-canadese che ha firmato La donna che canta (candidato all'Oscar come miglior film straniero nel 2011), Prisoners va letto, e apprezzato, più nella sua valenza allegorica che nella sua funzione di entertainment. Il film gioca infatti sui codici del genere - la caccia all'uomo, l'indagine in corsa contro il tempo - da una prospettiva "altra", scardinando la costruzione classica dei personaggi - il padre amorevole, il poliziotto scrupoloso - per disseminarla di contraddizioni e dare spazio alla fallibilità di ognuno. La riflessione più ampia riguarda gli Stati Uniti, raccontati come un paese che ha perso la fede e la capacità di proteggere i propri "figli", pronto a ricorrere, e a giustificare, metodi disumani che classificano il nemico come una non-persona, privandolo della sua essenziale umanità. Un luogo in cui la paranoia ha sostituito il buon senso e il caos domina sull'ordine, al di là delle apparenze e delle false sicurezze dell'American way of life.
Ognuno dei personaggi di Prisoners è, appunto, prigioniero di qualcuno o qualcosa, in primis di se stesso, incarcerato dalla paura, dal peso del passato, dall'inconsistenza della propria fibra morale. Il sottotesto religioso (fortissimo, a volte fastidiosamente invadente, ad esempio nell'uso reiterato di "musica da chiesa") serve ad illustrare il percorso penitenziale e la sete di redenzione di quasi tutti i protagonisti, che non sanno più distinguere fra giusto, lecito e necessario, persi nello smarrimento generale.
Prisoners è l'amara parabola di una nazione che si domanda ancora se la tortura sia un mezzo accettabile per estorcere informazioni "indispensabili alla sicurezza nazionale", e che insegue una verità sempre più sfuggente e sempre meno assoluta. Non è un caso che il simbolo al centro della trama sia un labirinto senza apparente via d'uscita. E la componente perturbante del film, sempre pronta a sconfinare in zona horror, rimane dentro ben dopo la visione.
La durata eccessiva del film va tuttavia a scapito dell'incisività della trama, e il budget consistente (o forse il maggior controllo creativo da parte della major produttrice) sembrano limitare l'autonomia autoriale di Villeneuve, più potente e compatto ne La donna che canta. Ma l'iconoclastia dello "straniero" all'interno di un format narrativo quintessenzialmente yankee è interessante e fortemente provocatoria.
Il cast stellare mette il proprio talento, e la propria valenza iconografica, a favore di quest'opera di demolizione del mito (cinematografico) americano. Unica nota stonata il casting di Melissa Leo nei panni di un'anziana signora che, visivamente, attinge ad un archetipo cinematografico così ben consolidato da rischiare l'effetto spolier.
Accompagnato all'uscita in america da critiche feroci ma graziato da ottimi incassi, il film di Proyas, a dispetto di pregiudizi e valutazioni frettolose, si propone come tassello piccolo ma significativo nella cinematografia robotica, dimostra di essere un film dotato un una certa fantasia nella messa in scena e meno caotico e baraccone di quanto potrebbe sembrare ad una prima fugace occhiata.
Molti temi importanti purtroppo, vengono appena accennati: che ne sarà della forza lavoro operante nei settori ad alto tasso di rischio o fatica una volta che la stessa sarà sostituita da macchine? Cosa potrebbe succedere se le macchine acquistassero autocoscienza? Fino a che punto può e deve spingersi l'innovazione tecnologica? La sceneggiatura di Vintar (responsabile di Final Fantasy: The Spirits Within, cosa che di certo non depone a suo favore) riesce a mixare in maniera abbastanza convincente i diversi registri, ponendo il film a metà tra classici action movie tutta forma e poca sostanza come Terminator e sequel e pellicole di spessore contenutistico maggiore come il misconosciuto L'uomo bicentenario. Gli effetti speciali, curati dalla Weta, assurta agli onori della cronaca per lo splendido lavoro fatto con la trilogia dell'Anello, sono curati e spettacolari anche se in alcune scene (per esempio quella che vede la ricerca da parte di Smith del robot senziente tra file e file di suoi comprimari "normali"), si nota un po' troppo l'uso di computer grafica con conseguenze visibili anche ad occhi non particolarmente esperti. Eccellente invece l'animazione facciale di Sonny, robotico co-protagonista, drammaticamente più espressivo dei suoi compagni in carne ed ossa.
Sicuramente si poteva fare di meglio e magari, con un altro sceneggiatore e regista, il film avrebbe potuto diventare un caposaldo della fantascienza moderna (ma, in fondo quanti film possono definirsi tali?), ma, tutto sommato, per una serata di puro disimpegno, I, robot, resta una scelta valida.
Nonostante un momento centrale che si concede al road movie e ad una contenuta (per forza di cose) romanticheria, L'Incredibile Hulk di Louis Leterrier non ritrova più, strada facendo, né l'intuizione narrativa né la velocità espressiva dei primi venti elettrizzanti minuti. A valle della pellicola scivola fatalmente il già visto: l'idillio tra la bella e la bestia che già fu di King Kong, la sfida con Godzilla - altrimenti detto Abominio -, l'ospite d'onore venuto a reclutare il pupazzone color pistacchio per la squadra dei Vendicatori, futura joint venture Marvel-Universal. Povero golia verde, non è tutta colpa sua: arriva per ultimo, quando le sue pupille s'illuminano le nostre sono già appesantite, e arriva nell'ottica della futura riunione (con Ironman, Thor, Ant-Man, Wasp e Capitan America), responsabile di una probabile omologazione a priori.
Edward "Bruce" Norton prende sulle spalle la croce della creatura data alla luce da Stan Lee e Jack Kirby nel 1962, esaltando, con il suo corpo leggero e la sua lucidità manifesta, l'inconciliabilità con il fisico e la mente di Hulk, e al contempo traghettando il personaggio da antieroe a supereroe, in un percorso anche simbolico di accettazione che invita a trasformare la rabbia che portiamo dentro in una risorsa contro la brutalità fine a se stessa.
Dopo il conflitto edipico tra padre (scienziato pazzo) e figlio (vittima dell'incauto esperimento del primo su di sé), inscenato da Ang Lee, è ora la volta di far scontrare Betty Ross e il generale, non meno pazzo nel suo sogno di un esercito di super soldati, non meno incauto nel super dotare un killer già troppo esaltato di suo. Ma, rispetto al passato, il film di Leterrier si presenta libero da ogni vincolo, né sequel né remake, semmai debitore della serie tv per quel che riguarda la linea guida, ovvero l'idea che Banner sia perennemente in fuga da se stesso e da una vita civile, alla disperata ricerca di una cura per liberarsi dal mostro che è in lui.
Serie a fumetti, tv seriale, cinema che si replica e "trasforma", a dimostrare la straordinaria ricchezza dell'universo delle strisce e la crescente difficoltà di stupire dell'aspirante blockbuster, teso a reperire uno spettacolo sempre più grande, più distruttivo e più colorato. Gli effetti speciali sono i raggi gamma che gonfiano le potenzialità del racconto filmico per farne degli atti di forza. Resistere (con Gondry) o saltare sul carro armato? L'Incredibile Hulk suggerisce la possibilità di controllare l'inarrestabile con l'intelligenza.
Oliver Stone stende una sceneggiatura cruda, ritratto di un mondo fatto di polvere bianca e potere, pupe da sballo e disco-music elettronica: il mondo dei gangster anni '80, insomma. Grazie all'elegante mano di De Palma, l'opera danza sul ribaltamento del punto di vista: ci si scoprirà a simpatizzare per la mina vagante Tony, selfmade-boss scaltro e ligio al proprio, seppur deviato, codice d'onore. Montana, rozzo cubano di umili origini, incarna gli ideali del ghetto portandoli all'estremo, costruendo dal nulla un impero economico basato sull'illegalità. Un titanismo incurante di qualsiasi limite umano plasma la sfolgorante parabola del protagonista, vittima della propria fremente volontà di potenza. Il prodotto finale, lontano dalle ovattate atmosfere de Il padrino , è una feroce rilettura del capitalismo, dove il sogno americano si rivolta contro se stesso e la cultura del dollaro si affianca ineluttabilmente all'eccesso, preludio in tale contesto all'autodistruzione. Affiancato da una splendida Michelle Pfeiffer agli esordi, Al Pacino regala l'anima ad un antieroe leggendario, contribuendo a creare un'opera che traccia nuove e nette linee guida per il futuro del genere (e non solo). Sulle note di una emblematica "Push it to the limit", lo spirito del cinema si rinnova incarnandosi in un monumentale dramma corvino, serio candidato al titolo di gangster-movie stradaiolo definitivo.
La trilogia di E.L.James (pseudonimo di Erika Leonard) è entrata di diritto in quella tipologia di romanzi che pochi dichiarano di aver letto (accampando, nel caso, i più svariati e 'doverosi' motivi). Ha però venduto più di 100 milioni di copie ed è stata tradotta in 52 lingue. Un successo editoriale di questo genere non poteva passare sotto silenzio e in materia si sono già spesi fiumi di parole. Era pertanto inevitabile che il cinema se ne accaparrasse i diritti contando sul fatto che i lettori desiderassero veder trasformati quei segni che chiamiamo scrittura in corpi in azione. Su questo piano sono destinati a rimanere delusi perché se c'è un elemento che manca in questo film è proprio la fisicità più o meno estrema, il sudore che sgorga dai pori di una pelle tormentata (dal piacere o dal dolore poco importa).
Un regista che di sadismo se ne intende, Lars Von Trier, aveva toccato ben altri livelli in Nymphomaniac - Volume 2. Qui invece si sta estremamente attenti alla 'confezione' tanto che non ci viene mostrato mai un organo sessuale (maschile o femminile che sia). Il cinema preesistente viene poi saccheggiato a piene mani e senza infingimenti: la scelta delle cravatte di Christian è una copia conforme della scena di American Gigolò così come non può mancare il ghiacciolo da 9 settimane e ½.
Se poi tanti anni fa era un Jean Louis Trintignant a percorrere distanze considerevoli per raggiungere Anouk Aimèe in Un uomo e una donna come potrà il miliardario Christian non colmare in tempi rapidissimi lo spazio che lo separa dall'amata per farle poi compiere un'esperienza con aliante? C'è però un elemento di cui la sceneggiatura di Kelly Marcel (Saving Mr.Banks) ha astutamente tenuto conto. Ogni volta che le richieste o le azioni di Christian (un Jamie Dorman dal corpo scolpito ma le cui sfumature espressive possono contenersi nelle dita di una mano) sfiorano il ridicolo è una Dakota Johnson, consapevole della difficoltà del ruolo, ad anticipare lo spettatore con una risatina imbarazzata sostituendosi a lui).
La colonna sonora di Danny Elfman fa il resto (con aggiunta di tanto di hit e con il 'sacrilegio' della presenza in sottofondo di "Im on fire" del Boss Springsteen). Il successo al box office è comunque facilmente prevedibile. Se una volta si accorreva in libreria prima e in sala poi per apprendere che "Amare significa non dover mai dire mi spiace" oggi "Amare significa dover subire le frustrate". I tempi cambiano. Cosa ci vogliamo fare?
Dopo 25 anni l'inverosimile espediente che ha dato vita al bestseller di Crichton e alla celeberrima serie sulle lucertole terribili trova infine un suo inatteso senso ultimo nel quinto capitolo (o secondo di una nuova trilogia, a seconda dei punti di vista).
Sostituirsi a Dio, dare la vita, correggere l'andamento del destino o della storia. Che però torna implacabile a ripetersi, con variazioni minime. I dinosauri hanno così di nuovo a che fare con una calamità naturale, che sembrerebbe voler riportare equilibrio.
Che si tratti di punizione divina o di compensazione scientifica - così la vede Jeff Goldblum/Dr Malcolm, già nel capostipite spielberghiano della serie Jurassic Park - ha poca importanza.
Su questo punto Juan Antonio Bayona, autore di talento che dà prova di resistenza di fronte alla normalizzazione da blockbuster, costruisce il suo "mondo Giurassico". Che è anche il primo a potersi finalmente definire tale, per ragioni impossibili da svelare senza ricorrere a spoiler. Il lascito di Colin Trevorrow, regista del precedente Jurassic World, è una sceneggiatura farraginosa e ricca di spunti timidamente abbozzati, che Bayona prova a reinventare in base alla propria peculiare sensibilità. Trasportando i dinosauri dalla loro isola, dal loro "mondo perduto", nel più classico dei manieri gotici, il regista spagnolo ritrova la propria dimensione ideale.
"L'evoluzione diviene rivoluzione" recita la tagline americana del film. Aforisma perfetto per raccontare questo prequel-reboot espiantato direttamente dal lontano Pianeta delle scimmie datato 1968 per dimenticare l'esperimento dark-autoriale del remake di Tim Burton. Perché il film di Rupert Wyatt - regista britannico con alle spalle un solo, eccellente prison movie (The Escapist) - si racconta esattamente attraverso questi due movimenti. Una prima parte in cui si descrive l'Evoluzione della scimmia e si riscrive Frankenstein attraverso un moderno Prometeo alla ricerca di una cura per l'Alzheimer; e una seconda parte in cui la diversità e la sindrome del mostro vissute dalla Creatura-Scimpanzé creano i presupposti per un'insurrezione degna di Spartacus e una tensione a metà fra Gli uccelli di Hitchcock e i film di Shyamalan.
È all'interno di questi due momenti narrativi che si modella anche il progetto di questo nuovo capitolo: una dialettica schiavo-padrone in cui il film gioca a far finta di essere "schiavo" della saga originale e dei cliché del cinema di genere per poi mostrarsi perfettamente padrone degli eventi e della messa in scena. Wyatt punta fin dall'inizio a una pura esaltazione dell'occhio, a un'accensione della pupilla simile a quella che colpisce i primati-cavie del film realizzata con tutti i mezzi a disposizione dell'estetica contemporanea: soggettive della scimmia, movimenti immersivi, performance capture d'avanguardia, contaminazioni fra generi diversi.
Continui omaggi, rimandi e citazioni alla serie originale che tuttavia non costituiscono mai nostalgiche strizzatine d'occhio, quanto agganci per stupire e muoversi verso altre direzioni. Da questa ibridazione fra tragedia classica e romanzo gotico, fantascienza anni Settanta e horror da drive-in, il regista britannico dà vita a un dinamismo visivo che gli permette di muoversi in sintonia più con l'agilità di una scimmia ribelle che con quella di un giovane scienziato con troppi sogni. Tanto che è esattamente nel passaggio fra i due atti che si realizza la svolta del film: una "rivoluzione" del punto di vista che rovescia il posto dei buoni e dei cattivi rispetto alla saga originale. Grazie alle libertà di movimento e di antropomorfismo concesse dalla cultura digitale, L'alba abbandona presto i problemi scientifico-familiari del personaggio di James Franco per accentrarsi totalmente sull'insurrezione "animata" dal Cesare di Andy Serkis.
Si capisce ben presto che è lui il vero protagonista del film. Quello con cui simpatizzare, quello con cui entrare in empatia, il vero divo che merita un'indimenticabile posa da duro rimanendo in piedi sul tetto di un filobus di fronte alla Baia di San Francisco.
In questo rovesciamento, sia ben chiaro, non c'è da leggere un progetto politico, una militanza animalista o un messaggio tecnofobico. Non è un caso che i primati si fermino sempre un attimo prima di colpire gli umani e di far schizzare il sangue sulla macchina da presa. Perché quel che è in palio non è la critica sociale ma il mondo del blockbuster: l'idea stessa di poter raccontare le origini, i cominciamenti, i vari "begins" e le differenti albe delle varie saghe guardando indietro ma puntando al presente. Può sembrare poco, ma dietro ogni piccola rivoluzione del blockbuster da sabato sera c'è una grande evoluzione.
A partire dagli anni Ottanta, Hollywood ha smesso di rappresentare la Seconda Guerra Mondiale in maniera asettica, precipitando il conflitto nell'orrore e mettendolo in scena come uno spettacolo dell'orrore. Per prendere la misura di questa evoluzione basti confrontare Il grande uno rosso di Samuel Fuller con Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Se Fuller temperava la violenza convinto che fosse semplicemente impossibile restituire sullo schermo la realtà del combattimento, Spielberg abbandona cadaveri sviscerati sulle spiagge della Normandia e traduce l'intensità di quella violenza. L'autore rivendica una volontà di realismo e traspone visualmente l'incubo della guerra, ricreando sulla spiaggia 'traslocata' di Omaha Beach quello che i veterani avevano visto e vissuto.
Fury, film bellico di David Ayer, prosegue l'estetica del soldato Ryan e si ritaglia un posto nel genere. Non tanto e non solo perché il suo regista, ex marine, ha esperienza diretta della materia, ma per l'impianto drammaturgico singolare, articolato in un interno (il carro) e in una relazione corpo-macchina. In Fury, come Lebanon, film israeliano di Samuel Maoz, non si scende (quasi) mai dal carro armato. Costruito sulla dialettica dentro-fuori, fuori c'è la Storia, dentro la storia, fuori l'azione, dentro la reazione, fuori il proiettile esploso, dentro il rinculo, Fury avanza interrogandosi sulla guerra e sul rapporto che il singolo soldato intrattiene con l'oscenità del conflitto. E qui si esauriscono le corrispondenze tra due film che contemplano esterni e implicazioni ideologiche radicalmente differenti. Se il fuori di Maoz era la Guerra del Libano (1982) 'costretta' in un tank-nazione e invasore, il fuori di Ayer è la Seconda Guerra Mondiale, l'ultima a dimensione mitologica, quella della lotta tra bene e male, che non smette di affascinare Hollywood.
Pur insistendo sulla necessità del vedere, Ayer non sembra ossessionato dalla materialità del combattimento, a interessarlo è l'unità protagonista. Comprendere il funzionamento di un'unità di carristi permette al regista di misurare la dimensione industriale della guerra. Nel 1945 la vita media di un uomo in un tank era di sei settimane, al termine delle quali si moriva straziati dal fuoco nemico, al termine delle quali, ancora, proprio come farà la recluta di Logan Lerman, era necessario ripulire il carro dal sangue, la carne, i brandelli e i frammenti di vita, prima di riempirlo di nuovo con altre vite. Uomini e biografie stipate e lanciate contro le linee tedesche, che resistevano ostinate e fameliche fino alla fine dei loro giorni.
Tra il superbo orizzonte del principio e il tank carico di morte, che l'ascensione della camera trasforma nell'epilogo in un occhio ciclopico ficcato in un crocevia disseminato di morti, si muove un film che conquista terreno al genere bellico e un carro che è rifugio, cuore e tomba di soldati condannati al martirio. A guidare la riflessione di Ayer sullo stato di guerra, sullo stato di tutte le guerre, c'è il sergente di Brad Pitt, massiccio, laconico e (in)gloriosamente bastardo dentro un cingolato, dietro alle cicatrici e il taglio barocco pettinato con rigore marziale e brillantina grassa.
Il fallimento del distributore originario (Moviemax) ha portato in sala in un periodo non particolarmente felice questo solido film di guerra malgrado la presenza di una stella di prima grandezza come Brad Pitt. Scritto e diretto dallo sceneggiatore David Ayer, che dietro alla macchina da presa c’è stato solo una manciata di volte, rivolge alla guerra uno sguardo manicheo di chiara impronta yankee, ma mette bene in chiaro che il mestiere di uccidere – i personaggi si riferiscono sempre al combattimento come a un lavoro - è sporco e cattivo (ma qualcuno lo deve pur fare). In merito, le carte sono già in tavola dalla prima scena, una delle più belle dell’intera pellicola, dove un ufficiale tedesco attraversa un desolato campo di battaglia su di un cavallo bianco finchè un soldato americano salta fuori da un tank e lo uccide con il coltello. Scopriamo così che il sergente ‘Wardaddy’ Collier (Pitt) e il suo equipaggio sono gli unici scampati allo scontro che non abbiamo visto e ha lasciato innumerevoli cadaveri sul terreno coperto di fango. La mota, l’umidità e il cielo cupo sono una costante di un film in cui non brilla un raggio di sole: la fotografia di Roman Vasyanov riprende un mondo grigio e dai riflessi metallici che è in sintonia assai di più con l’animo dei personaggi che con la primavera incombente. L’azione si svolge infatti nelle ultime settimane di guerra già in territorio tedesco (anche se le riprese sono state fatte in Inghilterra) quando la Germania è sì vinta, ma non ha ancora smesso di resistere: sostituito un mitragliere defunto con l’imberbe Norman (Logan Lerman), il carro di Wardaddy continua a combattere fino ad arrivare all’ultima missione. Nel frattempo, il sergente si trova ‘classicamente’ costretto a svezzare il pivellino con le cattive, quando lo costringe a uccidere un prigioniero, e con le buone come nella lunga parentesi nella casa abitata da due donne tedesche. E’ quest’ultimo una sorta di intermezzo di immaginata tranquillità – brutalmente interrotta dall’irruzione del resto dell’equipaggio – che si trova quasi a metà della storia e ne collega due parti di qualità disuguale sottolineando allo stesso tempo la struttura quasi teatrale della prima. Il film, infatti, si svolge per lunghi tratti in spazi ristretti - a partire dal più ristretto di tutti, ovvero l’interno del carro armato - e, fino alla battaglia finale, si occupa soprattutto di interazioni fra i caratteri dei diversi personaggi separate da brevi quadri di collegamento. In questi segmenti, i dialoghi si mantengono opportunamente asciutti e la durezza della vita militare, specie in un territorio ostile, ne esce descritta con notevole efficacia. Il salto tra questo modo di raccontare e quello utilizzato per l’ultima missione lascia perciò meravigliati e non in positivo: se la scena dello scontro con il Panzer, per quanto forzata, è comunque girata con i tempi giusti e non stride troppo, la lunga (troppo) sequenza finale sembra incastrata a forza sul resto della vicenda. In pratica, si tratta di una variazione sull’indimenticabile parte conclusiva de ‘Il mucchio selvaggio’: Wardaddy e soci, inchiodati nello Sherman ormai immobile, fanno fronte a un numero imprecisato di nemici che assaltano (assai poco razionalmente) all’arma bianca cadendo come mosche: i tedeschi, come gli indiani e i messicani, sono spersonalizzati e cattivi, oltre che un pochino tonti. Con ogni probabilità a Peckinpah sarebbero piaciuti la coreografia e il montaggio delle scene (Jay Cassidy e Dodi Dorn), ma la retorica a stelle e strisce torna a far capolino in modo fastidioso con le immancabili citazioni bibliche e chissà se vorrà dire qualcosa che a dare un’accelerata alla faccenda sia un cecchino (aka sniper, il film negli Stati Uniti è uscito prima di quello di Eastwood). Sicuramente, si sente la nostalgia per il tono molto più basso di una prima ora occupata soprattutto dalla descrizione della brutalità che può esprimere l’essere umano in guerra: a rendere al meglio tale descrizione contribuisce la buona prova d’insieme degli attori e chissà quanto ha influito l’addestramento pre-riprese. Pitt si mantiene sotto le righe nel disegnare Wardaddy, facendo anche dimenticare che ha almeno vent’anni di troppo per il ruolo, mentre Lerman sa rendere la perdita dell’innocenza di Norman anche se in ‘Noi siamo infinito’ mi era piaciuto di più. Accanto a loro sul tank ci sono il pio Boyd di un poco riconoscibile LaBeouf, il rude Grady interpretato da Bernthal e il Gordo con cui Michael Peña garantisce la quota multiculturale: il loro è un bel lavoro di squadra, proprio come quello dell’equipaggio e questo è certo uno dei pregi del lavoro di Ayer. Anche considerando gli imperdonabili traccianti che trasformano fucili e cannoni in armi laser danneggiando in parte le belle sequenze di battaglia, i pregi di ‘Fury’ finiscono così per prevalere sui difetti in due ore di intrattenimento di discreto livello che si concludono con una bella raccolta di immagini d’epoca sui titoli di coda.
Il proscenio è interamente di Sparrow e del suo nuovo arcinemico Salazar, terrore dei pirati passato a miglior (non-)vita nel Triangolo del Diavolo. Protagonista è una maledizione, anzi più di una, e una coppia di giovani, sempre più romanticamente attratti l'uno dall'altra. In sostanza il soggetto è il medesimo del capostipite della saga (con aggiunta di un sottotema di paternità misteriosa), di cui La vendetta di Salazar costituisce una sorta di remake. Il compito di unire generazioni differenti di attori e mescolare tempi comici ed esigenze action tocca alla presenza immutabile di Johnny Depp aka Jack Sparrow. Talmente immutabile e impervio all'invecchiamento, da ricorrere in maniera massiccia alla computer graphics quando il make-up non è più sufficiente. Durante un flashback sul giovane Sparrow, dove un tempo si sarebbe ricorsi a degli escamotage o a un altro attore, il volto del giovane Depp viene ricostruito al computer, in una mimesi inquietante.
Forse la più lunga sequenza di ricostruzione digitale del volto di un attore vista sin qui, secondo un'abitudine invalsa sempre più nell'uso dopo gli esempi (anche postumi) di Fast and Furious 7 e Star Wars: Rogue One. In questo abuso di CGI vive forse una metafora di ciò che oggi rappresenta il rapporto tra blockbuster e pubblico: finché quest'ultimo sembra accontentarsi delle medesime storie, anzi richiederle con feticistico culto della singola sequenza, ecco che queste vengono riproposte sotto forma di remake. Ma se prima erano le storie ad essere clonate ora lo sono anche i volti, artificialmente preservati. Il ragionamento dal punto di vista del business è chiaro - risparmiando con il "riuso" e investendo su qualcosa di certo, minimizzando il rischio - ma sta a noi (forse) opporsi e pretendere di più. Al netto di rami di sceneggiatura atrofizzati o scarsamente sviluppati e di alcuni dubbi morali (quando l'atteggiamento lubrico di Sparrow verso ragazze sempre più giovani comincerà ad apparire sconveniente?), infatti, La vendetta di Salazar funziona, complice un valido villain (Javier Bardem) sorretto da notevoli effetti speciali. Ma la sensazione di essere considerati alla stregua di automi poco esigenti è difficile da allontanare e aleggia fino all'immancabile (e immancabilmente superfluo) controfinale dopo i titoli di coda. Cameo di Paul McCartney nei panni dello zio pirata di Jack Sparrow.
Nell'era in cui anche i blockbuster hanno scoperto di avere un'anima, comparsa, volente o nolente, all'alba dell'11 settembre 2001, Roland Emmerich rivendica il suo diritto alla catastrofe trionfalistica e l'orgoglio di un cinema meramente ludico. Mentre gli eroi dei cine-fumetti sentono sempre più il peso delle grandi responsabilità e le guerre dei mondi si combattono in soggettiva, Emmerich non vive la necessità di realizzare kolossal raffinati in linea con lo spirito del tempo. Fin dai tempi di Stargate e Independence Day, il suo progetto appare piuttosto un tentativo sistematico di allargare le dimensioni dello spazio e del tempo fino alla lacerazione, per poi raccontare, in fondo, sempre la stessa storia. Padri valorosi, soldati intrepidi, scienziati geniali e presidenti eroici, sono i protagonisti senza macchia e senza spessore di storie inverosimili che, quando non trasudano un conservatorismo retrogrado e un patriottismo esasperato, virano verso lo spirito di patata e gli stereotipi più fané sulle varie popolazioni del mondo.
Ma sotto le crepe visibili di questa superficie, sotto ai sentimentalismi un tanto al chilo e ad un umanesimo incredibilmente naïf, si nasconde un nucleo pulsante di puro spettacolo popolare. Con 2012, Emmerich rende più evidente la componente popolare del suo cinema che, a differenza del gemello made in USA Michael Bay, non ricerca nello scontro, nella colluttazione fisica di corpi muscolari o meccanici perfetti, ma nel vecchio fascino di un carrozzone da luna park con tanto di imbonitore che irride ai ricchi e ai potenti. Su di esso fanno scarsa presa anche eventuali reprimende in merito alla (non) etica del prodotto. Ha poco senso infatti mettere in parallelo i terremoti, gli tsunami e le inondazioni della nostra Terra con l'esibizione dello spettacolo del disastro dei suoi film. Per il semplice motivo che essi non rappresentano questo mondo, ma la proiezione macroscopica di un'antica fascinazione legata alla distruzione, a quel complesso di Nerone che coinvolge il cinema dall'alba dei suoi tempi.
Per quanto enormi possano apparire le proporzioni del cataclisma messo in scena, guardare un suo film è come aggirarsi per un parco di città in miniatura dove è ammesso sfasciare tutto, dove poter dar sfogo alle pulsioni distruttive più infantili. Dove l'escatologia risponde meno a principi apocalittici che a quelli del gioco. E, ogni tanto, stare al gioco, non è certo la fine del mondo.
Il bilanciamento di dramma e commedia è ormai la norma, difficilmente si trovano rappresentanti puri di una delle categorie, e il cinema in questo non fa altro che avvicinarsi ulteriormente alla vita (anche se poi, su entrambi i fronti, è tutta questione di punto di vista). Ciononostante, il quid del film di O. Russell, ciò che lo eleva sopra la norma priva di particolare interesse, è proprio in questo equilibrio, più riuscito e ardito del solito, perché operato su una materia scivolosa, fatta invece di squilibri, di ricadute e continue ridefinizioni degli obiettivi e delle aspettative.
Al di là del dato biografico del regista, ex caratterino indomabile, che può essersi mescolato o meno al romanzo di Quick che ha anticipato e suggerito il film, la scommessa vincente di O. Russell - la cui regia in senso tecnico è probabilmente sopravvalutata ma ha senza subbio qualcosa da insegnare sullo spazio cinematografico- è quella di restringere il campo ad un metaforico tratto di strada. Si consuma infatti tutta qui, tra l'abitazione dei Solitano, il garage di Tiffany e l'agognata e proibita meta rappresentata dalla casa di Nikki, la preparazione alla vita di Pat: una preparazione atletica ad una vita "ballerina".
Dopo un po' la strada si spiana e il film si adagia sull'asfalto della commedia sentimentale più classica, perdendo di poesia e finendo per coincidere con la riduzione banaleggiante che il titolo italiano, Il Lato Positivo , opera sull'originale. Resta però l'eco della presenza scenica di Jennifer Lawrence, che possiede una forza d'urto letterale, e dell'impresa interpretativa di Bradley Cooper, che depura il personaggio di carta dalla pellicola protettiva dell'ingenuità e si carica sulle spalle il peso di una consapevolezza che fa il film più amaro e più vero.
ratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Lauren Weisberger, Il Diavolo veste Prada è un godibile e ritmato affresco sull'illusorio mondo delle vanità odierne, efficace soprattutto grazie alla suggestiva ambientazione newyorkese, icona di stile per eccellenza fin dai tempi di Colazione da Tiffany. Co-protagonista della pellicola accanto alla dolce e indifesa Andy, New York si offre ai nostri occhi in tutto il suo splendore, grazie agli scorci sugli scenari raffinati, sulle strade affollate e sui negozi lussuosi. E non poteva essere altrimenti, considerato che il regista David Frankel proviene dalla direzione di diversi episodi della fortunata serie Sex and the City. Proprio come Carrie, giornalista protagonista del serial newyorkese, Andy è un animo sensibile che si interroga sul mondo ipocrita e senza scrupoli che la circonda, una moderna Cenerentola che ha già il suo principe azzurro - un cuoco - che l'aspetta a casa ogni sera. Nonostante l'apprezzabile interpretazione di "occhioni dolci" Anne Hathaway, forse un po' troppo affascinante nei panni della Bridget Jones d'oltreoceano, l'adattamento di Aline Brosh McKenna tende ad appiattire lo spessore e l'introspezione psicologica della protagonista (propria del romanzo della Weisberger), affidando il mutamento di Andy per lo più all'esteriore cambio di abiti e look. Ottima l'interpretazione di Meryl Streep nei panni della spietata "Crudelia Demon della moda", ma l'immancabile tocco di moralismo finale fa la differenza tra questa commedia e il ritratto delle vanità della moda tratteggiato una decina d'anni fa da Altman in Prêt-à-Porter.
David Fincher è da sempre innamorato dei percorsi narrativi che consentono la ricostruzione di qualcosa (siano una serie di omicidi, sia la struttura di un libro, sia un fatto di cronaca) e per la storia della nascita di Facebook idea un racconto intrecciato tra dibattimenti, patteggiamenti e fatti reali mostrati in flashback, tutto centrato sull'inespressività di Jesse Eisenberg. L'attore newyorchese riesce infatti nell'impresa di comunicare la non comunicatività del suo Zuckerberg, in una lotta legale che è anche sopraffazione di una classe su un'altra. Una perversa e malvagia rivincita del nerd nei confronti di quelli che percepisce come nemici (l'ex migliore amico più integrato di lui, i canottieri che tanto piacciono alla ragazza che lo ha mollato).
L'idea più chiara di David Fincher è che Mark Zuckerberg, l'uomo che ha dato alla parola "amico" un altro significato, più allargato e lieve, alla fine della sua ascesa economica e sociale è solo. Chi ha ideato il network della socialità per eccellenza è una persona socialmente inabile, anche per i bassi standard dei nerd accademici, e una delle spinte più forti nella sua corsa non è stato tanto il desiderio di arrivare, quanto la frustrazione sociale.
È la nuova imprenditoria, fondata sul modo in cui la tecnologia entra o può entrare nella vita delle persone per mutarne le abitudini e su una volontà di successo a modo proprio, con i party in ufficio, le selezioni del personale fatte in base a chi meglio resiste all'alcol e i biglietti da visita con gli insulti.
The Social Network è il primo film a riportare senza clamore o sottolineature arroganti un dato di fatto della modernità, ovvero che la vita in rete (ciò che si fa, si legge e che accade online) per una certa fetta dell'umanità ha la medesima importanza della vita reale. Senza voler criticare quel mondo, Fincher guarda con moltissima empatia il suo protagonista, non gli risparmia stoccate ma sembra concedergli il massimo della benevolenza e della comprensione, anche nei momenti più duri.
Mendes è un brillante regista teatrale (ha messo in scena a Broadway Blue room) che debutta nel cinema con questo film straordinario. Spacey, americano in crisi, sogna la sua Lolita e cambia vita. L'immagine di Mena in un letto di rose è di quelle che non si cancellano più dall'inconscio. Bening disegna un'insopportabile nevrotica middle class: la moglie che abbiamo avuto e non vorremmo mai più riavere. Splendido cameo di un colonnello dei marine in gay outing.
Tutto il mondo si ricorda di Dory, personaggio irresistibile alla ricerca di Nemo. Tutti tranne Dory, amabile pesciolina blu che soffre di un disturbo della memoria breve. Sorgente inesauribile di gag nel Pixar oceanico del 2003, la sua amnesia diventa il centro di una favola sulla disabilità e la maniera di convivere coi limiti che impone. Ma Dory coltiva la reciprocità, l'esperienza di scambio vicendevole con un beluga colpito da un blocco psicosomatico, uno squalo balena affetto da miopia e un uccello di mare vagamente grullo, che mettono le proprie risorse a servizio della loro piccola comunità di "pesci fuori" (d'acqua).
Invertendo i ruoli, a questo giro di corrente i pesci clown recitano i 'rinforzi', Alla ricerca di Dory persegue lo spirito picaresco del titolo nuotando nel mondo di Dory deformato dall'amnesia. Colpita da una fugace immagine dell'infanzia, la ex comedy sidekick si lancia alla ricerca dei suoi ricordi, scongiurando con l'azione l'oblio. Nel viaggio che la separa dall'Istituto Biologico Marino riempito di attrazioni e reminiscenze, Dory rischia non soltanto di non trovare quello che cerca ma addirittura di perdersi. Quello che la protagonista dimentica è qualche volta un gioco, qualche altra una spinta tragica, più di tutto un dispositivo drammaturgico.
Le scene sono disconnesse le une dalle altre, isolate dentro la loro bolla temporale. Ed è proprio questa memoria instabile e altalenante come la marea a fare del film di Andrew Stanton un nuovo (e grande) Pixar concettuale. Più vicino a Inside Out che Alla ricerca di Nemo, a dispetto del titolo, Alla ricerca di Dory si svolge simbolicamente nella testa di Dory, una testa da 'riordinare'. Lo spettatore non naviga nell'immensità dell'oceano ma nella sua proiezione ludica e pedagogica, mutuata direttamente dal parco d'attrazione emozionale di Riley, l'eroina di Inside Out.
Avventura più raccolta ma non meno travagliata, Alla ricerca di Dory non ha l'audacia del film che lo ha preceduto, che si concede addirittura l'astrazione, nondimeno la Pixar ribadisce e persegue un'ambizione melodrammatica e teorica, spingendo più lontano l'intrattenimento (mentale). Sospeso tra vena familista e delirio mnemonico, tra divertimento ed emozione, Alla ricerca di Dory concepisce nei molteplici flashback la versione infantile (e mielata) di Dory, che i genitori allevano nel tenero rispetto della sua differenza. Eroina senza memoria, immersa in un parco acquatico e dentro una storia concepita come un percorso ad ostacoli, Dory rivela una formidabile attitudine al presente, all'intraprendenza e al lavoro di squadra, aggirando la sua diversità e trovando un modo altro di nuotare nell'oceano della vita.
Nel bestiario bizzarro e travolgente messo 'in acqua' dalla Pixar peschiamo su tutti Hank, l'octopus camaleonte, Gerard, l'otaria allocca, Becky, il volatile spiumato e bislacco e un'anonima ostrica sentimentale con un surplus di memoria, lacrime e parole che non ha mai dimenticato la sua Capasanta. Accanto alla banda accreditata di Nemo, le creature marine della Pixar seguono le correnti marine e ci conducono al largo 'abbordando' la nozione di solidarietà e accettazione e toccando il fondo. Del cuore.
Ci sono due anime ben distinte che danno vita a Prometheus, la prima è quella visiva (in gran forma) di Ridley Scott, la seconda è quella narrativa di Damon Lindelof, uno degli autori principali di Lost, abile creatore di misteri, capace di porre due domande nuove a ogni risposta fornita. Il risultato è un film fatto a misura di serie, nato per avere uno o più sequel e non sempre abile nel costruire rivelazioni, emozioni o epica.
Tuttavia, nonostante la grandiosità delle proprie ambizioni e la quantità di misteri e intrecci che mette in scena, Prometheus è anche un film molto semplice, costruito sulla medesima struttura narrativa di Alien (stesse scene chiave, topoi gastrointestinali, decapitazioni robotiche e svolte narrative nei medesimi punti), che ne riprende il design delle astronavi, quello alieno (ricalcando con meno fantasia le idee biomeccaniche di Giger) e in certi punti anche alcune idee visive vincenti, puntando però verso obiettivi più grandi di quelli del film del 1979. E forse proprio dal titanismo di tali ambizioni il film rimane schiacciato anche se non lo meriterebbe.
Infatti, rinvigorito da temi che da sempre gli sono cari come il rapporto tra una creatura e il proprio creatore (sia nel senso di ricerca dell'origine dell'uomo e che di relazione con l'androide David), l'instancabile tenacia femminile che si tramuta in resistenza fisica e la conquista di un'umanità (sia per i robot che per gli uomini) attraverso la ricerca di essa, Ridley Scott torna a dirigere un film all'altezza del proprio nome.
Prometheus crea un universo visivo di straordinario impatto e ne sa gestire gli spazi (nel chiuso delle caverne o dell'astronave che dà il nome al film) con una fenomenale abilità che si riscontra pienamente nelle molte scene di paura, suspense o anche solo tensione. Nei suoi momenti migliori Prometheus è una lunga corsa che rimescola gli ingredienti di Alien per ritrarre la tenacia di un'altra Ripley (simile anche esteticamente), un'altra donna che combatte una battaglia impossibile da vincere con creature orrende e sconosciute, come in un'unica grande operazione chirurgica di rimozione dell'alieno da sè.
Continuamente si ha l'impressione che la forza muscolare del cinema di Ridley Scott lotti contro una sceneggiatura sciatta e che lo faccia con le armi della regia ovvero principalmente quel misto di direzione degli attori (specialmente Michael Fassbender, che trova il suo androide a metà tra il Peter O'Toole di Lawrence D'Arabia e un'inespressività capace tuttavia di malcelare la menzogna), montaggio rigoroso, fotografia desaturata di ambienti espressivi e uso di un 3D che una volta tanto lavora in armonia con tutto il resto per creare immagini profonde e coinvolgenti.
Non può essere un capolavoro Prometheus, di certo non a livello dei precedenti film di fantascienza di Ridley Scott, ma è lo stesso un film sorprendente, capace di esplorare senza freni e attraverso le immagini quella zona di confine tra l'insaziabile desiderio di conoscenza dell'ignoto e il terrore fisico e carnale che questo è capace di generare.
Scorsese accompagna lucide ricostruzioni contestuali a ritmi ipnotici, dando vita ad alchimie capaci di avvolgere lo spettatore. Il senso di vuoto, di distanza, che permea la vita del protagonista è trasmesso con efficacia da ambienti e situazioni presentate; ogni inquadratura è coerente, a creare un tutt'uno coeso, uniforme nel dare spessore vivo alle atmosfere. La solitudine è ovunque nella jungla urbana, ma per Travis diventerà una vera e propria vocazione, elemento scatenante di un disturbo mentale latente; lo straniamento del protagonista arriverà ad essere totale e lo stato di primordiale libertà, così acquisito, libererà le pulsioni represse in una esplosione di violenza. Il genio è nel paradosso: dopo tortuose deviazioni, i binari della psiche porteranno ad esiti anomali ma riconducibili ad un estremo ideale di giustizia, impossibile da raggiungere per qualsiasi individuo "normale". Le confuse luci di New York filtrate da un parabrezza bagnato, fumose atmosfere dai sapori jazz: su inquietanti interrogativi, apertura e chiusura si ricongiungono, a serrare il cerchio tracciato da Scorsese. L'opera, presente come poche nella memoria collettiva grazie anche ad un grandissimo De Niro, è un inossidabile monumento al cinema.
Tra la versione del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, e la rilettura odierna firmata Baz Luhrmann, che invece carica l'impianto visivo fino quasi a soffocare la voce amara e toccante del romanzo di Scott Fitzgerald, è lecito sognare una giusta temperatura di trasposizione, che resta ancora ideale, e rinnova la sfida ai cineasti a venire, com'è nella natura dei grandi classici di fare.
Non c'è dubbio, infatti, che nel libro di Fitzgerald ci sia un corpo che domanda di essere tradotto esattamente con il linguaggio del cinema e della musica: è quello che parla della trasformazione fisica del protagonista, dei costumi che indossa, dell'architettura che abita, degli straordinari eventi che ospita; dell'epoca che incarna. E non è tanto su questo fronte, come verrebbe da pensare pregiudizialmente, che il film di Luhrmann è ridondante: il regista australiano sa animare come pochi altri una festa cinematografica e qui lo conferma a più riprese, sulle note di un r'n'b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo inebriante che all'epoca giocava il jazz. Ma c'è anche un'anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di Luhrmann, che pecca in più riprese di un'eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, si compiace rovinosamente nel finale, e di fatto non trova una via altrettanto personale, se non quella di ripetere modi e caratteri di Moulin Rouge.
Tobey Maguire, nei panni di Nick Carraway, sembra infatti ricalcare la figura dello scrivano tragico di Ewan McGregor, al punto che il regista inventa per lui una cornice gemella e superflua, mentre il Gatsby di Leonardo Di Caprio, straordinario nella performance silenziosa e nella restituzione della solitudine del sognatore e dell'ambizioso (anche in virtù dei ruoli già indossati che si porta appresso), subisce suo malgrado la sorte del film a cui dà il nome, perdendo mistero e fascino man mano che l'orologio scorre e tentando invano di elevare la tensione alzando la voce.
D'altronde, insistendo sul tema del guardare e dell'essere guardati, è il regista stesso a fornire un'indicazione per la lettura del suo lavoro. Nick è un osservatore della vita, un voyeur, Gatsby ha la fama di essere una spia e vive per raggiungere quella luce verde al di là dell'acqua che guarda senza posa, i due si tengono sotto controllo dalle rispettive finestre, mentre un paio di giganteschi occhi maschili (simili a quelli di donna dipinti da Francis Cugat, che Fitzgerald volle come copertina) scruta come un dio pagano il distretto operaio dove i ricchi sostano per il tempo dei loro sporchi comodi. Luhrmann, cioè, denuncia per primo e ribadisce ad oltranza il carattere eminentemente visivo del proprio operato, invitando il pubblico a godere dei fuochi d'artificio, dello "spettacolo spettacolare", e dissuadendolo dal "pretendere troppo", come impudentemente osa invece fare Gatsby.
Di solito i sequel tradiscono la stanchezza ideativa. Non succede a questo film che sprizza energia ed ironia da tutti i pori e si avvale nella versione originale delle voci. tra gli altri, di Eddie Murphy, Cameron Diaz, Antonio Banderas e, udite udite, Julie Andrews. Shrek ha ribaltato le fiabe classiche offrendo loro una nuova vitalità. Se fosse ancora vivo Gianni Rodari avrebbe di che compiacersi.
C’è di che restare piacevolmente stupefatti di fronte a questo incontro “intimo” tra cinema e videogame, per più di un motivo. Innanzitutto, siamo di fronte ad un film che, pur facendo del gioco la sua materia, non è costruito per livelli, come siamo invece stati abituati a vedere, fino alla noia, in tanti prodotti per lo schermo dai soggetti più vari. Quel che fa, invece, il film di Rich Moore è, al contrario, parlare di giochi con il linguaggio del miglior cinema narrativo: costruendo per Ralph un vero e proprio viaggio dell’eroe, che ha per tesoro l’esercizio del libero arbitrio, e inventando non uno ma ben quattro universi, ognuno con le proprie regole e la propria estetica. Il mondo in 8bit di "Fix-it Felix Jr”, quello cupo e formicolante di insettoidi dello sparatutto “Hero’s Duty”, quello variopinto e caramellato del gioco di kart “Sugar Rush” (al livello delle invenzioni più acide di Tim Burton o di certi manga) e il mondo della Game Central Station si alternano con equilibrio e fantasia, popolati di un’infinità di creature nuove e vintage (Sonic, Toad, M.Bison, il fantasmino di Pac-Man) e minacciati dal più terribile dei countdown, ovvero la possibilità di finire “out of order”, rottamati e sostituiti da una versione più avanzata.
La ricompensa di Ralph Spaccatutto vale più di mille medaglie ed è la felicità di una “bambina”, la meravigliosa e pidocchiosa Vanellope Von Schweetz. Insieme, il protagonista che giura che non desidererà mai più essere buono e l’incompresa che preferisce correre in macchina che vestire da principessa, non sono certo due rivoluzioni da poco per l’inossidabile politica dei sogni di casa Disney.
Lasseter e compagni si confermano, dunque, ancora una volta, sul circuito giusto, il più attrezzato di tutti quanto a intelligenza, divertimento e capacità di arrivare dritti al cuore. I bambini saranno loro grati, i nerd ancora di più.
Un anno formidabile per la Disney che dopo Zootropolis, singolare versione animale del contratto sociale, e Alla ricerca di Dory, il miglior sequel della Pixar alla ricerca della 'memoria' perduta, realizza un classico Disney in prossimità del Natale. Oceania, racconto di formazione ondoso, s'iscrive nella linea del sontuoso Frozen con cui condivide lo stesso patrimonio genetico (occhi immensi, zigomi alti, chioma fluente), la stessa vocazione per l'azione, la stessa natura intraprendente, la stessa volontà di doppiare il contegno delle principesse tradizionali godendo di una gioiosa informalità. Perché da diversi anni e diverse principesse, lo studio di Burbank cerca personaggi che agiscano invece di subire, emancipati da vincoli narrativi anacronistici e desueti.
In faccia a una concorrenza sempre più cinica, che reclama una certa, ma sempre controllata irriverenza, la Disney schiera Rapunzel, Merida, Elsa, Anna, Vaiana, spostando più avanti la frontiera del femminile. E a questo giro di vento al cuore della favola non c'è più una principessa e nemmeno una storia d'amore. Due 'emendamenti' che evolvono la narrazione, cambiando l'interazione dell'eroina coi suoi interlocutori. Melange bronzeo di fragilità e potenza, Oceania è autosufficiente e fa avanzare il racconto da sola, veleggiando oltre il reef. Confine liminare da superare per costruire la propria identità e ricostruire quella del suo popolo.
Traghettata nell'età adulta dalla volontà e da una voce che canta di dentro (e di fuori), Vaiana si accompagna con Maui, semidio narciso, e Heihei galletto inavveduto. Irresistibili compagni di ventura che non servono a guidarla o consigliarla ma agiscono da rivelatori della sua natura profonda. Spetterà piuttosto a Vaiana il dovere di rimetterli sulla retta via, quella metaforica dell'integrità per Maui, Prometeo spaccone che ha rubato la scintilla agli dei, e quella letterale, la direzione giusta verso cui guardare, per HeiHei, gallo sconnesso a cui la protagonista riallinea lo sguardo perché non si getti tra i flutti. E una donna che riesce a gestire la crisi esistenziale di un semidio svigorito, la Disney segnala con finezza la crisi contemporanea della virilità, e a sorvegliare i 'colpi di testa' di una creatura instabile tra i marosi, saprà far fronte alle prove della vita, portando a termine la missione di cui l'Oceano l'ha investita: trovarsi e ritrovare l'armonia con la natura.
Navigando in un décor a priori monotono, il film si svolge principalmente in mare aperto, John Musker e Ron Clements lo increspano, misurando la sua incommensurabilità e valendosi dei suoi movimenti per tradurre le emozioni dell'eroina. Disseminato di prove iniziatiche, l'oceano è un autentico personaggio, muto ma determinato. Come il tappeto volante di Aladdin è compagno fidato di Vaiana e dona sovente alle scene un ammicco sapido e 'refrigerante'. Malgrado le polemiche (esagerate) sollevate intorno alla 'grossezza' di Maui, personaggio della mitologia polinesiana rappresentato altrove erculeo e longilineo, Oceania celebra la cultura polinesiana, sublimandola e armonizzandola con la tradizione disneyana. Musker e Clements si sono recati nel Pacifico e avvalsi della collaborazione di archeologi, antropologi, linguisti, storici, pescatori, navigatori, artisti e tattoo masters locali, producendo insieme un universo coerente e rispettoso di costumi e leggende. Pescando nei classici Disney e in una struttura classica, improntata ai codici del buddy movie, la zattera di Oceania carica buon umore e strizza l'occhio a Frozen, da cui ricalca 'duo' e 'duetti', e a Hercules, da cui riprende la maniera di raccontare per disegni. Maui, disegnato a immagine e somiglianza di Dwayne Johnson, di cui converte la massa e l'atletismo, trova nel suo doppio tatuato sul petto una sorta di grillo parlante che prova a moderarne il carattere farfallone e prossimo al genio di Aladino. E su quel corpo inciso dalla vita Vaiana legge il dolore, la gloria e la caduta di Maui, interpretandone la storia, riabilitandola e rilanciandola.
Perché questa nuova eroina Disney, che rifiuta l'etichetta di principessa per quella di "figlia del capo", è maieutica. Vaiana istruisce, sviluppa, dà credito, domanda, genera entusiasmo, fa con gli altri navigando sulla stessa barca e a livello del mare, spiega come si fa e impara come si fa, guarda al futuro e produce una nuova idea di futuro, rinunciando al bene transitorio per accompagnare una tartaruga al mare. Vaiana non è una principessa, a dispetto del costume e l'animale sidekick, a dispetto di Maui che le rinfaccia la tradizione. È una giovane navigatrice che canta e col suo canto ("How Far I'll Go") fa esistere il mondo. Il nuovo mondo, su cui posa la sua conchiglia. Che prende l'onda e torna al mare, come lei.
Dopo Quasi amici ed il successo che ha ottenuto, è diventato molto difficile affrontare il tema del rapporto tra due personalità molto differenti, una delle quali sia affetta da disabilità grave. Ci prova Thea Sharrock, sostenuta nell'impresa dal successo che il romanzo di Jojo Moves ha avuto presso le lettrici di molti Paesi. Il problema è che la scrittrice è anche l'autrice della sceneggiatura e deve aver fatto una certa fatica a tagliare alcune situazioni che probabilmente funzionavano sulla carta ma che sullo schermo vanno a costituire quella patina di romanticismo prevedibile che finisce con lo sconfinare nello stereotipo. Perché 'lui' è bello, è ricco (ha un jet privato), vive in un castello e assomma in sé tutte le caratteristiche del principe azzurro su sedia a rotelle. La goffaggine e i capi di vestiario di lei sono funzionali all'alleggerimento della situazione e, a tratti, danno anche una connotazione di realismo al rapporto. In particolare dopo che Will le rivela una sorpresa (si suggerisce agli spettatori di non farsi attrarre da possibili spoiler perché finirebbero con il perdersi la scoperta di un elemento che offre una reale occasione di riflessione). Se si fosse avuto più coraggio si sarebbe potuto puntare di più su questo elemento senza finire con il disperderlo tra un volo e uno scenario esotico. Va inoltre notato che gli appassionati spettatori de Il trono di spade troveranno la loro Daenerys Targaryen (leggi Emilia Clarke) decisamente mutata anche sotto l'aspetto fisico e avranno la possibilità di riconoscere un altro interprete della serie impegnato su questo set.