Il fallimento del distributore originario (Moviemax) ha portato in sala in un periodo non particolarmente felice questo solido film di guerra malgrado la presenza di una stella di prima grandezza come Brad Pitt. Scritto e diretto dallo sceneggiatore David Ayer, che dietro alla macchina da presa c’è stato solo una manciata di volte, rivolge alla guerra uno sguardo manicheo di chiara impronta yankee, ma mette bene in chiaro che il mestiere di uccidere – i personaggi si riferiscono sempre al combattimento come a un lavoro - è sporco e cattivo (ma qualcuno lo deve pur fare). In merito, le carte sono già in tavola dalla prima scena, una delle più belle dell’intera pellicola, dove un ufficiale tedesco attraversa un desolato campo di battaglia su di un cavallo bianco finchè un soldato americano salta fuori da un tank e lo uccide con il coltello. Scopriamo così che il sergente ‘Wardaddy’ Collier (Pitt) e il suo equipaggio sono gli unici scampati allo scontro che non abbiamo visto e ha lasciato innumerevoli cadaveri sul terreno coperto di fango. La mota, l’umidità e il cielo cupo sono una costante di un film in cui non brilla un raggio di sole: la fotografia di Roman Vasyanov riprende un mondo grigio e dai riflessi metallici che è in sintonia assai di più con l’animo dei personaggi che con la primavera incombente. L’azione si svolge infatti nelle ultime settimane di guerra già in territorio tedesco (anche se le riprese sono state fatte in Inghilterra) quando la Germania è sì vinta, ma non ha ancora smesso di resistere: sostituito un mitragliere defunto con l’imberbe Norman (Logan Lerman), il carro di Wardaddy continua a combattere fino ad arrivare all’ultima missione. Nel frattempo, il sergente si trova ‘classicamente’ costretto a svezzare il pivellino con le cattive, quando lo costringe a uccidere un prigioniero, e con le buone come nella lunga parentesi nella casa abitata da due donne tedesche. E’ quest’ultimo una sorta di intermezzo di immaginata tranquillità – brutalmente interrotta dall’irruzione del resto dell’equipaggio – che si trova quasi a metà della storia e ne collega due parti di qualità disuguale sottolineando allo stesso tempo la struttura quasi teatrale della prima. Il film, infatti, si svolge per lunghi tratti in spazi ristretti - a partire dal più ristretto di tutti, ovvero l’interno del carro armato - e, fino alla battaglia finale, si occupa soprattutto di interazioni fra i caratteri dei diversi personaggi separate da brevi quadri di collegamento. In questi segmenti, i dialoghi si mantengono opportunamente asciutti e la durezza della vita militare, specie in un territorio ostile, ne esce descritta con notevole efficacia. Il salto tra questo modo di raccontare e quello utilizzato per l’ultima missione lascia perciò meravigliati e non in positivo: se la scena dello scontro con il Panzer, per quanto forzata, è comunque girata con i tempi giusti e non stride troppo, la lunga (troppo) sequenza finale sembra incastrata a forza sul resto della vicenda. In pratica, si tratta di una variazione sull’indimenticabile parte conclusiva de ‘Il mucchio selvaggio’: Wardaddy e soci, inchiodati nello Sherman ormai immobile, fanno fronte a un numero imprecisato di nemici che assaltano (assai poco razionalmente) all’arma bianca cadendo come mosche: i tedeschi, come gli indiani e i messicani, sono spersonalizzati e cattivi, oltre che un pochino tonti. Con ogni probabilità a Peckinpah sarebbero piaciuti la coreografia e il montaggio delle scene (Jay Cassidy e Dodi Dorn), ma la retorica a stelle e strisce torna a far capolino in modo fastidioso con le immancabili citazioni bibliche e chissà se vorrà dire qualcosa che a dare un’accelerata alla faccenda sia un cecchino (aka sniper, il film negli Stati Uniti è uscito prima di quello di Eastwood). Sicuramente, si sente la nostalgia per il tono molto più basso di una prima ora occupata soprattutto dalla descrizione della brutalità che può esprimere l’essere umano in guerra: a rendere al meglio tale descrizione contribuisce la buona prova d’insieme degli attori e chissà quanto ha influito l’addestramento pre-riprese. Pitt si mantiene sotto le righe nel disegnare Wardaddy, facendo anche dimenticare che ha almeno vent’anni di troppo per il ruolo, mentre Lerman sa rendere la perdita dell’innocenza di Norman anche se in ‘Noi siamo infinito’ mi era piaciuto di più. Accanto a loro sul tank ci sono il pio Boyd di un poco riconoscibile LaBeouf, il rude Grady interpretato da Bernthal e il Gordo con cui Michael Peña garantisce la quota multiculturale: il loro è un bel lavoro di squadra, proprio come quello dell’equipaggio e questo è certo uno dei pregi del lavoro di Ayer. Anche considerando gli imperdonabili traccianti che trasformano fucili e cannoni in armi laser danneggiando in parte le belle sequenze di battaglia, i pregi di ‘Fury’ finiscono così per prevalere sui difetti in due ore di intrattenimento di discreto livello che si concludono con una bella raccolta di immagini d’epoca sui titoli di coda.