Così il nerd è un fusto, il nero da atleta diventa spalla comica, la ragazza asociale è una sventola che scalcia a ritmo di musica e la reginetta, perennemente in caccia di like sui social, si ritrova per contrappasso nel corpo di un uomo di mezz'età in sovrappeso. Insieme dovranno superare varie sfide e riportare un gioiello incantato in cima a una montagna: solo così potranno ritornare a casa.
Il primo personaggio che incontrano ripete infatti frasi limitate come un PNG (personaggio non giocante), imprigionato in una programmazione funzionale a spiegare cose ai "giocatori" e a consegnare loro gli oggetti necessari. Addirittura il flashback, all'interno del suo racconto dell'antefatto, viene vissuto dai giocatori come una scena non interattiva, che può solo essere subita, e il cui termine videoludico è cutscene. Senza contare che i protagonisti hanno un numero limitato di "vite" e, finché non le esauriscono, precipitano dal cielo come nuovi quando vengono uccisi. Il ragazzo nerd ovviamente sa riconoscere queste meccaniche di gioco e non manca di spiegarle agli altri personaggi e dunque al pubblico, d'altra parte il didascalismo è una delle cifre del film, che sembra aver paura di essere troppo di nicchia per risultare davvero mainstream.
La cosa più interessante e divertente del nuovo Jumanji non è però l'aspetto metaludico, davvero plateale, bensì il rapporto tra gli attori da action movie sui generis e i personaggi che sono dentro di loro. Così The Rock ha l'abilità di essere super-carismatico ma ha anche paura di un sacco di cose, perché in fondo è pur sempre giocato da un nerd; la ragazza tostissima è in realtà molto insicura; la bella nel corpo di Jack Black veicola poi con leggerezza un messaggio trans positivo, visto che dopo lo shock sembra adattarsi presto al suo corpo e apprezzarne gli organi genitali. Meno felice invece il nero atletico calato nella spalla comica, che continua a lamentarsi delle sue sfortune proprio come farebbe una spalla comica qualunque, e ha pure la stessa voce stridula (per lo meno nel doppiaggio italiano) e la propensione a gridare - come del resto aveva l'agente di polizia nero nel film originale.
Un autore di culto del fumetto che trova nuovamente la strada del cinema dopo il successo di Sin City non può che ottenere un'accoglienza favorevole da parte degli appassionati. A questo punto il critico cinematografico dovrebbe ritirarsi in buon ordine per lasciare spazio all'esperto di settore. Non ci si può però esimere dall'esprimere un parere sulla differenza dei mezzi di comunicazione utilizzati. Se con il fumetto il lettore ha un ruolo 'attivo' (si sofferma a piacimento sulle tavole, prosegue rapidamente nella lettura, torna indietro, si ferma...) in sala (in attesa dell'edizione in dvd) tutto ciò non accade. Ci si trova così di fronte a un film in cui gli eroi supermacho (sei settimane intensive di palestra per tutti) fanno in pezzi il ricordo di qualsiasi Conan. Difendono la civiltà e quindi, da uomini tutti di un pezzo contrapposti a mostri, gay sovradimensionati (Serse) e maschere crudeli non possono che odiare e combattere decidendo che "no retreat no surrender" diventi la loro linea di condotta.
Nella struttura complessiva 300 si presenta come un film decisamente 'avanti', una sorta di asticella del salto in alto posizionata oltre i limiti finora pensabili al cinema (anche se con la frustrazione di chi nelle scene di battaglia sente di trovarsi dinanzi a un videogioco particolarmente sofisticato senza poter intervenire schiacciando pulsanti). Se ci si ferma qui quindi tutto funziona: è un 'gioco' realizzato ad alto livello qualitativo. Se si pensa però che mentre esce questo film un conservatore illuminato come Clint Eastwood ci sta raccontando con Flags of Our Fathers prima e Lettere da Iwo Jima poi come di qua e di là dalla linea del fronte (ovunque questa sia stata tracciata nel tempo e nello spazio) ci sono degli uomini e non delle macchine di morte, allora il discorso cambia. Woody Allen diceva che quando ascoltava Wagner gli veniva voglia di invadere la Polonia. Vedendo 300 può venir voglia di invadere l'Iran (che una volta si chiamava Persia per chi non lo ricordasse).
Difficile negare al film di Mel Gibson una forza e un impatto fuori del comune. Anche se non siamo di fronte ad un film originale, anzi ad uno dei film più "già visti" della storia del cinema. Sì, perché Gibson costruisce un film di guerra con eroe superiore (perché posseduto da un ideale di ferro dal quale non si sposta nemmeno con le cannonate) come ne abbiamo visti tantissimi in tutta la storia del cinema americano, soprattutto quello più classico (anni Quaranta e Cinquanta). La costruzione, la struttura (la prima metà è delinezione del personaggio, sua storia d'amore, suo addestramento in caserma, la seconda parte è il campo di battaglia con la durezza della guerra piena di sangue e morti, con quell'iperrealismo che a partire da "Salvate il soldato Ryan" di Spielberg non può più mancare), la musica, i personaggi, gli eroismi, la retorica, tutto è classico che più classico non si può. E in questo Gibson sa costruire un prodotto perfetto, che conquista e commuove. Allora, se il Cinema è originalità questo film meriterebbe il voto più basso possibile, se invece è potenza narrativa e capacità di coinvolgere lo spettatore, allora va riconosciuto a Gibson il voto più alto. Dato che il Cinema è sicuramente un condensato di entrambi questi elementi, diamo a Gibson l'onore delle armi e riconosciamo che il suo film è potente e merita. Non sarà un capolavoro, ma è onesto e non ingannerà mai lo spettatore.
Il terzo episodio di "Star Wars" si presenta come il più completo e complesso della nuova serie. Lucas avrebbe potuto limitarsi a 'giustificare' gli sviluppi della vicenda così come li abbiamo visti nel mitico "Star Wars", punto di origine della saga, e nei due episodi successivi che si concludevano con le diverse agnizioni: Leia e Luke si scoprivano fratelli e figli di Darth Vader (Fener alle nostre latitudini).
Il regista invece dispiega il racconto con grande potenza visiva, conservando intatto lo stile complessivo ma con alcune profonde differenziazioni. Quasi nessuno spazio viene lasciato a siparietti comici mentre il confronto tra Bene e Male non ha nulla di manicheo. La complessità del personaggio di Anakin Skywalker è lì a testimoniarlo. Dato poi che il cinema, anche e soprattutto quello di fantascienza (per quanto "Star Wars" non possa essere costretto in una gabbia di genere), è figlio del proprio tempo non si può non leggere in controluce una riflessione sull'abuso che viene fatto in questi nostri tempi della parola 'democrazia'. Osservate il duello (non vi diremo fra chi per non sciuparvi la sorpresa) che si svolge nel luogo in cui si riunisce il Senato: è lì che sono in gioco le sorti di una società; è lì che in nome della pace si scatena la guerra; è lì, come dice sconsolata Padmè Amidala, che "La libertà viene abolita tra gli applausi".
Le perplessità suscitate inizialmente da un'operazione che poteva sembrare di puro business sono ampiamente fugate. L'entertainment si unisce alla riflessione. Quindi: Bravo Lucas!
Abile fusione di poliziesco e fantascienza, Blade Runner vive un rapporto di simbiosi con Il cacciatore di androidi, romanzo di Philip K. Dick da cui è tratto. Anche se il film risulta più coerente ed equilibrato, alcuni riferimenti sono apprezzabili solo leggendo il libro: i dettagli del test o la descrizione di un mondo in cui le riproduzioni artificiali degli animali, quasi estinti, diventano status symbol. Tuttavia il film descrive perfettamente una società multietnica e tratteggia perfettamente i diversi personaggi, tutti pervasi dall'amarezza tipica dell'opera di Dick: dallo scienziato colpito da invecchiamento precoce che vive in una casa piena di giocattoli, ai replicanti afflitti da angosce esistenziali, dalla fragile e sensuale Rachel alle prese con la propria identità sconosciuta al detective anni Quaranta trasferito nel futuro. Altrettanto efficaci sono gli effetti speciali di Douglas Trumbull e la colonna sonora di Vangelis. Blade Runner divenne rapidamente un cult-movie, cosa che anni dopo permise a Ridley Scott di distribuirne la versione "originale" ( Blade Runner: the Director's Cut). Meno ottimistica nel finale dell'edizione nota al pubblico, essa è priva della narrazione fuori campo del protagonista e della ripresa aerea conclusiva, aggiunta per volontà del produttore, utilizzando ritagli della sequenza iniziale di Shining.
È un felice incontro quello tra l'indole da commediante con la quale Doug Liman dirige film d'azione, la passione per le trame narrate in modo poco convenzionale di Christopher McQuarrie e la light novel "All you need is kill" di Hiroshi Sakurazaka da cui Edge of tomorrow - Senza domani prende le mosse.
Senza esplorare le implicazioni filosofiche ed etiche del vivere sempre il medesimo giorno Liman e McQuarrie si divertono molto con il montaggio, sfruttandolo per diverse gag e riuscendo a lavorare di ellisse in maniere sconosciute ai blockbuster hollywoodiani.
Il principio alla base della dinamica narrativa rimane quello messo per la prima volta in scena da Ricomincio da capo, ovvero il miglioramento personale attraverso la continua ripetizione delle medesime situazioni, tuttavia la maniera in cui McQuarrie lo espande in una trama di fantascienza ne enfatizza ancora di più la parentela con la videoludica. Non solo infatti il maggiore Cage arriva a conoscere i movimenti dei propri nemici, gli eventi e le loro conseguenze, potendo così arrivare ogni nuovo giorno più in là del precedente (realmente e metaforicamente) ma anche gli alieni sono di diverse tipologie, l'uccisione di ognuna delle quali porta conseguenze differenti, inoltre le aree dove si svolge il film (principalmente la spiaggia e poi il Louvre) somigliano a mappe di videogame sparatutto per come sono inquadrate nelle panoramiche e anche il design dei protagonisti è vicinissimo a quello dei personaggi giocabili nei giochi di guerriglia fantascientifica.
Abili nel non rimanere impantanati nelle dinamiche ripetitive su cui si fonda il film, Liman e McQuarrie sfruttano il principio più attraente di questa storia solo fino a che serve, sapendo realmente quando fermarsi per non rovinare tutto e trovando in Emily Blunt un'implacabile macchina empatica. Nonostante il suo personaggio non abbia nessuna evoluzione (è effettivamente sempre il medesimo nella medesima giornata) l'attrice britannica lavora benissimo di plausibilità e onestà sentimentale, risultando anche più fondamentale per la credibilità del film dello stesso Tom Cruise.
Con un fumetto, i videogiochi e diversa fantascienza moderna (quella di Neill Blomkamp in primis) a fare da affluenti il fiume Edge of tomorrow scorre impetuoso e, nonostante un arco narrativo canonico, riesce in certi punti anche a stupire sinceramente, manipolando benissimo le diverse fonti d'ispirazione per riaffermare la capacità ad oggi unica del cinema di alimentarsi delle altre forme narrative senza snaturare se stesso.
Dopo sette anni di assenza alla regia (anni nei quali si è comunque dedicato alla produzione delle altre opere Pixar) torna John Lasseter. Era il 1999 quando aveva diretto il suo ultimo lungometraggio, Toy Story 2, e molte cose sono cambiate in questi 7 anni nel mondo dei cartoni animati, proprio per merito della Pixar. Sono usciti capolavori come Monsters & Co., Alla Ricerca Di Nemo e Gli Incredibili, film che hanno segnato una decisiva svolta nel modo di scrivere (ma anche di disegnare e progettare) cartoni animati, storie diverse che non hanno perso le loro radici classiche ma che sanno essere molto moderne ed emozionanti nel senso più cinematografico possibile.
Cars invece punta tutto sulla divertente (e lo è per davvero) traduzione del nostro mondo in un universo di macchine (nel film ci sono vetture che fanno il verso a Jay Leno, Arnold Schwarzenegger e Michael Schumacher) poggiando su una trama che più prevedibile non si può. Rimane comunque innegabilmente molto bello il modo in cui la Pixar ha antropomorfizzato le automobili (giganteschi occhi "giapponesi" sul parabrezza, radiatori come baffi, paraurti come mento e perfetta armonia tra tipo di vettura e carattere del personaggio), un raro esempio di utilizzo "emozionale" della computer graphic.
Guy Ritchie punta su un indirizzo ambizioso: 221B, Baker Street. Lente d'ingrandimento alla mano, smette di farsi sedurre dall'eccentricità per accumulazione (i tanti personaggi delle pellicole precedenti) e la trova, purissima, per "concentrazione" nella figura di Sherlock Holmes, così come fece capolino inizialmente sulle pagine di Conan Doyle, prima di rifarsi trucco e parrucco in seguito alle ingerenze dei lettori, della storia, della leggenda e del cinema stesso. Un uomo di straordinario acume e ugual passione per l'azione, ordinato mentalmente come nessun altro (se n'è fatto un "metodo"), che vive da bohemien nel disordine dei ritagli di giornale (la cronaca scandalistica), della polvere (bianca?) e dell'assenza di regolari abitudini, scazzottando alla bisogna a mani nude. Questo ritorno alle origini del personaggio -benché poi la sceneggiatura segua un plot originale- è una prima evidenza a favore del lavoro di Ritchie.
Seconda, ma intimamente connessa, viene la scelta degli interpreti: il nuovo Holmes emerge, coerente e vigoroso, dalla zona di intersezione e sovrapposizione tra le caratteristiche romanzesche del detective di Conan Doyle e quelle reali e "biofilmografiche" di Robert Downey Jr., talento istrionico, uomo intelligente e contraddittorio, paladino iron(ico), non privo di invadenti fantasmi e noti (alle cronache) trascorsi. Al suo fianco, Jude Law è un dottor Watson con personalità, un passo indietro in quanto a genialità e spavalderia ma complice sincero, coinquilino avvenente, braccio (destro) e spalla (fuori e dentro la finzione) che valgono bene una scenata di gelosia, un tocco di isterismo, una manciata di voluta ambiguità. Rachel Mc Adams, infine, è "la donna", furba e traditrice, unica fonte femminile di interesse per il nostro, in quanto caso irrisolvibile, abitante di quel territorio del diavolo - la criminalità elegante e scaltra - con cui il protagonista flirta tanto piacevolmente. Ma uno più uno, questa volta, non fa un due pieno.
Qualche spacconeria di sceneggiatura, non poche lungaggini, dialoghi che promettono ma non conquistano, fermano lo spettatore dal fregarsi le mani e gli lasciano sul viso un sorrisetto sarcastico. Alla Holmes.
La produzione è sempre Disney ma siamo totalmente da un'altra parte rispetto al cartone animato del 1951. Benchè la storia ancora una volta mescoli elementi da i due libri di Lewis Carrol: "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie" e "Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò", il mix è inedito. Questa volta l'andamento psichedelicamente caotico per il quale solo perdendosi completamente Alice riusciva a trarre qualcosa dal suo peregrinare è scartato a favore di una trama decisamente più canonica. Arrivata nel paese delle meraviglie Alice ha un destino già scritto, ha una missione e un nemico da sconfiggere.
Dunque non solo non siamo dalle parti dei testi originali ma non siamo nemmeno dalle parti dei film di Tim Burton, nei quali solitamente il protagonista è un outsider che trova in un luogo oscuro e apparentemente ostile il suo vero habitat perchè più sincero ed autentico dei conformismi borghesi cui era abituato. Alice si trova male nel mondo reale perchè è diversa mentre nel mondo delle meraviglie lotterà per riportare lo status quo, per normalizzare quel luogo dalla tirannia folle della Regina Rossa. Peccato che proprio la Regina Rossa sia la vera outsider: sorella maggiore brutta e dalla testa troppo grande che è sempre stata all'ombra della sorella minore, tanto carina e amabile quanto cretina e impalpabile, e che non riuscendo a farsi amare preferisce essere odiata. Ecco perchè dopo un inzio fantastico, che entra di diritto tra le cose migliori che Tim Burton abbia mai girato, il resto del film è una continua delusione. La parte nel paese delle meraviglie è un percorso verso il conformismo di un personaggio ritenuto matto che, come in un film fantasy, subisce una profezia che si deve avverare, ha un'armatura, una spada, nemici mitologici e via dicendo.
E a poco purtroppo servono le molte interessanti intuizioni visive, le mille piccole raffinatezze di scenografia (praticamente tutta in computer grafica), di costumi e di trucco di fronte ad una parabola disneiana nel senso più deteriore del termine, per la quale l'eroina del caso trova la strada che era stata decisa per lei invece di forgiarne una con le proprie mani o secondo i propri gusti.
Di certo non aiutano un 3D realizzato tutto in postproduzione e abbastanza inutile (almeno il 50% del film ne è privo tanto che se guardato senza occhiali non presenta il classico effetto "doppio") e momenti come la "deliranza" del Cappellaio Matto, che da sola è probabilmente la punta più bassa di tutto il cinema di Tim Burton e di quello di Johnny Depp messi insieme.
Se è vero che le storie di filibustieri narrano di personaggi più che longevi, morti mai morti davvero, vascelli fantasma e profezie millenarie, e che dunque la resurrezione era un'ipotesi che non si poteva scartare a priori, il quarto capitolo della saga miliardaria prodotta da Bruckheimer si rivela invece già arrugginito e stanco e fa acqua da diverse parti.
Il passaggio di timone dalle mani di Gore Verbinski a Rob Marshall ne è in parte responsabile, poiché non si conta una sequenza visivamente ghiotta fatta eccezione, forse, per l'attacco delle sirene-piranha, ma i problemi riguardano anche i protagonisti e più che mai il racconto. Lungi dall'essere profondamente e personalmente coinvolto nei fatti, "Johnny Sparrow" si limita a fare da spalla e da collante tra le diverse linee narrative e le differenti divise in campo, tornando, dunque, ad un ruolo più vicino a quello dei suoi esordi in questa serie di film, ma senza una banda di matti e fedeli di contorno che gli dia la possibilità di far sfoggio del suo carisma. Il tocco imprevedibile e assurdo, nel senso teatrale del termine, che ha fatto del personaggio un'icona e una visita piacevolmente attesa ad ogni nuova occasione, è stato dimenticato chissà dove, fuori da questo capitolo. Di Penelope Cruz, invece, basterà ammettere che fa rimpiangere Keira Knightley, il che è tutto dire, ma occorre chiarire che la colpa è più del personaggio che dell'attrice. Oltre all'insipido Barbanera e alla figlioccia, il parco personaggi non riserva altre novità di rilievo, fatta salva la parentesi anderseniana della sirenetta e del giovane vicario di Dio, narrativamente sottosfruttata.
Ad aggiungersi ai suddetti disagi dell'equipaggio e a decretare il lento e inesorabile inabissamento della pellicola è una sceneggiatura inventiva dal punto di vista degli accadimenti e delle piccole trovate d'intrattenimento (su tutte, le fughe acrobatiche e circensi di Sparrow) ma integralmente priva di dialoghi memorabili, di suspence, di ribellione. Delle storie di pirati, questa quarta ha i costumi e le ambientazioni ma manca completamente dell'epica e del sapore del mare.
Il tragitto dell'eroe è così chiaro che, in caso lo spettatore non l'avesse capito, in una delle prime scene il padre suggerisce di chiamarlo Arthur «come Re Artù», infatti come lui finirà per ottenere la corona solo dopo aver recuperato un'arma inaccessibile a tutti tranne che al prescelto. In casi come questi, oltre alla simpatia del protagonista che pur Jason Momoa cerca di metterci, a fare la differenza sono i personaggi di contorno e soprattutto i villain. I primi non brillano, sia per le interpretazioni senza carisma, sia perché di loro anche alla fine del film non sappiamo nulla. Non abbiamo idea per esempio di come sia il regno da cui viene Mera né di come abbia maturato i propri ideali e ancora meno sappiamo di Vulko, se non che era segretamente fedele ad Atlanna. Il villain principale, Re Orm, è poi l'antitesi di Arthur, fin dal look ariano e dall'ossessione per la corona, ma se dell'educazione di Arthur sappiamo che ha avuto un padre premuroso, di quella di Orm ci è ignoto tutto.
Proprio il re marito di Atlanna è infatti il pezzo mancante del puzzle, evocato ma mai descritto né messo in scena. Così il vero contraltare di Arthur finisce per essere il pirata Manta (interpretato da uno sfortunato Yahya Abdul-Mateen II spesso coperto da un casco), di cui vediamo la morte del genitore. Si tratta però di un personaggio che nasce cattivo e avido, uccide innocenti per capriccio e non ha nulla di tragico. Arthur si cruccerà di aver causato l'ossessione del pirata nei suoi confronti, ma finisce lì. Per un film dove il tema cruciale sarebbe l'eredità si fa ben poco per svilupparlo, tutto viene dato per scontato e si seguono formule arcinote, sperando che bastino gli effetti speciali, qualche battuta e un po' di ammiccamento sexy.
Bello, ma con molte riserve: Spider-man 3 è un grande spettacolo, capace di colpire cuore e occhi, ma il perfetto mix di azione, ragione e sentimento ottenuto da Raimi con il secondo episodio, non si è ripetuto. Per tutta la durata della pellicola permane sottesa la sensazione che la sceneggiatura di Alvin Sargent, non riesca a "stare dietro" alla quantità di personaggi e situazioni che il film vorrebbe proporre. Due donne e tre villain di spessore sono troppi per un solo film e, malgrado la non irrilevante durata dello stesso (quasi due ore e mezza), alla fine della visione si è colti da un sentimento contrastante: certo, lo spettacolo non manca e alcune sequenze lasciano a bocca aperta e col fiato sospeso, ma si prova anche un vago senso di incompiutezza per quello che poteva essere e non è stato.
Spider-man 3 è senza dubbio uno dei più spettacolari film di ogni tempo: le sequenze che vedono protagonisti Sandman e Venom, quella con la gru impazzita, il lungo combattimento finale, Peter e Mary Jane dolcemente sdraiati su una ragnatela, sono momenti di grande intensità emotiva e indubbio fascino visivo. Purtroppo però Raimi, forse stressato dalla responsabilità di dirigere il film più costoso di tutti i tempi (oltre 250 milioni di dollari) pasticcia un po' con script e personaggi e il risultato finale è inaspettatamente discontinuo.
All'andamento altalenante del film contribuisce inoltre una prestazione del cast altrettanto incerta, che se da un lato vede Kirsten Dunst, diva inarrivabile e brava a incarnare e rappresentare le ansie della fidanzata insoddisfatta, dall'altro mostra un Tobey Maguire incredibilmente monocorde e inespressivo, un totem catatonico che affronta con lo stesso piglio le situazioni drammatiche e quelle più leggere (che scadono spesso nel ridicolo involontario). Spider-man 3 affastella troppi personaggi che, fatalmente, finiscono per aver ben poco spazio e senz'altro meno di quello che meriterebbero: fondamentale nel fumetto, Gwen Stacy, è qui per esempio ridotta a mera macchietta di contorno. La sensazione che Raimi abbia sprecato un assist vincente per chiudere alla grande una trilogia che, in ogni caso, avrà un posto di rilievo nella storia del cinema, c'è tutta. Una stella in più per il grande spettacolo degli effetti speciali.
Anche se è citazionista fin dal titolo (8½ di Fellini), il nuovo film di Quentin Tarantino va guardato – come del resto i suoi predecessori – per sè così da poter apprezzare appieno la capacità del regista di saper integrare gli spunti altrui nella propria visione cinematografica. Se la consistenza di quest’ultima fosse di poco valore, il patchwork di ispirazioni finirebbe per risolversi in uno sconclusionato accumulo invece di riuscire a tenere sulla corda lo spettatore per tre ore malgrado l’impianto quasi teatrale in cui le chiacchiere sono per lungo tratto più importanti dell’azione. Come nel lavoro precedente, il cineasta di Knoxville parte dal western e poi divaga: là c’erano la blaxploitation e il melodramma sudista, qui se l’ispirazione prende le mosse dal cinema horror ben presto ci si sposta nei territori del giallo e del noir in cui si dipana la mortale partita a scacchi (o, visti il tempo e i luoghi, a poker) tra i protagonisti. Lo stesso autore ha indicato ne ‘La cosa’ (da cui Morricone recupera un brano per una colonna sonora bella ma non invadente) l’influenza principale e certo c’è molto dei temi cari a Carpenter in un gruppo di persone che non si fidano l’una dell’altra costrette a convivere per una minaccia esterna in uno spazio ristretto, ma la sceneggiatura, oltre a richiamare l’abusato ‘Dieci piccoli indiani’ (di cui riprende – attenzione, spoiler! – alla lettera il titolo originale), mostra tratti che sarebbero piaciuti all’Hitchcock più claustrofobico, magari dalle parti di ‘Nodo alla gola’. Al maestro inglese strizza l’occhio inoltre la narrazione di Tarantino medesimo con la voce sopra, specie nella sequenza del caffè che ha funzione di contrappunto a uno dei momenti di più alta tensione, ovvero il riconoscibilissimo marchio di fabbrica tarantiniano che fa seguire uno scoppio di selvaggia violenza a una lunghissima tirata in crescendo pronunciata da Samuel L. Jackson. Mentre la struttura a capitoli non si può dire una novità, sebbene in questo caso siano delimitati da didascalie laddove altrove era presente una scansione più che altro logica, colpisce che nessuno ci lasci la pelle per novanta minuti più recupero, periodo impiegato ad accumulare un’ostilità pressoché palpabile che si scatena nella seconda metà del film in cui le ragioni e i torti si incrociano e si accavallano perché tutti hanno un segreto da nascondere. Siccome però, al dilà delle divagazioni, sempre di un western si tratta, l’inizio è dedicato a una diligenza che avanza nella coltre bianca che ricopre il Colorado (i panorami sono mozzafiato): il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) sta scortando alla forca Daisy (Jennifer Jason Leigh), ma per strada è costretto a raccattare il collega Warren (Jackson) e il sedicente sceriffo Mannix (Walton Goggins). Il maltempo li costringe a riparare in un trading post dove si sono rifugiati altri quattro figuri, tra i quali l’ex generale sudista Smithers (Bruce Dern) e un sussiegoso ometto che si dice di professione boia (Tim Roth evidenzia il richiamo al clima paranoico de ‘Le iene’). La circostanza che a gestire la locanda non sia la consueta padrona, ma il messicano Bob (Demian Bichir), fa nascere qualche dubbio a Warren, ma è una scelta obbligata adattarsi a trascorrere assieme una notte assai movimentata. L’intera vicenda si svolge infatti nel giro di ventiquattr’ore, incluso l’ampio flashback che occupa il quarto segmento consentendo di allacciare un po’ di fili; presenza un po’ ingombrante, ma capace di lasciare il fiato sospeso pur sapendo ciò che sta per accadere, oltre a regalare al bel faccino di Channing Tatum un ruolo di efferato sadismo. Se il racconto funziona, il merito va condiviso con le immagini che lo illustrano, grazie alla fotografia di Bob Richardson e al montaggio di Fred Raskin: se i bianchi esterni affascinano a partire dall’innevato crocifisso d’apertura, l’ambientazione in un’unica, grande stanza è realizzata con un utilizzo davvero ammirevole degli spazi e delle inquadrature – peccato solo che le riprese siano state effettuate in 70mm e nelle sale normali qualcosa vada perso. Alla parte visiva si possono ascrivere i migliori fra gli spunti dell’abituale umorismo più o meno urticante, dal capitombolo nella neve di Ruth e Warren al punching-ball in cui il bounty killer trasforma il viso della sua prigioniera, dalla porta senza chiavistello al cesso lontano nella tormenta, mentre un discorso particolare merita la lettera di Lincoln. In aggiunta al costituire il filo rosso che percorre la trama, la missiva sottolinea di nuovo il critico punto di vista del regista sulla storia del suo Paese, in cui ha notevole rilievo la questione del razzismo: la stolida rozzezza mentale dell’uomo bianco, specie dei sudisti Mannix e Smithers, rende quasi sopportabile la vendetta di Warren sul figlio di quest’ultimo, episodio di pura ferocia al netto dello humour nero che ne caratterizza lo svolgimento. Alle prese con personaggi dotati di un variegato livello di sgradevolezza, gli attori brillano per convinzione e affiatamento, sia tra i fedelissimi sia tra i nuovi arrivati: se Jackson domina la scena con il consueto tocco di gigioneria (per la prima volta ha il nome più alto in cartellone), va sottolineata almeno la prova di Jennifer Jason Leigh costretta a imbruttirsi nei panni di un personaggio che si va definendo nella sua centralità con il procedere della storia.
Parte con un enjambement narrativo il terzo ed ultimo capitolo di Lo Hobbit, riprendendo per una breve introduzione (finita prima ancora della comparsa del titolo) gli eventi durante i quali Peter Jackson era andato a capo al termine del capitolo precedente, ovvero la furia del drago Smaug. È una delle trovate di adattamento più efficaci del film, gli dona da subito un ritmo sincopato e conferma la forte unità narrativa che questa serie di tre film vuole avere.
Tuttavia da quel momento in poi il resto di La battaglia delle cinque armate è molto fedele al suo titolo e preferisce l'estesa e spesso noiosa rappresentazione dei conflitti tra diversi eserciti ai molti altri spunti che la parte terminale del libro originale offriva. Dopo che per 5 film abbiamo visto diversi re all'opera e diversi umani sudare per guadagnare il proprio ritorno a quella carica (Aragorn prima e Bard qui), ora Peter Jackson vuole mettere sotto i riflettori proprio i conflitti di re e condottieri (veri protagonisti della storia), divisi tra chi insegue ossessioni personali e chi pensa al benessere del proprio popolo. Se già in La desolazione di Smaug era possibile notare quanto la leggerezza del romanzo da cui tutto parte venisse appesantita per avvicinare questa trilogia a quell'altra, tratta dal più noto volumone di Tolkien, in questo la trasformazione è quasi completa, così anche i piccoli inserti di umorismo o le facezie più semplici, che dovrebbero segnare la differenza tra i due racconti, sembrano forzate, meccaniche e mal amalgamate con il resto.
Nella volontà di creare più di un ponte narrativo con Il signore degli anelli questo film finale di Lo Hobbit introduce personaggi e tematiche, anticipa eventi e prepara alla grandezza degli scontri in un lungo ripetersi di nomi (sia di luoghi che di persone) e luccicar di sguardi. Nel chiudere il viaggio di Bilbo Baggins Peter Jackson sceglie infatti la grande epica, ne allarga il respiro e vi inserisce molte invenzioni (più che in qualsiasi altro film), all'insegna di una serie di conflitti titanici tra eterni nemici e grandi poteri, di storie d'amore molto convenzionali e sentimenti sbandierati. Il risultato purtroppo è che una serie di film che è stata in grado di cambiare nel corso degli anni 2000 molto di quello che si pensava dovessero essere i blockbuster, finisce con le più tipiche dichiarazioni d'amore smielate, domande retoriche e svelamenti banali.
Rimane così schiacciato uno dei temi più presenti nell'opera tolkeniana che l'adattamento filmico di Il signore degli anelli rispettava molto, l'idea che le cose più piccole, gli elementi più trascurabili e le persone meno in vista possano essere le più importanti, che la storia la facciano più gli anelli di semplice fattura, cui nessuno dà importanza, o i piccoli uomini di cui tutti si prendono gioco che i grandi condottieri.
L'appassionato frequentatore di sale cinematografiche nonché divoratore di film in VHS (lavora in una videoteca) Quentin (in omaggio a un personaggio interpretato da Burt Reynolds) Tarantino alla sua opera prima si rivela già un Maestro. Innanzitutto proprio perché quando riesce a mettere insieme i soldi per girare un film con il cast di cui sopra ha il timore che quello resti la sua unica opera. Allora, come è accaduto a tutti coloro che hanno poi imposto al cinema delle svolte fondamentali, inserisce tutti quegli elementi a cui poi la sua filmografia finirà con il fare ritorno. Se si eccettuano i personaggi femminili qui totalmente assenti se non nella magistrale scena di apertura in cui si discetta in termini di puro maschilismo sul 'vero' significato della canzone "Like a Virgin" di Madonna, gli altri 'luoghi' del cinema che lo interessano ci sono tutti.
A partire dalla cinefilia che si esprime non solo nell'attenzione a un genere e a un Maestro tout court come Stanley Kubrick (vedi Rapina a mano armata ma nella stessa presenza di attori che rappresentano il passato, il presente e il futuro della Settima arte. C'è poi il gusto per l'intreccio (qui ancora con un impianto teatrale punteggiato da flashback comunque molto efficace) e per una sceneggiatura 'politically uncorrect' (basti vedere come vengono trattati verbalmente i 'negri'). Perché i personaggi di Tarantino intendono da subito perseguire una logica alla Jekyll & Hyde. Vogliono essere al contempo cinematografici e veri. E ci riescono. C'è poi il gusto per la violenza che resta tale proprio per consentire all'occhio di Quentin di sublimarla in spettacolo. Non manca l'approfondimento psicologico di ogni singolo ruolo né lo sguardo ironico che viene rivolto ai loro punti deboli. Il tutto (ma questi sono solo alcuni dei punti di forza del cinema tarantiniano) sostenuto da una colonna sonora ricercata e da una regia di chi conosce il cinema non per averlo studiato ma per averlo visto.
Se gran parte dell'appeal dei Pirati deriva dal suo plusvalore spettacolare, nel terzo capitolo c'è indubbiamente un'idea forte di mondo, un mondo più in là di questo, dove ciascuno dei protagonisti accetta le conseguenze del proprio destino mettendosi al servizio generoso dell'altro. Il viaggio ai confini del mondo diventa un percorso di formazione che questa volta comprende tappe luttuose, la morte del padre di Elizabeth, e di rinuncia, il sogno di Jack per la vita di Will. Recuperato il capitano Sparrow, accaparrato dal cattivo Jones e conservato quasi folle in un limbo bianco accecante e salato, il film di Verbinski salpa per mare eccedendo piacevolmente la misura e invadendo il racconto di battaglie spettacolari. Esplosioni di assi, alberi abbattuti, cannonate assordanti, sciabole sferraglianti, abissamenti e ammaraggi scoperchiano letteralmente il mare e sguinzagliano la fantasia degli autori.
Ai confini "dei pirati" si conciliano due anime inconciliabili: guerra e piacere. Più il conflitto cresce in accanimento più aumenta l'esibizione della bravura, lo sfarzo del duello che diventa una danza in equilibrio sull'abisso salato. Come fu per la Compagnia dell'Anello, anche i Pirati dei Caraibi controvertono gli archetipi delle fiabe dove la quête (la ricerca) è sempre per la conquista di qualcosa. Qui invece l'obiettivo diventa la distruzione di qualcosa: il cuore di Jones. Torna l'idea di un gruppo composito in missione che combatte battaglie e trova aiutanti più o meno magici. Un'identità di razze separate (pirati sì ma francesi, africani, indiani, cinesi) che stenta a farsi collettiva ed è ricca di spassosissimi conflitti interni poi annullati nella frenesia dell'azione.
I protagonisti uniti e resistenti diventeranno strumenti funzionali al progetto comune: combattere i cattivi capitani. Ad aiutare i ragazzacci di Verbinski accorrono i buoni padri, quello trapassato di Elizabeth, quello dannato di Will e quello ston(e)-ato di Jack, dispensatori di saggezza e conoscenza. Per l'ultima volta (forse) la saga dei pirati ci dona il prodigio scenico di Johnny Depp e del suo pirata, declinazione ironica dell'eroe. Corpo grottesco e carnevalesco alienato da se stesso e proiettato e frammentato in dieci, cento, mille Sparrow che vivono e agiscono a un tempo ciascuno per proprio conto, governando la Perla Nera o ramazzando il suo ponte. Personalità multiple e simultanee che si annullano in una sola nell'epilogo dall'accento epico, dove ancora una volta Jack sfodera il suo orgoglio pirata brindando alla prossima rotta. Un firmamento di stelle e un consiglio: non muovetevi fino alla fine del mondo e dei titoli di coda.
Due anni dopo l'incarnazione radicale trovata in The Wrestler e nel campione in disarmo di Mickey Rourke, il cinema di Darren Aronofsky mette in schermo una storia speculare. Fondato sullo stesso semplice "teorema", salire su un ring o sulle tavole del palcoscenico per esistere, Black Swan coglie questa volta la protagonista al debutto con la vita e nel ruolo della vita. Per essere, la Nina della Portman sarà obbligata a prendere un ascensore per l'inferno e a battersi col suo doppio fino a contemplarlo e a raggiungere con lui la perfezione. In aiuto del regista newyorkese interviene il balletto per antonomasia, un classico del teatro di danza, sintesi perfetta di composizione coreografica e lunare poesia tardo romantica, di chiarezza formale e inquietanti simboli psicoanalitici, che contrappone un cigno bianco (Odette) a un cigno nero (Odile) tra arabesque e attitude, tra fremiti nervosi di braccia e straordinari movimenti del corpo. E proprio tale prospettiva presta il fianco ad avvitamenti mentali, fluttuazioni interiori e metamorfosi corporali che mancano il segno, ostentando le smisurate ambizioni filosofiche dell'autore.
I rapporti spaziali-geometrici tra i protagonisti e l'architettura viva e in movimento creata dal Corpo di Ballo, perfetta rifrazione e moltiplicazione di Odette, ispirano Black Swan e fondano la sua storia senza limiti e confini di genere. Dramma, mélo, thriller e horror si combinano sullo spazio scenico (ri)creato da Aronofsky e diviso in poli d'attrazione positivi e negativi che si annullano al centro nel momento dell'estasi amorosa di Odette e del suo principe, di Nina e del suo coreografo.
Anche questa volta il regista mette al centro della scena un corpo, una donna alle prese con l'altro da sé, ossessione e oggetto di venerazione con cui cercare una possibile integrazione. Ma se a Mickey Rourke, saturo di carne e livido di pugni in faccia, è riuscita l'impresa del volo sul nero dell'epilogo, Natalie Portman fallisce la parabola e la verità del corpo, ricalcando la gestualità cignesca e crollando a terra.
In "**V per Vendetta**", l'eccellenza è la parola d'ordine. La trasposizione dall'opera originale alla grande schermata non solo è impeccabile, ma si erge come un tributo degno e rispettoso. Rendendo omaggio alla graphic novel di Alan Moore e David Lloyd, il film offre una narrazione visivamente potente e coinvolgente, fedele alla sua fonte di ispirazione.
La critica politica è affilata come una lama nel film, tagliando attraverso le vene della società con una precisione chirurgica. Il regista e gli sceneggiatori piantano le loro bandiere su terreni di discussione scottanti, spingendo gli spettatori a riflettere sui temi della libertà, del controllo del potere e della resistenza.
Nonostante la maschera che nasconde il volto, la caratterizzazione di V è un trionfo della performance e dell'arte cinematografica. Hugo Weaving dà vita a questo enigmatico ribelle con una maestria che va oltre le espressioni facciali, trasmettendo una gamma di emozioni e intenzioni attraverso la voce e il movimento corporeo.
Natalie Portman si distingue come una forza della natura nel ruolo di Evey, portando una profondità e una vulnerabilità commoventi al personaggio. La sua presenza magnetica aggiunge un ulteriore strato di complessità alla narrazione, rendendo il suo viaggio emotivo un punto focale del film.
Infine, l'ottima colonna sonora serve come accompagnamento perfetto per l'azione e il dramma che si svolgono sullo schermo, intensificando l'impatto emotivo di ogni scena e completando l'esperienza cinematografica in modo magistrale.
In sintesi, "V per Vendetta" è un trionfo artistico e narrativo, un inno alla ribellione e alla speranza che continua a risuonare con forza anche dopo la sua conclusione.
L'idea della specie aliena che usa il corpo degli esseri umani come ospite per la proliferazione parassitaria non era nuova già nel 1979 - basti pensare a L'invasione degli Ultracorpi di Siegel. Eppure l'alieno, concepito dalla follia visionaria di H.R. Giger e realizzato da Carlo Rambaldi, è divenuto nel corso degli anni una vera e propria icona, cinematografica e non solo. Esempio sublime di bellezza e malvagità, può essere visto come una versione estrema di "dark lady" - e non a caso, forse, è femmina, nera e sfuggente. Una specie totalmente priva di qualsiasi moralità, che ha come unico scopo la sopravvivenza e la riproduzione, è una trovata geniale nella sua semplicità: gli alieni hanno la stessa psicologia delle mosche, ma in più sono estremamente letali.
Lo stesso titolo, Alien, sembra riferirsi tanto all'essere alieno quanto all'ambiente entro cui si svolge la storia: le creature divengono padrone di tutto ciò che serve al loro scopo, tanto dei corpi usati come materia prima organica quanto della base spaziale, nonostante questa sia opera degli uomini. L'angoscia generata dal film sta proprio nel disperato girovagare dell'equipaggio tra i claustrofobici labirinti della colonia, in cerca di un'impossibile salvezza. Sale progressivamente, nei personaggi e nel pubblico, la consapevolezza che gli alieni braccano gli umani come il gatto fa col topo. Un gioco crudele che al topo riserva solo due finali: la fuga, o la morte.
La più inquietante meditazione sul ruolo della specie umana nel cosmo che il cinema abbia mai offerto.
Pochi film come Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma nella storia del cinema hanno dovuto affrontare una missione altrettanto impossibile in termini di soddisfazione dello spettatore. Arrivare dopo 16 anni di silenzio (l'ultimo film uscito della saga di Guerre stellari risaliva al 1983) e cercare di essere all'altezza di una trilogia adorata da una fetta consistente della popolazione del globo è un compito improbo persino per lo stesso creatore della saga. George Lucas lo affronta a viso aperto, incurante delle inevitabili critiche, in ogni caso inferiori a quelle copiose (e meritate) per aver rivisitato la trilogia originale, aggiungendovi ossimorici inserti digitali. La computer graphics sfoggiata in Episodio I corrisponde al massimo sforzo tecnologico possibile a cavallo dei due millenni e permette di trasformare i nuovi scenari immaginati da Lucas in mondi incantati di grande fascino. Lo spirito del meraviglioso, tra Meliès e il Barone di Münchausen, guida Lucas al punto di allontanarlo sempre più dallo spirito della trilogia originaria, pessimista e "sporca" dove la nuova creazione è asettica e rasserenante.
La stranezza di utilizzare effetti speciali molto più avanzati per raccontare una storia ambientata in un'epoca antecedente non influisce sull'intento di Lucas, interessato solo a realizzare quel che ha sempre avuto in mente, senza più limiti di budget e tecnologia. Così facendo, però, il regista dimentica come la presenza di quei limiti stimolasse forzatamente la creatività, obbligasse, forse, ad approfondire una trama che in questo capitolo sembra troppo spesso procedere con il pilota automatico. In Episodio I lo stupore lascia spazio alla complicità del fan saccente, e questo è solo in parte dovuto alla natura di prequel dell'opera, visto che abbondano nuovi personaggi e sottotrame. Ma i primi non si avvicinano lontanamente alla statura degli eroi degli altri episodi, mentre le seconde espandono la cosmogonia senza andare oltre il mero accumulo di informazioni marginali nel complesso della saga. Qui-gon, maestro di Obi-wan Kenobi, non si discosta dall'idea stereotipata di cavaliere Jedi, e Jar Jar Binks, la bizzarra creatura che parla in esperanto e dovrebbe costituire il lato comico della vicenda, spicca principalmente per la sua inutilità e assenza di empatia presso grandi e piccini (nel giro di breve tempo Jar Jar diverrà il personaggio più detestato della saga).
George Lucas sceglie evidentemente di rimandare la componente sostanziale della vicenda agli episodi successivi, utilizzando Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma per sfoggiare una tecnologia avanzata, introdurre il pubblico a una nuova trilogia e correre veloce sulle ali dell'entusiasmo per la riapertura di una saga, che pareva chiusa per sempre e destinata a sopravvivere solo nei ricordi (e nelle continue re-visioni).
Solo una sequenza spicca e si lascia ricordare a lungo: la corsa degli "sgusci", un chiaro omaggio alla corsa delle bighe di Ben Hur ricca di strizzate d'occhio alla contemporaneità - la telecronaca - e al prosieguo della saga - la presenza di Jabba The Hutt - , con protagonista il piccolo Anakin, condannato al triste e inesorabile destino di diventare Darth Vader.
Troppo poco per un ambizioso blockbuster di fantascienza, molto meno per un film che si fregia del marchio immortale di Star Wars.
Ancora una volta un road movie, l'impianto che sottende quasi ogni film dello studio di John Lasseter, ovvero la riconquista del proprio spazio vitale e di un nuovo equilibrio attraverso un clamoroso quanto improbabile "ritorno", compiuto per amore di qualcuno. Un viaggio che come sempre è anche movimento interiore e la cui imponente distanza è metafora dei sentimenti che agiscono quegli esseri minuscoli inseriti in spazi immensi. Woody e compagni già erano tornati a casa per ben due volte attraversando distanze impensabili per un giocattolo, questa volta devono anche evadere da un asilo che di notte diventa un carcere (bellissimo come elementi che di giorno hanno un senso con l'illuminazione notturna sembrino parti di una galera).
Potendosi permettere il lusso di non dover introdurre dei personaggi già noti il film si concentra sui nuovi comprimari, tutti dotati di personalità in linea con il genere carcerario (tranne Ken e Barbie straordinari outsider a modo loro), e affronta con più complessità la mitologia della serie, cioè quale sia il rapporto dei giocattoli con i propri padroni. Devono rimanergli accanto a tutti i costi? Possono ribellarsi? Hanno diritto a sentirsi feriti? La Pixar sembra sostenere di no, parteggiando a prescindere con i bambini e non con i protagonisti.
Al terzo film la serie di Toy story invece che afflosciarsi si dimostra ancora vitale, anche in virtù della maturità sempre maggiore dello studio di produzione, forse abbiamo visto film Pixar più solidi di questo ma dal punto di vista visivo si toccano nuove vette utilizzando le innovazioni raggiunte nelle opere precedenti come la ormai piena padronanza (tecnica ma anche espressiva) di diverse tipologie di filtri che scimmiottano gli obiettivi delle macchine da presa come si vede nelle scene di caos infantile all'asilo.
Nonostante sia parlato Toy story 3 è un film che comunica quello che conta solo visivamente, capace di smuovere lo spettatore con un raggio di sole al tramonto che entra dalla finestra o con lo sguardo colmo di sentimenti complicati, oscillanti tra paura e solidarietà, di un personaggio digitale posto di fronte alla sua ineluttabile fine, mano nella mano con i propri compagni. Sembra straordinaria abilità recitativa ma è in realtà scrittura per immagini e musica, non si tratta dell'espressività di sintesi di cui sono capaci i computer Pixar ma del culmine narrativo raggiungibile di un arte audiovisuale che non abbisogna di parole.
Dopo l'ambizioso esordio con Following, Nolan torna a lambiccare lo spettatore con una nuova sfida intellettuale, riscoprendo l'arcano potere della scrittura e rimettendo in discussione il tradizionale linguaggio cinematografico. La poetica del regista-letterato risiede in una scena apparentemente marginale, in cui Leonard parla con la moglie, che rilegge un libro che già conosce. All'obiezione di lui per il quale l'interesse della lettura consisterebbe nel sapere ciò che viene dopo, la donna oppone il suo punto di vista, facendosi portavoce del leitmotiv dell'intero film, che può apparire proprio come un libro sfogliato a caso, o comunque non nell'ordine di numerazione delle pagine. In effetti il trucco del luciferino Nolan trascende i limiti del pur elaborato script e risiede nel cuore stesso del cinema: il montaggio.
Decostruendo e ricostruendo la linearità della fabula, reinventa un inquietante mosaico di ambiguità ed incertezze, con una sintassi intricata e scandita dalla martellante punteggiatura delle dissolvenze, che catapulta continuamente lo spettatore in un rompicapo difficile da districare. Il punto debole di questo cerebrale edificio è però nella sua stessa logica di destrutturazione, che suggerisce in anticipo la soluzione dell'enigma e presenta un finale (?) discutibile, proprio per la sua inautenticità di scena conclusiva. L'originalità del prodotto è da ricercarsi piuttosto nella particolare struttura compositiva, che rivoluziona il più scontato modo di fare cinema, suggerendo soluzioni inedite e tuttora insondate.
Non è superfluo aggiungere che lo stesso Nolan ha "ricordato" Memento nel più ambizioso e maturo Inception, in cui un non meno tormentato Dom Cobb ricalca un iter non dissimile da quello del suo predecessore Leonard Shelby.
Vite, professione, pericoli e destini paralleli di Matt Damon e Leonardo DiCaprio. Il primo dà corpo e volto a Colin Sullivan, il secondo a Billy Costigan, poliziotti. Billy-Leo proviene da padre (quasi) mafioso e da madre di famiglia bene. Un contrasto che ne fa un tormentato triste e aggressivo. L'altro viene "tirato su" fin da piccolo dal boss Costello (Nicholson), che se lo ritroverà agente primo della classe, inseritissimo nella polizia di Boston. Colin sarà dunque l'infiltrato di Costello nella polizia, Billy, l'infiltrato (supersegreto) della polizia nella banda di Costello. Parte la costruzione di un'architettura complessa che fa leva sugli incarichi speculari dei due poliziotti: scoprire le talpe, cioè se stessi. Alla fine tutto si ricompone al meglio, che però forse non è il "meglio" che si attende lo spettatore.
In questo quadro agiscono: agenti dell'Fbi, doppi e tripli (altri) infiltrati, psicologa sexy che divide il letto ora col poliziotto ora col (presunto) criminale, sergente antipatico ma efficiente, prostituta filosofa che si inginocchia a comando davanti al boss. Il tutto su di un tappeto di violenza tollerabile e di ironia come deterrente a lunghi discorsi sulla vita e sulla morte del grande Costello, meglio, del grande Nicholson, anche lui filosofo e gran conoscitore dell'animo - criminale- umano.
In questo senso non si può non citare lo sceneggiatore William Monahan che ha ripreso lo spunto di un thriller del 2002, Infernal Affairs, ambientato a Hong Kong. Monaham riesce a inserire la voce fuori campo, tanto cara al regista, con le giuste misure, come azione viva e non frenante. E poi gli attori: con una citazione in parti di contorno ma decisive per Alec Baldwin e Martin Sheen, i migliori se stessi, dunque efficaci. Rilevato un DiCaprio di straordinaria febbrile intensità e palestrato, con torace praticamente doppio di quando faceva Poeti dall'inferno. È il miglior film dell'era recente di Scorsese. Occorre tornare, come riferimento di altrettanta qualità, all'Età dell'innocenza. Quando raccontava di Dalai Lama o di gangs d'altri tempi, o di paramedici mistici, o di citizen aviatori-igienisti, faceva prodotti di ottimo mestiere, ma l'anima del figlio del Queens e di Brooklyn, era rimasta là, con De Niro, coi bravi ragazzi eccetera. Qui Scorsese ritorna a casa. Cambia solo nomi (irlandesi non più italiani) e grattacieli (Boston non più New York). Sì, Martin è tornato.
Il regista Gondry, si avvale del geniale sceneggiatore Charlie Kaufman (Essere John Malkovich - Il Ladro Di Orchidee) per dare vita ad un'opera originale, dal sapore dolce-amaro. Il film del creatore di Human Nature però, nonostante sia particolarmente coinvolgente, delude le aspettative, a causa della sua esposizione narrativa frammentata che al contrario di molte altre pellicole montate con lo stesso stile, confonde lo spettatore, lasciandolo perplesso anche quando al termine del film si arriva alla comprensione globale. Inoltre, per alcuni risvolti della trama, quest'opera ricorda fortemente il thriller Vanilla Sky, remake dello strepitoso Apri Gli Occhi di Alejandro Amenabar.
Fortunatamente, i quattro protagonisti principali, donano a questa commedia una sostanziosa dose di profondità e di spessore. I personaggi sono reali, veri e credibilissimi; non solo per il trucco usato sul set che è pressoché assente ma soprattutto per le varie sfaccettature caratteriali che li rendono umani. Ciascuno dei protagonisti lascia trasparire le sue angosce, i suoi dolori e le sue debolezze. Wood è il perfetto ritratto di un ragazzino represso, solo e frustrato mentre la Dunst è una giovane sensibile, coraggiosa e con il cuore lacerato. Jim Carrey è bravissimo nell'impersonare Joel, un uomo malinconico, semplice e sognatore che viene completamente travolto dal ciclone Clementine, ragazza carismatica interpretata da una sbalorditiva Kate Winslet, vera sorpresa di questo film. Un uragano di irriverenza e di eccentricità caratterizzano il personaggio della Winslet (da sempre una delle migliori attrici di Hollywood) che appare quasi irriconoscibile a causa del look volutamente trasandato.
ato come un corto e dopo il successo riscritto come un lungometraggio Whiplash è il secondo lavoro da regista di Damien Chazelle, che già aveva avuto modo di lavorare in maniere poco convenzionali nel cinema musicale scrivendo la divertente sceneggiatura del thriller Il ricatto. Mescolando due matrici fondamentali del cinema americano, ovvero il genere dei "grandi domani musicali" (spesso ambientato nelle scuole di musica, fatto di scontri e concorsi e oggi declinato più che altro nei film di ballo di strada come la serie Step Up) e quello della vittoria dello spirito sulla carne canonizzato da Rocky e da lì in poi applicato quasi sempre allo sport (benchè nella categoria rientrino anche film come Il discorso del re), Chazelle giunge ad un ibrido capace di farsi portatore di idee e punti di vista poco usuali nel cinema statunitense che vanno ben al di là della musica, rendendo Whiplash probabilmente il miglior film musicale degli ultimi 10 anni.
La bravura del regista sta nell'usare l'incontro e scontro con un allenatore/maestro che incute il timore del sergente istruttore Hartman di Full metal jacket (in questo senso la scelta di casting ricaduta sul grandissimo caratterista J.K. Simmons non è solo azzeccata ma forse l'unica possibile) per condurre lo spettatore nel processo di miglioramento individuale di un musicista che cerca di emergere. Unendo un forte umorismo ad una contagiosa tensione verso la vittoria, la battaglia contro se stesso di Andrew viene esternalizzata e diventa una lotta contro un'altra persona che lo spinge fino ai limiti del tollerabile e poi oltre. Si uniscono così le figure dei duri insegnanti del genere "scuola di musica" con il percorso di purificazione personale che porta il protagonista a superare quei limiti fisici che lo bloccano inizialmente grazie ad una svolta psicologica (è propria del genere inaugurato da Rocky anche la dicotomia tra una vittoria finale effettiva e una personale).
Quello che il racconto di una trama piena di colpi di scena una volta tanto davvero imprevedibili (altro merito clamoroso del film) non dice è però l'ardore con il quale questo cineasta di 30 anni coniughi esigenze commerciali e ricerca di un cinema personale, filmando quasi tutto il suo film da molto vicino per cogliere sudore e fiatone, escoriazioni della pelle e sangue che ne fuoriesce (gli effetti sonori sembrano quelli di un film dell'orrore). Con grande intelligenza la difficoltà d'approccio ad uno strumento solitamente poco celebrato (la batteria) e un genere non amato dal grande pubblico (il jazz) sono stemperate dai più ruffiani montaggi d'allenamento e titanici scontri. Magnificando la portata della storia e facendone una lotta tra punti di vista sulla vita (come si capisce dal dialogo a tavola con la famiglia) Whiplash facilmente eleva il proprio discorso al di sopra delle contingenze trattate, per affrontare i massimi sistemi. Non temendo di esagerare spinge il suo protagonista al massimo dopo averlo fatto partire dal minimo (due assoli di batteria ben diversi aprono e chiudono il film), rifiutando di piegarsi alla morale buonista familiar/sentimentale imperante che vorrebbe mettere gli affetti prima di ogni cosa.
Commovente per qualsiasi amante della musica la precisione con la quale Whiplash esegue le parti musicali, tarando l'abilità degli strumentisti a seconda di chi stia suonando (in alcuni casi a livello maniacale), scegliendo le partiture e le soluzioni meno commerciali (non ci sono brani realmente famosi al di fuori della cerchia degli amanti) per non portare mai il jazz allo spettatore ma lasciare che accada il contrario, mantenendo così un'integrità e una serietà da applausi.
Ad ogni film di animazione che compare sugli schermi gli esperti del settore traggono indicazioni sulla lotta in corso tra le major per conquistarsi quella fetta di pubblico che è sembrata essere per lungo tempo dominio quasi assoluto della Pixar. Il pubblico invece, nella sua stragrande maggioranza, si chiede se il film sia o meno pensato per un pubblico adulto che vuole trovare una miriade di ammiccamenti a cinema e televisione pregressi o, molto più semplicemente, si rivolga al più tradizionale (e 'vecchio'?) target costituito dai bambini. Nel caso di Cattivissimo me il pubblico dei più piccoli può trovare occasione di divertimento (anche se qualche inevitabile citazione non manca). Perché senz'altro la sceneggiatura si rivela debitrice di 'classici' della letteratura tout court come "Racconto di Natale" di Dickens (se Scrooge significa spilorcio Gru sta come abbreviazione di gruesome= orrendo/macabro) e "Le streghe" di Roald Dahl (anche lì c'era un orfano e le streghe si camuffavano da persone qualunque come fa Gru). Le orfanelle poi hanno letteralmente invaso la letteratura dell'Ottocento così come sono state protagoniste della simpatica ma a tratti dark animazione tedesca di Tiffany e i tre briganti . Anche lì i cattivacci si scioglievano dinanzi al calore e alla vivacità della piccola protagonista.
Consapevole com'è della simpatia che sempre si portano dietro i bad guy (soprattutto se alla cattiveria uniscono un po' di goffaggine) la sceneggiatura punta tutta la prima parte sulla malvagità del protagonista dal naso adunco (ma osservate come quel naso diverrà utile nella narrazione di una fiaba) per poi trasformarlo in un cuore tenero. Se inizialmente abbondano le tecnologie alla 007 così come l'iperattività dei Minion (che sembrano parenti stretti degli Oompa Loompa di Willywonkiana memoria con la variante che qualche diversità tra loro ce l'hanno) la storia lascia progressivamente spazio alle dinamiche di relazione per giungere a una morale forse scontata ma poco praticata in una società globale che si basa sul pre-giudizio: mai dire mai.
Bigger, faster, better.
Coinvolgente caleidoscopio di emozioni, la seconda puntata del supereroe più amato ai botteghini migliora, laddove era possibile, il già ottimo primo episodio, e si propone come raro esempio di blockbuster d'autore, in uno scenario segnato dalla sistematica crisi di idee e contenuti in cui versa l'attuale cinema d'intrattenimento made in Hollywood.
Raimi, lavora di fino sui personaggi e cesella con maggiore perizia rispetto al primo episodio le caratteristiche psicologiche degli stessi, amplificando i problemi che affliggono Maguire/Parker, imbranato e combattuto tra l'amore per la non eccessivamente bella Kirsten Dunst ed il dovere di supereroe, il tenebroso Jess Franco, dilaniato dalla sete di vendetta per il padre ed il sentimento di amicizia per il nostro eroe. Meno felice, in questo ameno scenario, la scelta di Molina come villain. Doc Ock è indubbiamente un cattivo efficace (e Raimi, forse memore delle sue precedenti pellicole, rende la sua trasformazione piuttosto cruenta e spaventosa, rispetto al tono generale del film, certamente non terrorizzante), ma l'idea che l'attore sia costantemente fuori posto, perdura per tutta la durata della pellicola. In ogni caso, il meccanismo ideato dagli sceneggiatori è pressoché perfetto: non ci sono sbavature, momenti morti (merito questo anche di un montaggio eccelso), tutti i nodi vengono al pettine ma rimane sempre tanta carne ancora da cucinare.
Tecnicamente Spiderman 2 è ben fatto, anche se non setta nuovi supremi vertici nel campo degli effetti speciali: i personaggi sembrano ancora leggermente "appiccicati" al fondale e qualche animazione appare legnosa, pur rimanendo sempre e comunque dalle parti della pregievolezza.
In ogni caso, ed a sorpresa, Spiderman 2 segna uno spartiacque netto rispetto al passato: ora tutti sanno tutto di tutti e, nonostante il finale del film metta lo spettatore in grado di immaginare cosa possa succedere nel terzo e conclusivo capitolo della trilogia, atteso per il 2007, il balzo in avanti compiuto in questo episodio, permette di essere già oggi ansiosi di sapere "come andrà a finire".
Un blockbuster d'autore. Finalmente.
Come Batman, suo compagno di nuvole e (super)avventure, Superman ritorna al cinema ma diversamente da lui non convince quasi mai. Gli effetti speciali e lo stupore visivo da soli non cancellano una mancanza di affezione per il fumetto e l'incapacità di rileggere cinematograficamente un mito pop che negli ultimi anni è cambiato radicalmente. Modellato sulla figura di Douglas Fairbanks Sr, l'eroe super di Jerry Siegel e Joe Shuster sullo schermo è refrattario all'inquietudine e al rischio concreto del dissolvimento della personalità a cui siamo abituati e che affligge i supereroi del cinefumetto contemporaneo. Riazzerato il personaggio, come se al cinema non avesse mai avuto un passato, questa volta tocca a Zack Snyder provare a eludere la moltiplicazione industriale della griffe, rifondando l'archetipo, avviando una nuova continuità e archiviando l'inalterabile Christopher Reeve e l'aggraziato Brandon Routh.
Concepito per piani cronologici destinati a incrociarsi, L'uomo d'acciaio inizia in un passato remoto che si fa presente e poi passato prossimo, illustrando letteralmente il concepimento del supereroe 'fatto' subito uomo sulla terra e ritornato bambino nei frequenti flashback. Il meccanismo procedurale, che interrompe la fluidità e la logica temporale, restituisce il senso della ricerca del protagonista, la consapevolezza della propria inalterabile differenza e della sofferenza di fronte alle prove che vanno superate e vinte. Versione 'apocrifa' di Superman, L'uomo d'acciaio rivela 'ciò che era tenuto nascosto' e che non riconosce, o almeno mette in discussione, l'ispirazione divina del personaggio, qui concepito naturalmente e portato alla luce dal padre-levatrice di Russell Crowe, eroe di impeccabile fattura con alle spalle il senso epico dello spettacolo. Sopportando sul proprio corpo e dentro un'arena domestica il pathos ferito e franto di un dramma familiare, Crowe doppia la voce dell'immortale Marlon Brando, producendosi in un genitore che si offre come testimone e modello costruttivo, indicando al figlio l'esistenza di un orizzonte di autentica libertà. Sulla Terra gli fa eco il padre adottivo di Kevin Costner che affronta il rischio e la bellezza della ricerca, nutrendo la nostalgia struggente di Kal/Clark. Se c'è allora un elemento di (grande) interesse nel Superman di Snyder, altrimenti fracassone e inefficace, è la rinnovata relazione padre-figlio che mette al mondo (e per il mondo) un erede giusto, un erede orfano perché contempla la probabilità di perdersi e comprende il debito dell'esperienza umana. La più grande avventura dell'immaginario del Novecento cambia angolazione e pone lo sguardo dalla Terra. L'uomo guardato dalle stelle è adesso astro precipitato e uomo tra gli uomini, uomo dentro alla notizia, dietro a occhiali ordinari e accanto a Lois Lane. È corpo di (super)man al termine di una battaglia che costituisce una radicale e definitiva frontiera esistenziale.
Dopo essere caduto dal cielo e dopo essersi rialzato dal fondo, James Bond si accomoda davanti a un quadro di William Turner, esposto con orgoglio alla National Gallery, perché quel dipinto rappresenta “La Valorosa Témériere” rimorchiata lungo il Tamigi e destinata alla demolizione. Una combattente temeraria che ha vinto la tracotanza di Napoleone e adesso scivola adagio verso il tramonto. Il suo e quello dell’epoca che l’ha vista eroica. Nella fruizione museale di Bond c’è l’essenza, il senso e il valore di Skyfall, ventitreesimo film della serie diretto da Sam Mendes, che riazzera il personaggio fino a ‘ucciderlo’, rifondando l’archetipo e avviandone biografia e serialità autoriali. Se con Martin Campbell Bond ricominciava dal doppio zero, con Mendes riparte da zero e da una mestizia, una sensazione densa di pena, affetto e responsabilità, derivata dalla vulnerabilità di M, ‘madre’ ideale e onnipotente minacciata da un figliolo tutt’altro che prodigo. Il cattivo di Javier Bardem, doppio oscuro di Bond e nemesi filiale di M, è l’ennesimo megalomane della saga che pratica il delirio gettando l’ordine tranquillo del mondo nell’angoscia. Nella testa e dietro lo sguardo di Mendes, quel mondo e quell’angoscia si fanno assolutamente personali, convertendo il conflitto internazionale in un dramma ‘familiare’. Il corpo materno di M, fonte aspra di insegnamenti e conflitti per Bond, viene sconvolto da una minaccia abnorme e traumatica che occupa abusivamente la scena di un legame storico, professionale, emotivo, affettivo. La vita di M è letteralmente nelle mani dell’agente di Fleming, la cui incolumità pone a Bond il problema delle sue radici, della sua provenienza e dell’impossibilità che possano costituire un terreno solido, sicuro e al riparo dall’imprevedibilità della vita. È a questo punto che il regista inglese introduce un discorso sulla tradizione, sugli echi, sul ‘marchio’, che mentre celebra i cinquant’anni di vita cinematografica di Bond produce una separazione irreversibile col passato, mai riducibile per Mendes a meri citazionismo e collezionismo. Per questa ragione l’Aston Martin DB5 argentata e armata di Sean Connery, infila di nuovo la strada e l’avventura, trattenendo romanticamente l’aura dei Bond che furono, simbolizzando una discendenza con l’agente di Daniel Craig, dando corpo (e motore) a una memoria collettiva. Antropomorfizzata, l’Aston Martin partecipa al destino di Bond e di M contro un villain ossigenato e incapace di guarire. Si chiudono invece le cicatrici di Bond, che lascia andare e si libera perché altrimenti sarebbe impossibile continuare. Quietati lutti, ombre e fantasmi, James Bond emerge dalla staticità iconica e dall’immodificabilità del passato, smantellando le spoglie epiche dell’oggetto perduto e reintegrando, rinnovati, Q e Miss Moneypenny. Al Silva superbamente eccentrico e decentrato di Bardem, agente di un mondo che non c’è più e da cui dipende patologicamente, non resta che la nevrosi e l’irriconoscenza del debito simbolico con M, vecchia e valorosa ammiraglia destinata alla ‘rimozione’. La trasmissione, nel Bond di Mendes, si realizza sullo scarto, sul resto di corpo, di carne, sull’oggetto museale (quadro o automobile). Perché in quel residuo c’è ancora tantissima vita da accogliere e perseverare dentro un’altra segretissima missione. Dentro al corpo, ieri pesante, oggi bolla di leggerezza, di Daniel Craig.
La Disney promette già un capitolo dietro l'altro, come sta facendo con l'acquisita Marvel, e allora forse, tra qualche anno, Rogue One non apparirà più grande di una "stellina" nel firmamento della saga, ma, anche fosse, sarà una stella con una sua luce propria, solida e brillante, per ragioni diverse e concorrenti.
Prima, la sua posizione geografica nella mappa stellare: temporalmente precedente al quarto (Una nuova speranza) e successivo al terzo (La vendetta dei Sith), questo episodio è contenuto niente meno che da quarant'anni in quella prima didascalia scorrevole del primo Guerre Stellari di sempre ("...Navi spaziali ribelli, dopo aver colpito una base segreta, hanno ottenuto la loro prima vittoria contro il malvagio Impero Galattico. Durante la battaglia, spie ribelli sono riuscite a rubare i piani tecnici dell'arma decisiva dell'Impero, la Morte Nera...").
C'è poi la sua posizione simbolica, all'indomani del primo capitolo del nuovo canone, firmato J.J. Abrams: un film che, nel bene o nel male, al di là della sua natura di calco, ha mantenuto la promessa di risarcire i fan delusi dalla seconda trilogia di Lucas e di riportarli "a casa". Infine, la sua posizione estetica: di gran lunga più interessante, più polverosa e action, di quella proposta dal "Risveglio della forza".
Soprattutto, Rogue One , pur inserendosi a cuneo come un "midquel", è un episodio indipendente, che sa sfruttare la libertà che deriva da questa indipendenza per fare quello che Abrams non ha voluto o potuto fare, vale a dire raccontare una nuova storia. Estraendo la giovane Jyn dal nascondiglio sotterraneo, il personaggio di Whitaker dissotterra letteralmente qualcosa che era ancora sepolto, riportando in superficie il piacere dell'invenzione.
Il film ci mette un bel po' ad ingranare, ma, una volta che la squadra è al completo, non ha incertezze né cadute di tono. Presi singolarmente i componenti dell'equipaggio non appaiono straordinari: non lo è il droide che fa calcoli probabilistici né l'orientale cieco che crede nella Forza, ma è l'eroismo del gruppo a funzionare. Lì c'è Star Wars. Non solo e non tanto nelle apparizioni digitali, a loro modo ologrammatiche, dei vecchi eroi, ma nel sacrificio dei nuovi, che, rapidi come meteore, brevi come vite di santi, si fanno subito leggenda. L'impronta della serie è chiaramente anche altrove: nella coppia Felicity Jones-Diego Luna (il quale sfugge dal sabotare involontariamente il film, riprendendo punti sul fronte romantico), nei salti nell'iperspazio, nelle scene canoniche nelle città piantonate dall'esercito e nei bar malfamati, nel tema musicale di Darth Vader. Ma è più che mai nella sua indipendenza dall'obbligo di far tornare i conti a colpi di spiegoni che sta la felicità del film di Gareth Edwards: un "pilota" che non avrà un gran senso dell'umorismo, ma sa come diavolo si manovra un film di fantascienza.