La reinterpretazione del canone affidata a Rian Johnson (il regista di ‘Looper’ firma soggetto e sceneggiatura) ha scontentato parecchio i fan: probabilmente uno dei motivi per cui questo western galattico – anche se l’ispirazione dichiarata indica alcuni film sulla seconda guerra mondiale – funziona sapendo tenere avvinta l’attenzione senza la perenne agitazione armata che contraddistingue l’episodio precedente.
La vicenda si dipana su tre filoni narrativi: Rey (Daisy Ridley) cerca di diventare l’allieva di Luke (Mark Hamill) sull’isola in cui quest’ultimo si è ritirato; la flotta imperiale guidata da Hux (Domnhall Gleeson) dà la caccia a quella dei ribelli con l’ammiraglio Holdo (laura Dern) che succede a Leia (Carrie Fisher) mentre il pilota Dameron (Oscar Isaacs) scalpita; l’avventura di Finn (John Boyega) e Rose (Kelly Marie Tran) alla ricerca di qualcuno (Benicio Del Toro) che possa farli entrare nell’ammiraglia nemica.
Il terzo è il più prescindibile e forse meno riuscito, ma serve ad alleggerire l’atmosfera soffocata dalla presenza trasversale di Kylo Ren (Adam Driver) e del capo dei capi Snoke (Andy Serkis). I percorsi sono intrecciati con abilità e condotti a toccarsi con una certa naturalezza (tenuto conto del genere): il ritmo si mantiene sempre alto seppure le battaglie siano ridotte di numero e gli scontri verbali si dimostrino altrettanto se non più importanti.
La parte visiva (fotografia di Steve Yedlin) è importante nella stessa misura e un notevole ruolo giocano le numerose creature che popolano soprattutto l’isola di Luke oltre agli androidi fra i quali domina il rotondeggiante BB-8: una preferenza per il nuovo che pare estendersi a tutta la storia e che trova conferma nelle parole di Yoda (la voce originale è di Frank Oz) che, per farla breve, chiede a Luke di abbandonare le vecchie certezze per portare la fratellanza Jedi nel futuro con nuove forme.
Niente li potrà rimpiazzare. Anche solo una proiezione, un ologramma, uno spettro digitale estratto da quell'età dell'oro mette più soggezione della moltitudine di personaggi e creature che riempiono la sceneggiatura di Gli ultimi Jedi. Rian Johnson lo sa. E per questo, su mandato forse della Disney, è stato designato come sicario per mettere fine, una volta per tutte, a quel ricordo ingombrante. A guidarlo è la volontà scientemente iconoclasta di chi sa che occorre cancellare il passato, affinché possa scattare un minimo di empatia per i nuovi personaggi.
D'altronde lo ripetono tutti incessantemente nella sceneggiatura di Gli ultimi Jedi che il passato è passato, come in un mantra, desiderosi di voltare bruscamente pagina. L'emulazione che si avvicinava alla mimesi di Il risveglio della Forza diviene così strappo violento, in cui l'arma più letale a disposizione è la messa in ridicolo. Se un certo humour sbruffone - tipico di Han Solo - è sempre stato cifra stilistica della saga, Gli ultimi Jedi dà libero spazio all'autoironia senza freni. Ogniqualvolta ci si avvicina a un dialogo solenne, grave e decisivo, subentra un motto di spirito o una battuta da sitcom, come se negli anni Dieci del nuovo millennio prendere sul serio una space opera fosse impossibile. In linea con la tendenza del blockbuster recente, specie disneyano, tutto è meritevole di un sorriso o di una strizzatina d'occhio, in dialoghi che potrebbero essere scritti servendosi di emoji. Ma non era forse il prendersi sul serio alla base della credibilità di Jedi e spade laser?
Sotto diversi aspetti X-Men - Giorni di un futuro passato rappresenta il definitivo reboot di una serie che aveva conosciuto un epilogo deludente (X-Men - Conflitto finale) e che solo grazie a un prequel brillante come X-Men - L'inizio è sopravvissuta nel cuore dei fan. Il ritorno di Bryan Singer in cabina di regia è la dimostrazione che l'operazione richiede la massima delicatezza: si tratta di padroneggiare un continuum sempre più complesso e di unire i destini degli X-Men del presente e delle loro controparti più giovani per ripartire con un nuovo equilibrio. In nome di una ragione superiore sono quindi consentite alterazioni sensibili alla trama, con vistosi ellissi narrative rispetto a X-Men - Conflitto finale: il Professor Xavier è vivo, Magneto ha nuovamente acquisito i propri poteri e i due hanno sorprendentemente seppellito l'ascia di guerra, ritrovando l'antica amicizia. La minaccia fatale delle Sentinelle, simili per più di un verso agli Agenti e alle "seppie" implacabili di Matrix, induce i mutanti a uno stratagemma estremo, che permette a Singer di sciogliere i nodi di una trama cervellotica giocando su diversi piani temporali.
Dal più tipico dei futuri distopici, tetro e privo di luce solare - nettamente la sezione più debole, debitrice di troppo cinema di fantascienza e priva di una personalità propria adeguatamente definita - si passa a dei Settanta così fortemente caratterizzati da sembrare una parodia di American Hustle. Tra la musica diegetica di Roberta Flack e quella extradiegetica di un brano funky blaxploitation, tra una partita a Pong e l'abbigliamento di una Jennifer Lawrence che sembra uscita di soppiatto dal film di David O. Russell, rivive ancora una volta il decennio delle turbolenze politiche.
L'idea di collocare in anni cruciali per il destino dell'umanità - quelli di Nixon e della fine della guerra in Vietnam - il punto di svolta della diffidenza reciproca, poi sfociata in guerra tra umani e mutanti, diventa la base su cui poggia l'architrave dell'intera operazione di Singer. Come per Watchmen, in cui Nixon recitava un ruolo determinante, così per X-Men - Giorni di un futuro passato emerge chiaramente la pregnanza di un decennio in cui molto è accaduto ma qualcosa è andato storto, in cui menti brillanti hanno cambiato il mondo ma in cui l'odio sociale e razziale è cresciuto, in maniera subdola ma non meno malevola. La gustosa citazione di uno degli episodi cardine della serie originale di Star Trek - The City on the Edge of Forever, noto in Italia come Uccidere per amore, prototipo narrativo della possibilità di alterare il futuro viaggiando nel passato e del butterfly effect - rappresenta in fondo un MacGuffin, ma testimonia lo sforzo compiuto da Singer per fare di uno script confuso e forse bulimico (l'inserimento della morte di JFK nel continuum X-Men si poteva evitare) un capitolo fondamentale della saga dei mutanti della Marvel. 3D impeccabile e Sentinelle da stato dell'arte Cgi, ma il meglio da un punto di vista spettacolare, anziché risiedere nelle ormai classiche coreografie di metallo architettate da Magneto, poggia sulle gambe ipercinetiche di Quicksilver, una sorta di Flash del mondo dei mutanti intrappolato nel corpo di un ragazzino turbolento e inaffidabile.
La sequenza dell'evasione di Magneto dal carcere sotto il Pentagono rappresenta sicuramente il momento più alto del film e un'introduzione esemplare all'ennesimo spin-off Marvel, visto che Quicksilver comparirà nel prossimo The Avengers. Un universo, quello Marvel, sempre più ramificato, che rende quasi impossibile l'impresa di ripercorrerne le mille deviazioni, ma che sembra disposto a qualunque colpo di coda, anche il più rocambolesco, pur di mantenere il proprio predominio nel mondo delle idee.
Lo spazio non è più l'ultima frontiera, nel nuovo film di Cuaròn non c'è nulla da esplorare, si rimane a un passo dal nostro pianeta ma lo stesso la profondità spaziale continua a non essere troppo distante dalle lande desolate del cinema western, un luogo talmente straniante da confinare con il mistico, l'ultimo rimasto in cui esista ancora la concreta sensazione che tutto possa accadere, in cui si avverte la presenza dell'ignoto e quindi in grado di mettere alla prova l'essenza stessa dell'essere umani.
C'è tutto questo nel blockbuster con Sandra Bullock e George Clooney che Alfonso Cuaròn è riuscito a realizzare senza muovere un passo dalle convenzioni hollywoodiane, quelle che impongono l'inevitabile coincidenza dell'avventura personale con un mutamento interiore e il superamento del solito trauma radicato nel passato. Eppure dietro i dialoghi ruffiani e dietro una tensione obbligatoriamente costante (tenuta con una padronanza della messa in scena, tutta in computer grafica, che ha del magistrale ma non sorprende dall'autore di I figli degli uomini) non è nemmeno troppo nascosto uno dei film più umanisti di un'annata che ha visto il cinema statunitense proporre, a Cannes, anche la straordinaria storia di sopravvivenza individuale contro gli elementi (marittimi) di Robert Redford in All is lost.
La visione prettamente americana dello spazio, un luogo d'avventure in cui l'uomo deve combattere contro ogni avversità naturale, stavolta è fusa con quella promossa dallo storico rivale, il cinema sovietico degli anni '70, in cui lo spazio è il posto più vicino possibile alla metafisica, terreno di visioni interiori che diventano realtà e di incontro con il sè più profondo, fino a toccare anche l'idea di origine (o ritorno) alla vita di 2001: Odissea nello spazio in un momento di struggente bellezza, in cui il corpo di Sandra Bullock pare danzare con meravigliosa lentezza.
Per Cuaròn lo spazio può essere tutto questo insieme, allo stesso modo in cui il suo film può essere sia un blockbuster sia un'opera che cerca di toccare la profondità dell'animo umano, realizzata con una sceneggiatura densa di dialoghi e molto fondata sulla recitazione (come un film a basso budget) animata da una messa in scena interamente in computer grafica (da grande film di fantasia), un lungometraggio che più che essere di fantascienza pare d'avventura (nel senso classico del termine), in cui l'essere umano lotta in scenari naturali mozzafiato, nel quale anche solo un raggio di sole che entra dall'oblò al momento giusto può far battere il cuore.
La Plan B di Brad Pitt e soci ha scelto il libro di Max Brooks "World War Z: An Oral History of the Zombie War" per farne un blockbuster tutto adrenalina e clima da fine dei tempi. La "rabbia" famelica di cui sono portatori gli zombie (baluardi di un'interpretazione orroristica del concetto di "non morti", laddove i vampiri sono ormai sempre più ripuliti e politicamente corretti) si diffonde nel film di Forster come una pandemia moderna e le tante inquadrature dall'alto ne sottolineano efficacemente lo spargimento capillare, come arterie di un unico mondiale organismo sociale che si colorano di rosso, sulle strade e sui monitor del potere, ridotto all'impotenza.
Meno efficace è la sensazione di compressione degli eventi, che s'affaccia a inizio avventura con l'eliminazione in quattro e quattr'otto dello scienziato (per lasciar campo libero a un Brad Pitt tuttofare) e ritorna in più punti, finale compreso. Dentro, sempre compressi ma riconoscibili, ci sono la tensione di Contagion, il ricordo di 28 giorni dopo, le sequenze pensate per le piattaforme di gioco di Resident Evil. Anziché spogliare World War Z di una sua identità, però, i tanti richiami esterni fanno pensare che la cifra del film dell'eclettico Forster si trovi proprio nella compresenza degli elementi: non c'è dramma senza azione, non c'è azione senza romance, né romance senza gore (anche se quest'ultimo è l'ingrediente usato con maggior parsimonia).
Le scene di massa si alternano meccanicamente a quelle che ritraggono il privato dell'eroe e, nonostante il tono epico e semiamaro del commento, fa presto capolino la sensazione che gli zombie siano ridotti a pretesto, burattini al servizio dell'immagine della star, avventura tra le tante di un padre di famiglia chiamato "suo malgrado" a salvare periodicamente il mondo. Ma sono dolci, vecchie ingenuità hollywoodiane, che in fondo non fanno male a nessuno. Sgradevole, invece, è il capitolo israeliano del film, nel quale si dà spazio a un'apologia del muro e a una banalizzazione della storia (nel riassunto dell'interlocutore di Brad Pitt) che, tra tanti tagli e stringimenti, sarebbero dovute cadere per prime.
Il nuovo La bella e la bestia non reinventa quasi nulla, e laddove lo fa, nel prologo settecentesco, nell'introduzione di un paio di personaggi e di alcuni interpreti di colore, non opera modifiche particolarmente incisive e sembra piuttosto obbedire a qualche legge morale o hollywoodiana, che ha poco a che vedere col materiale creativo. Al contrario, il film di Condon segue piuttosto alla lettera il precedente animato, riprendendone il copione, il libretto musicale, le stesse inquadrature. Si può non comprendere fino in fondo la natura di questa scommessa, si può ragionevolmente ipotizzare che la logica sia in tutto commerciale, ma non si può non ammetterne il successo finale. In un momento in cui l'animazione ha preso strade più stratificate e sperimentali, spronata dalla rivoluzione Pixar, anche al più moderno dei classici Disney non nuoce una rinfrescatina, e qui c'è abbastanza entusiasmo per un'intera boccata d'aria fresca.
Dopo Titani e giganti verdi, Louis Leterrier 'spacca' con un film dominato dall'illusione. Cosa vediamo? Dove siamo? Quando siamo? Inutile guardare da vicino, suggerisce la voce fuori campo di Jesse Eisenberg, invitando lo spettatore a fare un passo indietro e a cercare dove tutto è cominciato. L'ora X in cui il mondo è cambiato. Insieme a Margin Call, Cosmopolis e Magic Mike, Now You See Me - I maghi del crimine appartiene a quel cinema della crisi che affronta (in)direttamente il collasso del capitalismo. Il mondo è allora il palcoscenico su cui i quattro protagonisti compiono il prestigio, metaforizzando la crisi economica e il fallimento del Sogno Americano, precipitato con l'Uragano Katrina e una pioggia di titoli tossici. Muovendosi tra Las Vegas, New Orleans e New York, i protagonisti destabilizzano il sistema, vendicando le speculazioni con uno, due e tre colpi di magia. L'estroversione delle suggestioni sfida così l'immaterialità del potere, che esiste senza avere la necessità di esplicitarsi. Mutuato il financial thriller in magical thriller, I maghi del crimine convertono la valuta, il topo col coniglio, nuova moneta che annuncia l'ultima resistenza a fronte della riduzione di ogni cosa a grafico di mercato. Certamente distante dall'operazione lucida di Steven Soderbergh o dal flusso di pensiero nichilista di David Cronenberg, Leterrier gioca comunque bene le sue carte, dirigendo altrove l'attenzione dello spettatore, lontano dal trucco e dai movimenti che non devono essere visti e ricordati. Alla maniera dei suoi maghi fuorilegge produce un movimento grande che ne copre uno più piccolo ma rilevante nell'identificare la crisi contemporanea e la famelica oligarchia, che vuole comprare i sogni (Arthur Tressler) o smascherarli (Thaddeus Bradley). Ingaggiando un cast ineffabile nel creare l'accadimento magico senza che lo spettatore possa cogliere il trucco dietro al prestigio, Leterrier accende le sequenze e il piacere spettatoriale applicando l'escapologia, l'evasione esibita che non sfugge invece allo sguardo. Cavalieri prestigiosi e in fuga, i suoi eroi affrancano il mondo da lucchetti e catene, vincolandosi soltanto nell'esercizio dei propri sentimenti. All'uomo in crisi di Robert Pattinson e a quello oggetto di Channing Tatum ribatte l'uomo magico di Jesse Eisenberg, rimaterializzando sogni e denaro.
A conti fatti, forse "definitiva" non è la parola adatta per contraddistinguere Ready Player One, ma per una precisa intenzione dell'autore più che per un fallimento. A Spielberg interessava confezionare il perfetto meccanismo di intrattenimento, non una riflessione filosofica su sogni e bisogni dell'uomo. Portando fino in fondo la schizofrenia che caratterizza la sua carriera, in cui il narratore storico di Lincoln e The Post convive felicemente con il Peter Pan di Hook o di Ready Player One. Non c'è condanna dell'escapismo, ma umana comprensione per chi evade da una realtà priva di speranze. E se il ritorno al reale è un passaggio obbligato per il successo dell'eroe, questo non contraddice il fatto che il protagonista Wade, senza aver trascorso tonnellate di ore in Oasis, non avrebbe mai avuto una chance di salvezza.
Il videogioco e la cultura satellitare del microcosmo nerd rappresentano un sostegno e una lezione di vita. La forza trascinante di Oasis, che mira a un livello di capacità immersiva degna dei migliori videogame, è ancor più percepibile quando accostata alle scene ambientate nel mondo reale, dimesse e ordinarie, a tal punto da non sembrare girate dallo stesso regista. Se anche nella visione di Matrix realtà e virtuale erano contrapposti e la prima era dominata da colori grigi e paesaggi desolanti, il senso attribuito al virtuale è opposto: prigione per i Wachowski, oasi e unica speranza per Spielberg.
Delle molte cose che impressionano del film, la più sensazionale è costituita dal livello di dettaglio e dalla quantità di citazioni presenti nell'Oasi virtuale in cui si rifugia la specie umana. Ready Player One straborda di citazioni da ogni medium, ma soprattutto videoludiche, come una forma esasperata del postmodernismo già visto in The Lego Movie. Gli anni Ottanta sono ripresi in tutti i loro anfratti: si può dire che, a parte McGyver e TJ Hooker, tutto ciò che è stato prodotto in quel decennio e, in qualche caso,nel successivo, trovi uno spazio, anche minuscolo, nell'affresco di Spielberg. Che è vasto e onnicomprensivo quanto il Paradiso di Tintoretto, nel suo tentativo di abbracciare l'intero immaginario nerd di una generazione. Alcuni sono riferimenti fulminei, quasi invisibili - le cuffie di Ralph supermaxieroe, una comparsata di Spawn - altri sorprendenti - i Monty Python - altri ancora palesi ed estesi, come la lunga sequenza in cui l'Overlook Hotel di Shining riprende vita per divenire scenario interattivo.
Un segmento cruciale per lo svolgimento del film, quest'ultimo, una sfida tecnologica audace, in cui i contorni tra pellicola originale e rielaborazione digitale si fanno sempre più sfumati. L'enfasi sul livello di coinvolgimento sensoriale richiesto allo spettatore è tale da ribadire come oggi sia percepito Stanley Kubrick. Il regista inarrivabile e irraggiungibile per antonomasia della nostra epoca, colui che aveva compreso tutto prima degli altri. In un certo senso il vero James Halliday. Che questo tributo arrivi da Spielberg, già regista di A.I., non rappresenta una sorpresa, bensì una rassicurante conferma.
Non è esente da difetti, Ready Player One. Avrebbe potuto riflettere meglio sulla contrapposizione tra le due figure cardine degli anni Ottanta, il nerd e lo yuppie, magari rendendo quest'ultimo meno innocuo e disneyano. Oppure prendersi qualche rischio in più nella interazione tra i personaggi reali: in primis nella love story tra Wade e Sam, a partire dal momento sexy virtuale che resta appena sfiorato; o ancora nel rapporto tra Halliday e Morrow, appena abbozzato come molte delle relazioni umane al di fuori da Oasis.
Ma la logica del cesto formato maxi di popcorn, ideale compagno di visione, forse imponeva questo approccio. Spielberg, con la consueta umiltà, si è adeguato alla missione. Sta al pubblico trovare le proprie easter eggs non previste.
Far seguito al successo vastissimo - e inatteso in tali proporzioni - di Frozen non è un'impresa facile per la Disney. Tanto più che la sfida viene presa di petto dallo studio di Burbank in Big Hero 6 (la cui produzione è invero iniziata tre anni fa, ovviamente ben lungi dal calcolo di dover seguire a ruota al più grande incasso per un film d'animazione di tutti i tempi). Perché sì, il film firmato da Don Hall e Chris Williams viola nelle sue fasi preliminari il classico tabù Disney della perdita dolorosa di un familiare; un trauma 'coraggiosamente' già messo in scena, però, nei classici capolavori Bambi (1942) e Il re leone (1994). Un elemento drammatico che s'innesta dritto alle radici, modificandone le premesse, di quello che è anche il primo adattamento disneyano di un fumetto Marvel. La spinta supereroica e superoministica che domina il cinema stelle e strisce degli ultimi anni viene qui temperata da una dose di dolente emotività che pare mutuata dalla dichiarata influenza che gli anime giapponesi e in particolare il cinema di Hayao Miyazaki esercitano su questa produzione del padre di Toy Story John Lasseter. Del resto, il processo osmotico tra l'immaginario delle due sponde del Pacifico trova un suo fertile terreno nella splendida creazione scenografica di una crasi tra San Francisco e Tokyo. Nella città immaginaria che fa da sfondo alle vicende di Hiro, Baymax e degli altri Big Hero 6, si riconoscono rielaborazioni degli emblemi del paesaggio urbano delle due metropoli, il Golden Gate e la Tokyo Tower, ma si rintraccia pure una fine sintesi tra l'affollata ipermodernità della capitale nipponica e la rilassata eleganza della baia californiana, in una sorta di rilettura disneyana dell'ibridazione fantascientifica di Blade Runner. Ma la ricercata fusione tra Occidente e Oriente (si noti nei primi piani il disegno del taglio degli occhi di Hiro e Tadashi) trova la sua più felice e memorabile creatura proprio in quel Baymax che ci auguriamo si ritagli una nicchia di culto nella schiera degli eroi Disney dei Duemila.
Sorta di omino Michelin devoto al benessere psico-fisico di Hiro, Baymax percorre una parabola che va da zelante infermiere a indomito superrobot, declinando le forme di un goffo e adorabile stereotipo dell'amico dei sogni, il compagno d'avventure che tutti vorrebbero al proprio fianco. Concepito per essere abbracciato, Baymax è l'equivalente robotico di Doraemon e Totoro; manca perciò dell'immediata simpatia da peluche di questi ultimi (anche per via del volto senza espressione), ma con la sua caparbietà e spirito di sacrificio conquista e commuove. E proprio questo equilibrio ineffabile tra i molti sorrisi e qualche lacrima sigla la riuscita della difficile scommessa di Big Hero 6. Non disseminerà forse per il mondo il ritornello di una nuova Let It Go, ma il cinquantaquattresimo lungometraggio Disney ha tutte le carte in regola per entrare nel novero dei classici contemporanei e far sognare a più d'uno spettatore (bambino o adulto) d'incontrare un giorno il proprio Baymax...
"Captain Marvel", il film del 2019 che introduce il personaggio al grande pubblico, si presenta come un'esperienza cinematografica che svolge il compito di presentare il suo eroe titolare, ma purtroppo poco altro riesce a offrire.
Il film si concentra sulla storia di Carol Danvers, una protagonista che, pur essendo la spina dorsale della narrazione, risulta essere un personaggio piuttosto insopportabile. La sua mancanza di profondità emotiva e il tono monotono spesso la rendono difficile da affezionare o sostenere pienamente durante il viaggio della sua trasformazione.
Inoltre, la rappresentazione del personaggio di Nick Fury, un'icona all'interno dell'universo cinematografico Marvel, viene notevolmente ridimensionata, risultando quasi caricaturale, una scelta che potrebbe deludere i fan più affezionati.
Tuttavia, non tutto è perduto. Gli effetti speciali del film sono sicuramente uno dei suoi punti di forza, offrendo al pubblico spettacolari sequenze visive che contribuiscono ad aggiungere un po' di brillantezza a una trama altrimenti opaca.
Purtroppo, le scene di combattimento, sebbene abbondino di effetti speciali, sono scarse e spesso prive di quella tensione e adrenalina che ci si aspetterebbe da un film di supereroi. Questo porta ad alcuni momenti noiosi che possono far perdere l'interesse dello spettatore.
Tra gli elementi positivi del film ci sono sicuramente gli Skrulls, la cui caratterizzazione e la rivelazione dei loro segreti aggiungono una dimensione interessante alla trama e al mondo degli eroi Marvel.
In conclusione, "Captain Marvel" si rivela essere un'esperienza cinematografica abbastanza deludente, che non riesce a elevarsi oltre la semplice presentazione del suo personaggio principale. Nonostante gli Skrulls e gli effetti speciali di alto livello, la mancanza di profondità dei personaggi e la scarsità di emozionanti scene d'azione lasciano un amaro retrogusto in bocca, rendendo questo film uno dei meno memorabili all'interno del vasto panorama dei film Marvel.
Sicuramente una figura d'ispirazione per le bambine di oggi e le donne di domani, anche perché a differenza di Wonder Woman non è una principessa delle Amazzoni, bensì un'eroina con i piedi ben piantati per terra, già tosta e formata prima ancora di avere i superpoteri, che usa oltretutto con compassione per proteggere i più deboli. Proprio in uno degli sviluppi più inattesi del film si definisce il senso di giustizia di Carol e così Captain Mervel trova una sorprendente attualità, che rende questa avventura spaziale qualcosa di edificante senza però intaccarne il divertimento.
Il film presenta infatti una gran varietà di ambientazione e situazioni e si passa da uno scontro a base di laser come in Star Wars a un inseguimento action con avversari mutaforma come in Terminator 2, fino a un omaggio a Top Gun, per arrivare solo alla fine in zona da vero Marvel movie.
Will Smith sa il fatto suo. È nato come rapper, è diventato una star della televisione, e da tempo ha affrontato il cinema. Sempre da protagonista. Dopo il film diretto da Muccino dove recitava con suo figlio, adesso si confronta con se stesso e con una metropoli spettrale che mette in evidenza ogni suo movimento. Forse non sarà candidato all'Oscar, ma la sua interpretazione è degna di nota. Passando al film, il "one man show" di Smith è supportato da una scenografia incredibilmente convincente, e da una regia di mestiere.
Non è facile costruire un film su un solo attore (se si escludono il cane, i vampiri, qualche flashback e due superstiti), e il day by day del protagonista è scandito con lentezza, quasi a voler fare respirare allo spettatore il senso di solitudine. A dispetto della necessità di includere la componente horror (le scene d'azione sono presenti per coinvolgere il target giovane), a parte la mezz'ora finale, Io sono leggenda, si concentra sul singolo, sull'uomo che poteva cambiare il mondo, su chi ha la consapevolezza che è molto semplice distruggere ciò che si ha per le mani tutti i giorni.
L'11 Settembre è lì, è l'origine delle cose, e Richard Matheson che nel 1954 scrisse il romanzo omonimo, non avrebbe potuto immaginarselo così reale. Ma alla fine, la convinzione ultima, è che solo l'umanità può decidere le sorti del mondo.
L'odio per Spiderman è affare di un altro universo e dei tentati suicidi di Eddie resta solo l'immagine del ponte, trasformato nel luogo in cui prende la decisione che gli cambia la vita. Tom Hardy è un looser, ma dagli ideali chiari, allergico alla corruzione in ogni sua forma e punito dal destino per aver a sua volta usato la sua ragazza (fa qui capolino una tendenza parassitaria), per quanto a fin di verità.
Venom si trova bene con lui, più che sul suo pianeta, dove pare che invece non fossero troppo comprensivi. Insieme formano una strana coppia, di quelle che al cinema funzionano sempre, specie se supportate da una buona dose di umorismo e autoironia, peccato solo che il film ci arrivi un po' tardi, dopo un lungo prologo di tutt'altro tono.
Dramma bellico in 3 atti e una cornice. 1° atto: lo sbarco in Normandia, la guerra come carneficina e caos (i primi 24 minuti, fin troppo acclamati: da vedere, comunque, e da sentire); 2° atto: la ricerca di Ryan: apparentemente convenzionale e già vista, ma ricca di problemi e di domande senza risposta; 3° atto: la battaglia nel paesino di Ramelle per salvare Ryan e tenere un ponte: un compendio del war film made in USA che pone il film sotto il segno di una sospetta ridondanza, rivelata anche dal ricorso insistito alle riprese "a spalla" e agli effetti speciali. Film di forti impatti e molte bellezze, ma anche di numerosi stereotipi, interamente dentro la prassi e la retorica di Hollywood. I tedeschi sono nemici e la Francia è vuota. "La memoria diventa così _ più che un'occasione per riflettere, per parlare di storia e di etica _ un argomento nostalgico di propaganda" (G. Cremonini). Salvate il soldato Ryan è un film di guerra, La sottile linea rossa è un film sulla guerra. Due curiosità: in I sacrificati di Bataan (1945) John Wayne si chiama Rusty Ryan, ma è tenente; le grigie Stelle & Strisce che sventolano all'inizio e alla fine sono una citazione di una foto di Mapplethorpe. 5 Oscar: regia, fotografia (J. Kaminski), suono (R. Judkins, G. Rydstom, G. Summers, A. Nelson), effetti speciali sonori (G. Rydstom, R. Hymns), montaggio (M. Kahn). Successo internazionale. 3° posto sul mercato italiano 1998-99.
Superando le incertezze di un secondo capitolo farraginoso, Francis Lawrence sembra aver trovato la strada migliore, quella buona per raccontare la dialettica tra apparire ed essere dell'eroina più importante della narrativa per il grande pubblico dei nostri anni. La prima parte di Hunger Games: Il canto della rivolta, sebbene lontana dall'afflato pastoso e avventuroso che Gary Ross aveva donato al film d'esordio della serie, mostra d'avere ben compreso quanto sia cruciale il volto e il corpo di Katniss nel mettere in scena una storia che nei libri è narrata attraverso un dialogo interiore.
Dismessa la parte di "giochi", il terzo capitolo di Hunger Games entra nel vivo della trama rivelando la vera natura dei racconti di Suzanne Collins. Non un semplice calco di Battle Royale, come sembrava inizialmente (il tema del massacro dei ragazzi da parte degli adulti è solo uno dei molti), non una critica del meccanismo del reality attraverso il quale questa oppressione è perpetrata, come sembrava nel secondo, ma più in grande l'idea comune a tutta la saga che quel che viene comunicato attraverso i media non abbia molto in comune con la vita reale, quanto realtà e sua rappresentazione siano distanti. Qualcosa che si applica al finto realismo del cinema e della televisione (ovviamente) ma anche a quello di internet (più vicino al pubblico d'elezione del film), cioè alla pretesa che l'identità gestita e negoziata quotidianamente attraverso i media digitali abbia qualcosa in comune con quella reale.
La distopia di Hunger Games sembra procedere come tutte le altre viste al cinema, come la consueta storia di ribellione individuale ad un sistema dittatoriale che opprime lo spirito tramite la tecnologia, ma più la saga procede più è difficile ignorare come usi questa struttura classica per cambiare quello che conosciamo della fantascienza d'azione di grande incasso.
Passando dall'altra parte della barricata, dal sistema presieduto dal presidente Snow alla resistenza della presidentessa Coin, la lotta dell'oggetto guardato per diventare soggetto si trasferisce dallo show televisivo al video di propaganda, giocando ormai a carte scoperte. In Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I ogni immagine girata intorno a Katniss dalla troupe di cineasti militari che la segue è una bugia, riprese vere usate per dire cose false girate come, in effetti, si girano i film ad Hollywood (con un misto di green screen, postproduzione e riprese dal vero). Una complessità sconosciuta ai blockbuster suoi coevi che sarebbe comunque impossibile da raggiungere senza Jennifer Lawrence, attrice sopraffina e delicata, capace di rendere straordinarie pure le scelte banali di un regista poco audace (anche i suoi pianti sono tremolii inediti). Solo lei poteva animare quel corpo femminile sui generis, almeno per il ripetitivo mondo dei blockbuster, catalizzatore del dolore e dello struggimento come spesso è nei melodrammi ma contemporaneamente anche macchina di ribellione, ricettore passivo delle volontà altrui come nella narrativa maschilista ma sempre sul punto di diventare attivo, con una freccia o una parola, come in quella femminista.
Katniss, non è una protagonista come le altre, è una donna d'azione che non intende comportarsi da uomo e, così facendo, piega il genere cinematografico intorno a sè, una che ha avuto nell'abbigliamento, nel trucco e nelle acconciature le armi di una guerra combattuta tanto sui media quanto sul campo e che si trova a dover lottare per il controllo della propria immagine, capace di fare più male con un'espressione e una parola che con una freccia. Ancora più che in passato in questo film si trova ad essere oggetto dell'attenzione delle videocamere, corpo da riprendere, volto di cui gli altri personaggi del film sono assetati e su cui si misura la rivoluzione. Quello di Jennifer Lawrence è un personaggio cruciale perchè non si chiede mai "chi sono" ma "cosa vedono di me quando appaio sugli schermi".
Sorprendente e smargiasso, come Sparrow, è il sequel dei Pirati dei Caraibi, firmato ancora una volta dalla coppia Ted Elliott e Terry Rossio e filmato da Gore Verbinski. Un equipaggio vincente non si cambia né sotto né sopra coperta, pertanto ci sono conferme anche nel cast: l'innamorato Orlando Bloom di Elizabethtown e l'orgogliosa senza pregiudizi Keira Knightley, di nuovo amanti sotto la Prima Luna caraibica. In mezzo c'è Johnny Depp e il suo capitano Sparrow, seduttore sedotto che perderà anch'esso cuore e nave per la donna del suo compare. Non c'è un altro pirata capace di entrare in schermo come Sparrow: dentro uno scafo pieno d'acqua nel primo episodio, dentro una bara galleggiante nel secondo, travolgendo lo spettatore con una presentazione carica di promesse, traboccante d'acqua e di avventure. Il talento istrionico di Johnny Depp è capace da solo di descrivere il tempo e il luogo del racconto: quello epico dei pirati, quello fantastico dei vascelli spettrali (l'Olandese Volante), quello magico dei forzieri fantasma. Verbinski restituisce al cinema la magia letteraria delle isole di Stevenson, le neverland popolate da cannibali e mosse dal mulino a vento in cui si arena la Perla Nera di Sparrow, riconquistata a colpi di spada e governata fino alla fine del mondo, quello del terzo e ultimo capitolo (Pirates of the Caribbean III: World's End).
Ambientato a Londra nell'età Vittoriana The Prestige segue da vicino il percorso che porterà Angier (Hugh Jackman) e Borden (Christian Bale) alla scoperta della massima illusione, "The New Transported Man", ovvero una sorta di teletrasporto. Non è semplice entrare nell'ottica dei due rivali perché sono uomini che amano la magia più di qualunque altra cosa e credono fermamente che il sacrificio sia il prezzo da pagare per un buon spettacolo. Eppure Christopher Nolan riesce a far prendere allo spettatore le parti dell'uno e dell'altro trasportandolo in un'altra epoca, nell'illusione più spettacolare, sulla scena e tra i giochi di prestigio, nella tana del grande scienziato Nikola Tesla (un David Bowie in forma e sempre incredibilmente convincente, specie nei panni dell'inventore un po' folle) fino alla rivelazione ultima.
La fotografia magica e le fantastiche scenografie fungono da ulteriore mezzo di trasporto verso l'ignoto, dove solo i volti conosciuti e rassicuranti degli attori non protagonisti (l'ingenua Rebecca Hall, la dolce Scarlett Johansson e il bravissimo Michael Cane che torna a vestire un ruolo simile a quello del Dr. Wilbur Larch ne Le regole della casa del sidro) riescono a portare un po' di sollievo durante la cavillosa esposizione dei fatti, come c'era da aspettarsi dal regista di Memento. Non abbiate paura, lasciatevi travolgere!
Che Luc Besson ami mettere al centro di molte sue opere personaggi femminili coinvolti in esperienze che ne mutano profondamente la vita è testimoniato dalla sua filmografia. Sappiamo quanto sono lontane tra loro, nel tempo e nell'azione, Nikita e la Aung San Suu Kyi di The Lady ma al contempo vicine per capacità di resistenza, di forza d'animo, di sguardo verso possibili mutamenti che i maschi faticano a sostenere. Lucy si aggiunge a loro in un film che si struttura come un puzzle narrativo e visivo di cui si può cogliere la reale sostanza solo se se ne sanno pazientemente ricomporre i pezzi e si rinuncia a ricorrere agli stereotipi valutativi, che da sempre vengono applicati al cinema di Besson, per guardare più in profondità. Perché l'assunto iniziale è legato alle neuro scienze e ci ricorda che il nostro cervello ha sviluppato solo una piccolissima parte delle sue potenzialità rispetto all'homo sapiens (non dimentichiamo che Lucy è il nome che è stato dato alla prima donna di cui l'antropoarcheologia abbia conoscenza). Cosa accadrebbe se si passasse progressivamente dalla potenza all'atto, se i neuroni attivi aumentassero percentualmente? È questa la domanda iniziale su cui si innesta l'azione di una supereroina suo malgrado (come tanti personaggi Marvel) che combatte contro il Male impersonato da un cattivissimo Choi Min Sik (molti lo ricorderanno in Oldboy e in Lady Vendetta). Qui ci si possono attendere le già citate facili banalizzazioni su un Besson incapace di resistere alla tentazione fumettistico-adrenalinica (vedi la corsa in auto nel centro di Parigi e non solo). Se si guarda però più nel profondo ci si può accorgere che il più americano dei registi francesi mentre sembra servire al grande pubblico un mix di SuperQuark e di Science fiction in realtà sta esponendo una sorta di trattato sul Tao. Chiunque abbia confidenza con i principi di questa filosofia potrà ritrovarli utilizzati a marcare le tappe del percorso della protagonista. "Vuota la tua mente di tutti i pensieri; lascia che il tuo cuore trovi la pace. Studia la complessità del mondo, ma contemplane il ritorno. Il ritorno alla sorgente è la serenità. Se non realizzi la fonte finirai con il confonderti e il dispiacerti. Quando comprenderai da dove provieni, diventerai naturalmente tollerante, comprensivo, multiforme". Questo si legge nel Daodejing ed è quanto si scorge in controluce in Lucy. Besson, interpellato in materia, non conferma ma neanche smentisce.
Michael Crichton scrive il romanzo nel 1990 puntando al best seller e alla trasposizione cinematografica; tre anni dopo Steven Spielberg si incarica di portarlo sullo schermo - avvalendosi di una sceneggiatura scritta da Koepp e dallo stesso Crichton - ed il successo è assicurato. Premiato dal pubblico (un incasso che si aggira sui cinquecento milioni di dollari) e da tre Oscar (accompagnati dal British Academy Award, dal People Choice Award e da tre designazioni agli MTV Movie Award), preceduto e seguito da una lunga campagna di merchandising, il film conferma l'abilità del regista nel confezionare storie adatte a spettatori di ogni età, combinando con sapienza gli elementi avventurosi del racconto con le risorse tecnologiche degli effetti speciali, e la sua capacità di intuire e soddisfare gli umori del pubblico: Jurassic Park scuote lo spettatore offrendogli un ricco, spettacolare, lungo spavento, coinvolgendolo e immedesimandolo con gli attori che si muovono sulla scena, essi stessi spettatori della finzione proposta. La scelta di un tipo di recitazione che privilegia con forza la gestualità e l'espressione (lo stupore, la paura, il terrore) sembra pensata, appunto, per anticipare e canalizzare le emozioni che si vogliono sollecitare nella platea. Nonostante la ricchezza dell'insieme, il lavoro risulta un po' freddo e certamente meno personale rispetto ai precedenti Incontri ravvicinati o E.T. - L'extraterrestre. Priva di atmosfere mistiche o favolistiche, la tesi del film è semplice - per certi versi quasi elementare - e rimane circoscritta nel ritratto dei personaggi, facilmente identificabili nelle convenzioni del genere: l'anziano miliardario animato da buone intenzioni, la dottoressa al centro di un triangolo sentimentale, i due bambini simbolo dell'innocenza, il cattivo di turno che appena combina il pasticcio paga con la vita la propria slealtà e, naturalmente, i dinosauri - veri protagonisti del film, ricostruiti con l'interazione di modelli e della computer graphic - a rappresentare la natura manipolata dall'impiego irrazionale della scienza e dalle mire capitalistiche. I modelli dei dinosauri furono elaborati sotto la supervisione di Stan Winston al cui seguito lavoravano squadre di tecnici, ingegneri ed artisti. Le varie parti dello spaventoso T-Rex necessarie per i primi piani erano realizzate in grandezza naturale con vetroresina mescolata ad argilla, ricoperte di una delicata pellicola di latex accuratamente dipinta, e animate da un simulatore di movimento computerizzato. Gli esterni furono girati sull'isola di Kauai, in parte durante le avvisaglie dell'uragano "Iniki", e nel parco nazionale del Red Rock Canyon. Prima di decidere per la realizzazione del film, la Universal aveva in cantiere un remake di The Lost World da affidare a John Landis, per la sceneggiatura di Richard Matheson e la probabile interpretazione di Sean Connery. Vi sono stati due sequel: Il mondo perduto-Jurassic Park, Jurassic Park III.
Zootropolis, cartone Disney supervisionato dall'onnipotente John Lasseter, affronta di petto la tematica più attuale di tutte: l'uso della paura come strumento di governo. E va a toccare un altro degli argomenti più sensibili in ogni epoca, ovvero l'esistenza (o meno) di una predisposizione biologia al crimine per alcune razze e alcune etnie. Ma si spinge anche oltre, andando ad analizzare il rapporto fra massa ed élite, nonché l'opportunità (o meno) di sopprimere la natura selvaggia e istintiva sacrificandola all'ordine sociale, flirtando con l'eterno dilemma se nella formazione degli individui, e delle società, conti maggiormente la natura o la cultura.
In realtà il discorso portante è quello dell'autodeterminazione a dispetto della propria limitata dotazione di base: un discorso che, da Monsters & Co a Planes a Turbo, attraversa molta animazione recente. È la filosofia "Yes you can" che ha portato alla presidenza americana un afroamericano e che sta alle radici del (nuovo) sogno americano. Il corollario di questa filosofia è l'ostinazione "ottusa" di Judy a "non mollare mai", perché nessuno può dirle ciò che può essere e non essere, ciò che può e non può fare.
Naturalmente quello che conta in Zootropolis è il modo in cui questi temi vengono sviluppati, sia a livello di narrazione che di espedienti visivi. E se la sceneggiatura mostra un gioco di semina, di echi e di rimandi fin troppo calibrato, la regia, ad opera di un team di cui fa parte anche Jennifer Lee, la wonder woman dietro Frozen, si sbizzarrisce in fughe rocambolesche, inseguimenti, esplosioni, battaglie ed equilibrismi attraverso ben quattro ambienti distinti: campagna, città, vette innevate e foresta tropicale. La vera forza del film però è l'escalation di battute sia nell'interazione fra Judy e Nick, nati per creare la chimica perfetta, sia nella caratterizzazione di decine di specie animali, fra cui spiccano i bradipi impiegati alla motorizzazione (a riprova che la burocrazia è esasperante a qualunque latitudine) e l'equino hippie doppiato in italiano da Paolo Ruffini. Ci sono anche il roditore che cita il Padrino, la donnola che vende cd taroccati, l'elefantessa maestra di yoga, i lupi che ululano a sproposito, come i cani di Up "biologicamente" predisposti a puntare ogni loro simile di passaggio, il leone sindaco, il bufalo muschiato capitano di polizia, persino la gazzella superstar che ha la voce e le movenze sensuali di Shakira. Tutti indossano abiti umani, camminano in posizione eretta, spippolano sugli smartphone (che recano sul retro il simbolo di un ortaggio morsicato), comunicano via Skype e scaricano App per inventarsi identità virtualil. Perché il presupposto ideologico, per questo come per altri cartoon (vedi Madagascar) è che il regno animale ambisca al modello antropomorfico di civiltà contemporanea: assunto che nessun animale, ancorché ottuso, probabilmente condividerebbe.
Il titolo più celebrato - un Orso d'Oro e un Oscar - e forse amato del corpus miyazakiano, quello destinato a mettere d'accordo tutti, dai fan agli amanti occasionali del lavoro del regista giapponese. Giunto dopo le fatiche de La principessa Mononoke e dopo uno dei molti annunci di ritiro infine non concretizzatisi, La città incantata sintetizza con un linguaggio sempre più ricco i temi cari sin dagli inizi di carriera al regista, calandoli in un contesto totalmente fiabesco e allegorico. Il lato visionario si scatena grazie alla molteplicità di forme assunte dai diversi spiriti che abitano le terme di Yu-baba, le musiche di Hisaishi Joe sono tra le più struggenti mai ascoltate e la narrazione coniuga in maniera esemplare le esigenze di entertainment - travolgente il dinamismo delle sequenze di azione, come quella di Haku inseguito dagli omini di carta animati - e i momenti più intimisti, in cui Chihiro trova il tempo di riflettere sulla sua condizione e di comunicare empaticamente con il pubblico, aiutandolo a comprendere l'universalità del messaggio del film. Ogni dettaglio dello sfondo o personaggio apparentemente minore assume vita e senso propri, nel décadrage meticoloso di uno scenario corale che si ramifica per poi ricongiungersi, ritrovando il filo proprio quando sembrava prevalere un nuovo spunto.
Miyazaki rilegge Lewis Carroll, ha detto qualcuno, ma di fronte a un nuovo classico ha poco senso enumerare gli antecedenti: la forza de La città incantata è infatti tale da porlo come esempio a pieno titolo di racconto pedagogico contemporaneo, allegoria della crescita e della perdita (così inizia la storia, con un biglietto di addio) sotto forma di fiaba, in cui il piano superficiale di lettura non deve compromettere in alcun modo la godibilità della sua fruizione per poter veicolare i propri simbolismi. In un periodo di tempo, indeterminato come le regole del mondo degli spiriti, Chihiro vive un viaggio interiore ed esteriore che è quasi un trailer, una versione condensata, della vita destinata ad attenderla.
Irta di difficoltà e di dispiaceri (la perdita di persone care), di ipocrisia e grettezza (le rane al servizio di Yu-baba), di trasformazioni e maturazioni (il Senza-volto): amore, lavoro e senso di responsabilità si succedono sotto forma di prove, a cui Chihiro viene più o meno consapevolmente sottoposta prima di acquisire una nuova saggezza. Come la Dorothy che torna da Oz, così Chihiro non dimenticherà mai il suo viaggio incantato né la lezione ad esso sottesa, facendone tesoro per affrontarne uno ancor più incerto e pieno di incognite. E salire così su un treno dalle tappe meravigliose che procede, inesorabilmente, in una sola direzione.
Dunkirk non è veramente un film di guerra, o almeno non è un film di guerra come gli altri. Sotto le bombe e la musica organica-industriale di Hans Zimmer, Dunkirk è il soggetto ideale per appagare l'ossessione della percezione del tempo di Nolan. Ma la complessità dell'artificio non contraddice mai l'emergenza delle emozioni. Esigente nella forma, tutto passa per l'immagine e il suono, Dunkirk è un oratorio profano eseguito in un limbo di sabbia, uno spazio di panico razionalizzato in cui resistere e attendere di conoscere la propria sorte. Sorte nelle mani dell'ineluttabile forza del mondo: il tempo. Per il regista inglese il film è il solo modo di controllarlo. Ed è esattamente quello che fa restituendo l'incredibile realtà dei soldati coinvolti nell'evacuazione di Dunkirk e trasformati, dalla natura del territorio e delle operazioni militari, in un bersaglio permanente. Alla maniera di Cobb (Inception), Tommy raggiunge la spiaggia col solo desiderio di ritornare a casa. Ma la spiaggia è un incubo fatale e surreale. Sabbia e uomini a perdita d'occhio. E tutta quell'acqua che rigetterà presto ogni tentativo di evasione, restituendo soltanto cadaveri. Proprio come gli abitanti di Gotham, tagliati fuori dal mondo da Bane (Il cavaliere oscuro - Il ritorno), i soldati sono condannati all'impasse sulla riva e dentro un film statico dominato dal conto alla rovescia fino alla prossima (alta) marea.
Dell'ispirazione dichiarata, fornita da una delle fiabe più ermetiche e suggestive di Andersen, "La regina delle nevi", c'è ben poco, a parte la scheggia di ghiaccio nel cuore e il viaggio di una ragazzina per riportare a casa l'oggetto del suo amore. Ma questo racconto più tradizionale, sceneggiato da Jennifer Lee, ha un suo appeal, differente, nell'urgenza emotiva che porta in scena e nell'originalità dei personaggi principali, nessuno dei quali si svela del tutto al primo ingresso. Così come il dono di Elsa ha un risvolto maledetto, anche i sentimenti di Anna acquistano infatti un'imprevista doppiezza, parallela a quella di Kristoff, per non parlare di quella molto meno ingenua che anima il principe Hans.
La natura di vera e propria operetta musicale di Frozen (una scelta ardita, che rischia di non incontrare un consenso unanime) assegna ad ognuno il suo momento di gloria, approfittandone per innescare un'efficace sintesi narrativa in materia di presentazione del cast. Ecco allora che "Per la prima volta" ("For the first time in forever") racconta in poche strofe il disperato desiderio di vita e d'amore di Anna, mentre "All'alba sorgerò" ("Let it go") dà adito alla liberazione di Elsa dalle catene nelle quali si era costretta da sola e alla completa accettazione della sua natura portentosa. E, come in ogni musical che si rispetti, i costumi non sono accessori ma parte integrante dello spettacolo, che qui si arricchisce delle architetture nordiche, delle citazioni pittoriche e dello straordinario livello tecnico con cui il digitale dà forma, luce e sostanza al ghiaccio.
Gli adulti non potranno non pensare a Carrie o ai mutanti della saga degli X-Men, mentre i più piccoli non avranno occhi che per Olaf, il pupazzo di neve. Intanto la Disney conferma di aver intrapreso un cammino lento ma ben visibile verso un nuovo modello di principessa, che non ha più bisogno del bacio del principe per scoprirsi degna del proprio ruolo.
Matthew Vaughn legge "The Secret Service", il fumetto di Mark Millar e Dave Gibbons, con le lenti del suo cinema pop ed eccessivo, qui però più rilassato e divertito rispetto a Kick-Ass , meno ansioso di provare la propria originalità, anche perché non è certo l'originalità il tratto distintivo di un film che cita James Bond e compagni (John Steed, Harry Palmer, Derek Flint) ad ogni inquadratura. Quella di Kingsman è soprattutto una storia di iniziazione, di Eggsy e del suo interprete Taron Egerton. Vaughn li prende, per il tramite del più esperto e già iniziato Colin Firth, e apre loro le porte del cinema inglese, le quali non possono che essere porte di un pub o di una sartoria di Savile Row. Una volta dentro il film, impareranno che tutto è possibile, non tutto è reale (non si muore per davvero, spiega Mark Strong dopo la "prova dell'acqua"), qualcosa si nasconde (nei doppi fondi delle scenografie), qualcosa si affaccia sull'esterno (quando si smette di prendersi sul serio per ammiccare allo spettatore in sala). È un viaggio sulla giostra del cinema di genere, con stazioni più o meno riuscite, che in fondo può anche valere il prezzo del biglietto. Cinema come attrazione, spettacolo, circo acrobatico.
L'eleganza, invece, quella vera, è un'altra cosa. Per il regista il discorso sull'abito è evidentemente poco più di un pretesto narrativo per segnalare la trasformazione del personaggio, oltre che l'ennesimo omaggio al padrino del cinema di spionaggio, confezionato sempre con un largo sorriso sulle labbra. Per Vaughn, infatti, l'abito è sempre e prima di tutto un costume, che dice forti e chiare, come in un fumetto, le intenzioni e i dati anagrafici del personaggio, che si tratti della tutina di un supereroe, del berretto con la visiera di un ragazzino dei sobborghi o dello stile street chic di un miliardario pazzo (e il personaggio di Samuel L. Jackson è sicuramente il più aderente al genere, nella sua revisione iper contemporanea ma stabilmente megalomane).
Si spruzza sangue a volontà, ci si lancia senza paracadute, si scambia il bicchiere per prudenza prima del brindisi letale. Non ci si fa mancare nulla, sulla giostra dello spy-movie, nemmeno Mr Firth in versione Machete.
Un film che è un omaggio al cinema degli anni ruggenti, quella che, almeno per due ore, faceva indossare un paio di occhiali rosa capaci di obliare pagine tristi dell’esistenza:che si chiamavano grande depressione o seconda guerra mondiale: un compito nel quale si distinguevano i musical, dai classici della coppia Astaire/Rogers alla visione più moderna incarnata da Gene Kelly. Ignorato con una certa fatica un brividino – il momento storico è così drammatico da dover rispolverare i musical? – non si può far altro che ammirare la perizia con cui il bravo Chazelle fa rivivere il genere non rinunciando ad aggiornarlo in modo opportuno, come nella bella scena iniziale sulla superstrada intasata che può ricordare ‘Hair’ o i momenti più malinconici che si avvicinano a ‘New York, New York’, l’altra riverenza, sebbene meno sorridente, a firma Martin Scorsese. Non contento, il regista immerge la sua fiaba in una Hollywood in bilico tra reale e irreale, utilizzando gli studios e i visi dei vecchi divi, nonché una location famosa come l’Osservatorio Griffith (vedi ‘Gioventù bruciata’) per una delle scene più sognanti. Sfruttando appieno technicolor e cinemascope viene fatta volare prima la cinepresa e in seguito pure gli attori in una più che mai esemplare alternanza di passaggi gioiosi, ravvivati dai colori saturi, e altri di maggiore difficoltà immersi nelle mezze tinte quando non avvolti dall’oscurità. Se la fotografia di Linus Sandgren risulta fondamentale, altrettanto importante è il montaggio di Tom Cross che ben si adatta all’azzeccata partitura di Justin Hurwitz che nel complesso preferisce i toni intimi: la combinazione di simili elementi ottiene il massimo dalle coreografie di Mandy Moore, riuscendo a regalare molti istanti che riempiono gli occhi e sollevano l’animo. Se classica è l’impostazione e classico in gran parte lo svolgimento, è inevitabile che la storia stia quasi – e il ‘quasi’ si limita pressappoco al finale – sempre nei canoni. Mia e Seb sono a Hollywood per rincorrere i loro sogni, attrice e pianista jazz rispettivamente, ma, tra provini ascoltati con disinteresse ed esecuzione di standard nei ristoranti o degli A-ha nei barbecue in giardino, la realtà pare remare contro: una serie di incontri casuali porta i due prima a innamorarsi e poi a dover scegliere fra i sentimenti e la realizzazione delle loro aspirazioni. La vicenda, scritta da Chazelle stesso, si dipana scandita da cinque stagioni - da inverno a inverno, seppur l’ultima separata da uno stacco temporale – in cui gli avvenimenti sono in sintonia con il periodo dell’anno (anche se poi a Los Angeles il brutto tempo parebbe bandito): il crescendo emotivo dei primi tre segmenti viene raffreddato da un ‘autunno’ quasi senza musica e forse un po’ troppo tirato per le lunghe prima di rimbalzare verso il nuovo ‘inverno’ che chiude – è il caso di dirlo – le danze. Con l’eccezione di John Legend che ha qualche minuto in più che serve per spiegare a Seb dove deve andare il jazz, tutto il film si incentra sugli attori protagonisti che ben si disimpegnano nelle parti cantate e danzate (Gosling ha inoltre imparato a suonare il piano, come del resto Legend la chitarra) e confermano le impressioni ogni volta positive lasciate nelle precedenti prove: se l’interprete maschile esprime intensità lavorando di sottrazione, Emma Stone esce alla grande in un ruolo che svaria da uno stato d’animo all’altro ed è seguito con cura attraverso lunghi ed espressivi primi piani. Le nomination agli Oscar sono quindi meritate per entrambi, sebbene le quattordici complessive per il film paiano un po’ esagerate malgrado l’abbondare di ruoli tecnici: in ogni caso, ‘La la land’ è un lavoro da godere senza retro pensieri, lasciandosi affascinare da una favola raccontata in maniera impeccabile.
Per il suo debutto alla regia Wes Ball, dopo una vita trascorsa nel reparto effetti speciali, si affida al bestseller di James Dashner e lo connota visivamente in base alla propria onnivora cinefilia. Etica e estetica da videogame alla Cube con mostri mutuati da Doom, uno spirito da naufraghi alla Lost, una nuova micro-civiltà di ragazzi come ne Il signore delle mosche e il neo-paganesimo da medioevo prossimo venturo di Zardoz centrifugati in salsa Young Adult e asserviti alle esigenze della serialità odierna. Senza dimenticare The Village di Shyamalan, forse la più forte delle influenze: anche qui infatti assistiamo a un'utopia di non violenza ricreata in vitro, all'illusione di un eden menzognero, fondato sulla paura di oltrepassarne i confini. La sicurezza della famiglia-comunità come punto di arresto dell'evoluzione di una società. Capire che con The Maze Runner ci troviamo di fronte al tentativo di un nuovo franchise è ovvio almeno quanto risolvere il rompicapo del labirinto e soprattutto di quel che si cela dall'"altra parte", dove anziché il Minotauro si trovano piuttosto Minosse e la sua corte di intrighi. Ma nonostante i difetti, talora puerili, è impossibile negare a The Maze Runner una piccola vittoria. La forza dell'intreccio ha infine la meglio e si dimostra sufficiente, anche da sola e per nulla supportata dal cast e dalla colonna sonora, a condurre lo spettatore fino all'agognato finale (o meglio a un nuovo inizio). Come vuole il mondo delle serie Tv, di cui The Maze Runner è un chiaro fratellastro, il primato è dello storytelling e di un mondo di soggettisti e sceneggiatori, ancora una volta.
Parlar bene di un film Pixar è ormai esercizio di mera routine, ma mai come nel caso di Ratatouille, la casa guidata dall'illuminato John Lasseter ha superato se stessa ed ogni complimento appare ridondante ed incapace di descrivere appieno la magia che traspare letteralmente da ogni singolo fotogramma. Se la tecnica, incredibile, raggiunta dagli animatori Pixar (i peli dei ratti sono impressionanti e così pure le vedute sulla skyline di Parigi) permette ai personaggi di acquisire un realismo tangibile, Brad Bird (già regista dell'ottimo Gli Incredibili) conferisce ad essi un surplus di umanità, grazie ad una serie di trovate narrative e sceniche originali e convincenti.
La sceneggiatura è perfetta, innovativa, mai banale e ricchissima di spunti su cui riflettere: si pensi ad esempio alla difficoltà, denunciata dall'unica protagonista di sesso femminile del film, di riuscire ad entrare e farsi largo in un mondo prevalentemente maschile come è quello della cucina "d'elite" o la mercificazione di un marchio di qualità, quale è quello di Gusteau, svilito per soldi e associato a prodotti precotti da banco. A fare ronzare le orecchie dei "critici" di professione (culinari, ma non solo...) c'è poi la geniale e lucida analisi autocritica che il feroce Anton Ego fa della sua professione...e potremmo continuare all'infinito.
Ratatouille diverte e parecchio, ma non cerca mai la risata facile o grossolana, mancano finalmente gag basate su flatulenze, rutti e tutto il campionario proposto da qualsiasi altro film di animazione recente e passato (Shrek in testa). Al pubblico non resta quindi che seguire i consigli di Anton Ego e andare verso il nuovo senza arroccarsi su inutili preconcetti e querule dicerie: Remy e Linguini vi aspettano.
Bastano questi pochi elementi per "inquadrare" Shrek come il disegno animato più politicamente scorretto della storia del cinema. Perché se i giochini alla South Park sono, alla fin fine, molto prevedibili nel loro svolgimento, questo film d'animazione della premiata ditta Katzenberg-Spielberg (la Dreamworks) è "sorprendente" fino alla fine: continuamente teso in direzione di situazioni felici e tradizionali che peraltro non si verificano mai. L'orco di nome Shrek deve portare la principessa Fiona al principe Farquaad perché lui si riprenda tutte le creature fantastiche che ha cacciato dal proprio castello e che minacciano la solitudine di Shrek: questa la struttura apparentemente da fiaba classica del film. Molte deviazioni narrative lo trasformano peraltro in un prodotto di fiction tradizionale, che potrebbe essere interpretato da attori veri. Con in più un senso d'innovazione che il cinema recitato ha perso da tempo. Ed una voglia di "graffiare" inusuale: Shrek "distrugge" tutti i miti dell'infanzia disneyani, da Pinocchio-La bella addormentata nel bosco-Biancaneve e i sette nani fino a La bella e la bestia.
Il campione d'incassi in patria (con cifre spaventose) è anche un campione d'integrazione tra i più classici estremi. La Francia bianca e ricca che incontra quella di prima generazione e mezza (nati all'estero ma cresciuti in Francia), povera e piena di problemi. Utilizzando la cornice della classica parabola dell'alieno che, inserito in un ambiente fortemente regolamentato ne scuote le fondamenta per poi allontanarsene (con un misto di Mary Poppins e Il cavaliere della valle solitaria), i registi Olivier Nakache e Eric Toledano realizzano anche un film tra i più ottimisti sulle tensioni che attraversano la Francia moderna.
Mescolando archetipi da soap (anche i ricchi piangono), la favola del vivere semplice e autentico come ricetta di vera felicità e un pizzico di "fatti realmente accaduti", a cui gli autori sembrano tenere molto (l'autenticità viene ricordata in apertura e di nuovo in chiusura con i volti dei veri personaggi), Quasi amici riesce a mettere in scena un racconto che scaldi il cuore e rischiari l'animo a furia di risate liberatorie (l'uinca possibile formula che porti incassi stratosferici) senza procedere necessariamente per le solite vie.
La storia di Philippe e Driss non segue la canonica scansione da commedia romantica, non procede per incontro/unione/scontro/riconciliazione finale ma ha un andamento più ondivago, che fiancheggia la crisi del rapporto e le sue difficoltà senza mai forzare il realismo.
Pur concedendo molto a quello che piace pensare, rispetto al modo in cui realmente vanno le cose, il duo Olivier Nakache e Eric Toledano riesce nell'impresa non semplice di infondere un'aria confidenziale ad un film che poteva facilmente navigare le acque del favolismo.
Molto è merito di un casting perfetto che, si scopre alla fine, ha avuto il coraggio di allontanarsi parecchio dalle fisionomie dei personaggi originali. Sul corpo statuario sebbene non perfettamente scolpito (come sarebbe invece accaduto in un film hollywoodiano) di Omar Sy passano infatti tutte le istanze del film. Dai suoi sorrisi alle sue incertezze fino alla sua determinatezza, ogni momento è deciso a partire da quello che l'uomo nero può significare nella cultura francese odierna. Elemento pericoloso quando vuole spaventare un fidanzato che merita una lezione o un arrogante vicino che ingombra il passaggio, indifesa vittima della società quando ha bisogno di un aiuto, forza primordiale e vitale quando balla e infine carattere autentico quando tenta approcci improbabili con le algide segretarie.
Con Thor: the dark world parte la "seconda stagione" dei Vendicatori, quella che passerà per il secondo film di Capitan America, I guardiani della galassia e altri fino a giungere a Avengers: Age of Ultron. La serializzazione del cinema di grande incasso compie un nuovo passo in avanti in questo senso e i Marvel Studios dimostrano di ragionare come la casa editrice di fumetti che sono, trattando ogni film come un albo, portando avanti una trama autoconclusiva assieme a una sottotrama più grande che confluirà nel film che riunisce tutti i personaggi, ovvero il "finale di stagione".
Di certo dopo un primo fiacchissimo film incautamente affidato a Kenneth Branagh, Thor ha ora un trattamento a livello degli altri supereroi Marvel, con un film che non si perde nel cercare di elevare la materia che tratta ma che invece ne cavalca la sua componente più facile ed immediata per trovare l'intrattenimento e il divertimento più genuini. Merito di un team creativo che proviene dalla serialità televisiva e molto a suo agio con i personaggi Marvel.
È proprio questa resa al tono e al mood dei fumetti seriali americani di grande tiratura la caratteristica più evidente di questo nuovo film Marvel Studios. Se fino a ieri erano l'Hulk di Ang Lee o Scott Pilgrim vs. the world di Edgar Wright gli esempi più interessanti di fusione tra linguaggio del cinema e dei fumetti, adesso il cinema Marvel sta cercando un altro percorso per questa fusione e non intende farlo passando per montaggio o replica del sistema "a tavole" ma passando per la leggerezza e frivolezza con cui si raccontano apocalissi indicibili e per il rapporto che la storia instaura con lo spettatore. Non è difficile infatti intravedere in Thor: the dark world le fantasie di onnipotenza (vivere la vita reale e risolvere problemi reali con poteri immaginari) che si trovano anche in Spider-Man o negli X-Men (fumetti e film) e che mancavano al film precedente, il segno più evidente di un rinnovato approccio più in linea con il target d'elezione.