Un film che è un omaggio al cinema degli anni ruggenti, quella che, almeno per due ore, faceva indossare un paio di occhiali rosa capaci di obliare pagine tristi dell’esistenza:che si chiamavano grande depressione o seconda guerra mondiale: un compito nel quale si distinguevano i musical, dai classici della coppia Astaire/Rogers alla visione più moderna incarnata da Gene Kelly. Ignorato con una certa fatica un brividino – il momento storico è così drammatico da dover rispolverare i musical? – non si può far altro che ammirare la perizia con cui il bravo Chazelle fa rivivere il genere non rinunciando ad aggiornarlo in modo opportuno, come nella bella scena iniziale sulla superstrada intasata che può ricordare ‘Hair’ o i momenti più malinconici che si avvicinano a ‘New York, New York’, l’altra riverenza, sebbene meno sorridente, a firma Martin Scorsese. Non contento, il regista immerge la sua fiaba in una Hollywood in bilico tra reale e irreale, utilizzando gli studios e i visi dei vecchi divi, nonché una location famosa come l’Osservatorio Griffith (vedi ‘Gioventù bruciata’) per una delle scene più sognanti. Sfruttando appieno technicolor e cinemascope viene fatta volare prima la cinepresa e in seguito pure gli attori in una più che mai esemplare alternanza di passaggi gioiosi, ravvivati dai colori saturi, e altri di maggiore difficoltà immersi nelle mezze tinte quando non avvolti dall’oscurità. Se la fotografia di Linus Sandgren risulta fondamentale, altrettanto importante è il montaggio di Tom Cross che ben si adatta all’azzeccata partitura di Justin Hurwitz che nel complesso preferisce i toni intimi: la combinazione di simili elementi ottiene il massimo dalle coreografie di Mandy Moore, riuscendo a regalare molti istanti che riempiono gli occhi e sollevano l’animo. Se classica è l’impostazione e classico in gran parte lo svolgimento, è inevitabile che la storia stia quasi – e il ‘quasi’ si limita pressappoco al finale – sempre nei canoni. Mia e Seb sono a Hollywood per rincorrere i loro sogni, attrice e pianista jazz rispettivamente, ma, tra provini ascoltati con disinteresse ed esecuzione di standard nei ristoranti o degli A-ha nei barbecue in giardino, la realtà pare remare contro: una serie di incontri casuali porta i due prima a innamorarsi e poi a dover scegliere fra i sentimenti e la realizzazione delle loro aspirazioni. La vicenda, scritta da Chazelle stesso, si dipana scandita da cinque stagioni - da inverno a inverno, seppur l’ultima separata da uno stacco temporale – in cui gli avvenimenti sono in sintonia con il periodo dell’anno (anche se poi a Los Angeles il brutto tempo parebbe bandito): il crescendo emotivo dei primi tre segmenti viene raffreddato da un ‘autunno’ quasi senza musica e forse un po’ troppo tirato per le lunghe prima di rimbalzare verso il nuovo ‘inverno’ che chiude – è il caso di dirlo – le danze. Con l’eccezione di John Legend che ha qualche minuto in più che serve per spiegare a Seb dove deve andare il jazz, tutto il film si incentra sugli attori protagonisti che ben si disimpegnano nelle parti cantate e danzate (Gosling ha inoltre imparato a suonare il piano, come del resto Legend la chitarra) e confermano le impressioni ogni volta positive lasciate nelle precedenti prove: se l’interprete maschile esprime intensità lavorando di sottrazione, Emma Stone esce alla grande in un ruolo che svaria da uno stato d’animo all’altro ed è seguito con cura attraverso lunghi ed espressivi primi piani. Le nomination agli Oscar sono quindi meritate per entrambi, sebbene le quattordici complessive per il film paiano un po’ esagerate malgrado l’abbondare di ruoli tecnici: in ogni caso, ‘La la land’ è un lavoro da godere senza retro pensieri, lasciandosi affascinare da una favola raccontata in maniera impeccabile.