Zodiac è un thriller atipico: ispirato alle azioni di un serial killer che tenne per anni in scacco la polizia di San Francisco (ancora oggi il caso è considerato chiuso solo perché il principale imputato morì prima di essere sottoposto a processo), il film di David Fincher concentra le sue attenzioni non tanto sulla figura dell'assassino, che rimane sullo sfondo, avvolta da un'aura inquietante e misteriosa, ma su un eterogeneo gruppo di personaggi, le cui vite vengono sconvolte dalle azioni del killer.
Il tema dell'ossessione, già declinato efficacemente da Fincher nelle pellicole del suo recente passato, ritorna e diventa quindi perno dell'intera vicenda: tutti i protagonisti della storia, in primo luogo l'ispettore David Toschi (un eccezionale Mark Ruffalo) e l'anonimo vignettista Robert Graysmith (il capace Jake Gyllenhaal), sacrificano carriera, affetti e famiglia, pur di trovare il bandolo della matassa che, anno dopo anno, si fa sempre più fitta e apparentemente inestricabile. Sullo sfondo, emerge sempre più chiaro il ruolo chiave che assumono col passare degli anni i media e l'informazione in generale.
Nonostante la sua eccessiva durata (oltre due ore e mezza) non contribuisca certo a renderne più agevole la visione, Zodiac garantisce più di un momento memorabile: la sequenza dell'omicidio a sangue freddo di una coppietta nei pressi di un lago e quella che vede Jack Gyllenhaal scendere nello scantinato di uno dei presunti colpevoli, valgono, come si suol dire, il prezzo del biglietto. Peccato che Fincher non abbia reso più compatta e omogenea la narrazione e non abbia utilizzato il tempo a sua disposizione per approfondire meglio alcuni personaggi, come quello del giornalista ubriacone interpretato (casualmente...) da Robert Downey Jr. e quello, forse troppo marginale, cui dà volto e corpo Chloe Sevigny. Graziato da una prestazione del cast a dir poco sontuosa, Zodiac è un film ostico, affascinante, un "thriller non thriller" anticonvenzionale, forse troppo lento e denso di fatti e dialoghi. In America il pubblico non ha gradito (la critica è invece osannante): da noi, dato il genere, potrebbe avere miglior fortuna. Quel che è certo è che David Fincher, anche se non al suo meglio, ha davvero talento da vendere.
Jordan Vogt-Roberts sembra quasi volerci introdurre a uno Sharknado licenziato da una major e su questo equilibrio instabile tra trash e ambizioni sopite Kong: Skull Island si gioca buona parte delle proprie chance. Purtroppo, retrospettivamente, quell'incipit degno di un fumetto di Mortimer e Blake è uno dei ricordi migliori di un B-movie dal budget stratosferico, pasticciato e carico di elementi eterogenei mal gestiti. Delle tante anime che gli sceneggiatori hanno cercato di infondere in Kong: Skull Island, preponderante è il riferimento insistito ad Apocalypse Now e alla ferita aperta dell'esercito degli Stati Uniti, la guerra in Vietnam.
Ritorna il cieco militarismo di chi ama il napalm (il personaggio di Samuel Jackson) come soluzione per i problemi suoi e dell'America, il pacifismo di chi vuole fotografare ciò che non ci vogliono mostrare (la fotoreporter di Brie Larson); il dropout integratosi con la giungla e con il suo dio (John C. Reilly con Kong come Dennis Hopper con Kurtz) e infine il cacciatore-eroe di Tom Hiddleston, che finisce per fare pochissimo in uno script già congestionato e che si chiama Conrad nella più puerile delle citazioni (in linea con la colonna sonora, che assembla le più ovvie hit del rock primi anni '70 nel tentativo di ricreare in vitro i sensazionali minuti di "Satisfaction" sul battello di Apocalypse Now).
Brian Singer aveva coccolato il personaggio di Wolverine, gli aveva dato fascino, mistero, sofferenza. Gli aveva offerto spazio e aperto per lui una fessura sul passato. Gavin Hood non fa di meglio. Apre all'insegna del trauma e della notte, con un prologo che resterà, però, un piccolo cortometraggio a sé stante, nel quale il piccolo Logan uccide il suo vero padre, non intuendone l'identità, e si dà alla prima delle tante fughe da se stesso. Il seguito è un'irrisolta ricerca delle giuste proporzioni, tra azione e sentimento, racconto e allusione, sfaccettature ironiche e appiattimenti unidimensionali.
La carica animalesca che fa di Logan un diverso fra i diversi è ciò che resta più d'ogni altra cosa fuori scena e, se non fosse per Liev Schreiber nelle vesti di Sabretooth, la cui presenza scenica è una vera e propria forza sulla quale Hugh Jackman può far leva per goderne di riflesso, la sensazione rischierebbe di essere quella di trovarsi di fronte ad un sottosviluppo di Wolverine, anziché al racconto del suo perfezionamento.
Hood e Benioff hanno mescolato le carte del fumetto e sul campo si contano vinti e vincitori: Deadpool e Gambit sanno farsi apprezzare, Blob e Emma Frost si fanno sprecare, Ciclope si salva fortuitamente.
Wolverine è un buon film d'azione, che non si sottrae alla domanda di approfondimento che il genere porta recentemente e piacevolmente con sé nella sua declinazione supereroistica, ma risponde in maniera intermittente, balbettante, per cui non mancano le buone battute ma all'interno di un percorso senza imprevisti e non difetta qualche bella sequenza - specie nella prima parte, con le gesta del Team X - ma nemmeno il già visto. Gli artigli di osso sono stati convertiti in spade di adamantio ma non aprono squarci memorabili, fanno giusto qualche graffietto. La vendetta ai Vendicatori.
Tra inseguimenti, scazzottate, esplosioni e sparatorie – con conseguente numero industriale di morti ammazzati – le due ore e mezza di Spectre volano che è un piacere, senza lasciare allo spettatore il tempo di annoiarsi: una volta ripresosi dallo stordimento che ne consegue, il suddetto spettatore comincia però a fare due conti e scopre che non tutto quadra. Il confronto con il precedente Skyfall è del tutto impossibile – in fondo, sarebbe stato un miracolo replicare l’indovinato insieme di azione e contenuto del film di tre anni fa – ma questo lavoro deve cedere il passo anche rispetto a Casino Royale: le voragini che si aprono nella storia scritta da John Logan e Neal Purvis in collaborazione con Robert Wade possono innervosire persino chi è ben disposto alla sospensione dell’incredulità e portano a un’eccessiva prevalenza del contenitore sul contenuto (per particolare sgangheratezza si segnala il segmento ambientato nel deserto). Eppure la squadra degli autori è la stessa delle precedenti puntate di quella sorta di reboot bondiano che sono le avventure interpretate da Daniel Craig: forse è proprio il tentativo di tirare le fila di tutto quanto incrociando i destini dei personaggi presenti negli altri tre film che finisce per rendere troppo artificiosa e stiracchiata la trama. L’interconnessione è una novità per 007, le cui storie in precedenza hanno sempre avuto fra di loro legami molto tenui quando non inesistenti, ma non è certo l’unica, la più importante essendo quella ben conosciuta dell’umanizzazione del personaggio rispetto allo standard dell’ammazzasette sciupafemmine tutto Aston Martin - che comunque ritorna alla grande - e vodka martini: anche qui se ne indaga la personalità, sottolineandone in special modo la solitudine di uomo senza relazioni personali tanto che miss Moneypenny (Naomie Harris) si spinge a dirgli ‘E’ la vita, James, dovresti provarla qualche volta’. Nel frattempo Bond sta seguendo un’esile traccia che, partendo da Città del Messico, lo porta a Roma – dove trova il tempo di sedurre la Bond lady Lucia (Bond girl sarebbe davvero troppo per l’età, pur mirabilmente portata, di Monica Bellucci) – quindi sulle Alpi austriache e infine a Tangeri per scoprire l’intrigo che coinvolge sicurezza mondiale e vicenda personale: tutto questo in solitaria o affiancato dalla bionda Madeleine (Léa Seydoux) , perché a Londra il burocrate C (Andrew Scott) sta cercando di fare le scarpe al suo Servizio. Il nuovo M (Ralph Fiennes), Moneypenny e soprattutto il mago dei ‘giocattolini’ bondiani Q (Ben Whishaw) - a cui viene riservato più spazio del consueto – si ritrovano ad aiutarlo di nascosto, ma il nostro riesce comunque, ovviamente, ad arrivare al nocciolo della questione malgrado gli agguati dell’assai poco loquace Hinx (il wrestler Dave Bautista): la Spectre compare così per la prima volta nella serie con Craig e, assieme a essa, l’arcinemico Ernst Blofeld, interpretato qui dal tarantiniano Christoph Waltz. Il quale, a dir la verità, offre una recitazione un po’ troppo gigiona per essere efficace in un cast non proprio favorito dalla scarsa empatia dell’interprete femminile: al tirar delle somme, la prova di Léa Seydoux non si può certo definire convincente (sì, è meglio di Monica Bellucci, ma per quello ci vuole davvero poco). Si fanno preferire gli attori del gruppo inglese, capitanato dallo stesso Craig che viene ripagato per le fatiche fachiresche al fine di rientrare nel fisico del ruolo con l’aver ormai ridefinito le coordinate del personaggio: agli altri sono riservati i pochi passaggi che alleggeriscono l’atmosfera in una sceneggiatura dai dialoghi secchi e puntuti forse più del consueto. Dopo la bella prova di Skyfall e malgrado qualche chiacchiera attorno al nome di Cristopher Nolan, alla regia si ripresenta Sam Mendes che, pur non facendo miracoli e con l’aiuto della bella fotografia di Hoyte Van Hoytema, conferma le sue molte qualità, giocando in alcuni momenti con le citazioni – le suggestioni sorrentiniane della sequenza nella villa romana e gli interni a Tangeri tra ‘Tè nel deserto’ e vecchi intrighi levantini – e firmando una delle sequenze iniziali migliori di sempre, dal lungo piano sequenza che la introduce all’elicottero che volteggia impazzito sulla festa dei morti a Città del Messico. Del resto la morte è uno dei temi principali del film, come pure il passato che ritorna - ‘i morti sono vivi’ avvisa una didascalia prima d’iniziare – già ben presente in Skyfall e sottolineato dai titoli di testa un po’ barocchi e non ben supportati da Sam Smith con la sua Writing On The Wall.
Spettacolare ed adrenalinico, Jumanji è il frutto della sapienza negli effetti speciali di un collaboratore fisso dell'Industrial Light and Magic di Lucas, Joe Johnston, ma anche della speciale sceneggiatura ad effetto, per usare un gioco di parole, che riesce nell'impresa di tradurre in spettacolo cinematografico la dinamica emotiva che presidia un giovane giocatore all'opera. Dallo scivolo del divertimento alla morsa della tensione e ritorno.
Con grande arguzia, il film associa, tra le righe, il comportamento sproporzionato del bambino che risponde in modo irrazionale al genitore durante un litigio ("non ti parlerò mai più", per esempio) con la sproporzione delle conseguenze di un lancio di dadi, quando la plancia del gioco si è allargata ad includere il mondo intero. In entrambi i casi, nel confronto, non si tratta solo di uno scambio di parole o di un movimento di pedine: si tratta di imparare a relazionarsi, ad affrontare le situazioni, si tratta di crescere.
Impermeabile al tempo che è passato, la pellicola di Joe Johnston, con una giovanissima Kirsten Dunst, ha addirittura anticipato alcune riflessioni di Matrix ("E se rimango incastrato nel gioco?") e chi l'ha accusata di ripetitività, ha evidentemente dimenticato che fa parte delle regole.
La squadra franco-americana che ha inaugurato con Cattivissimo Me questa fortunata serie di film ha colto nel segno nel momento in cui ha immaginato un personaggio (Gru, in quel caso, ma anche gli stessi Minion) con un'ambizione smisurata per il malaffare e un cuore limpido come quello di un bambino. In questa meravigliosa contraddizione, mai sollevata a livello esplicito ma certamente cuore della faccenda comica, c'è tutta la forza e la verità di queste fortunate animazioni. Chi, infatti, non ha mai provato maggior simpatia e interesse per i cattivi del cinema anziché per il cosiddetto eroe di turno? I cattivi hanno sogni più colorati, (dis)avventure più rocambolesche, esistenze -insomma- molto più divertenti.
Minions , che all'anagrafe è il terzo film ma biograficamente può dirsi un prequel dell'originale, porta appunto volontariamente all'esagerazione il divertimento promesso, articolandolo in quantità e virtuosismo (il viaggio dei tre protagonisti è quasi uno spin-off nello spin-off). Non manca per questo la qualità, a partire da quella della colonna sonora, decisamente sorprendente nel contesto cartoon (dai Doors a Jimi Hendrix, e poi Beatles, Who, Kinks, Stones, Donovan con l'azzeccatissima "Mellow yellow").
Ma nel film di Pierre Coffin e Kyle Balda, tante sono anche le citazioni cinematografiche, interne alla "trilogia" stessa (noi non riveliamo nulla, ma voi guardate in zona raggio congelante) e non solo (a Stuart è affidato il momento Ritorno al futuro, a Bob quella da Grande Dittatore e su tutta la parte britannica aleggia un'atmosfera bondiana).
Ai meno esigenti sarebbe probabilmente bastato l'impatto visivo dei micropersonaggi tutta-testa e dell'ambientazione d'epoca, il loro caos slapstick, l'irresistibile fonetica, ma il fatto che il film abbia una storia che regge è cosa gradita e ne fa un terzo capitolo a tutti gli effetti, non solo una divagazione estiva.
Manca però quella tenerezza che aveva fatto tremare all'unisono gli schermi e i cuori mentre Gru dava la buonanotte a Margo, Agnes e Edith. Per quanto in tre, nanerottoli e simpatici, Kevin, Stuart e Bob non possono competere con le sorelline adottate. Né, per dirla tutta, sembrano destinati a scalzare i colleghi e a guadagnare la prima linea com'è successo ai Pinguini di Madagascar. Per loro fortuna sembrano non curarsene e pensare soltanto: "... banana!"
J.R. Tolkien and C.S. Lewis si sono incontrati per la prima volta nel 1926 all'università di Oxford, hanno condiviso i loro pensieri con l'obiettivo per entrambi di trasferire miti e leggende nel mondo contemporaneo comunicandone anche i valori religiosi.
C.S. Lewis grazie all'amicizia con il creatore de Il Signore degli Anelli ha imparato a unire razionalità e immaginazione e sull'onda dell'impeto di ragione e sentimento ha scritto Le cronache di Narnia, capolavoro del genere fantastico.
In Inghilterra, durante la Seconda Guerra Mondiale, quattro fratelli scoprono nella casa di un vecchio professore, un armadio. Il mobile, sorprendentemente, è la porta verso un mondo incredibile, il regno di Narnia. In questo universo fantasmagorico in cui gli animali parlano, la malefica strega Bianca, Jadis (Tilda Swinton) ha lanciato un incantesimo che ha messo sotto il gelo l'intero reame. I fanciulli, sotto la coltre di neve, prendono in mano la situazione e insieme al leone Aslan (con la voce di Omar Sharif) guidano Narnia contro l'esercito del male.
Primo dei sottolibri delle Cronache (in totale sono sette), questo episodio vive un parallelo con l'episodio finale de La compagnia dell'Anello per i faraonici scontri fra il bene e il male. Purtroppo, bisogna confessare che dopo l'opera di Peter Jackson difficilmente la sontuosità e l'immaginifico possono assurgere a livelli celestiali così elevati. Il film della Disney ha il pregio di essere riuscito, grazie agli effetti speciali, a rendere quasi perfetta la complessa animazione degli animali (il realismo è a tratti incredibile), ma il pathos e l'anima del film hanno una freddezza coerente con il manto innevato di Narnia. È un'anima che manca a questo lungometraggio e il regista Andrew Adamson, non ha portato a termine il compito di dare vita alle emozioni, come nel suo precedente Shrek 2, dimenticandosi per un attimo (due ore e venti) che per coinvolgere lo spettatore non basta far parlare il re della foresta.
Il cervello del cinema e quello del suo spettatore non funzionano in modo troppo dissimile. Oltre al fatto che molte delle tecniche utilizzate dai film (ad esempio, il primo piano e il flashback) appaiono come la visualizzazione diretta di alcuni processi mentali (l'attenzione e il ricordo), entrambi si dice siano capaci di sfruttare solo una piccola parte delle loro potenzialità. Cosa significa quindi sfruttare al massimo queste capacità, neuronali o estetiche che siano? Per il protagonista di Limitless significa diventare improvvisamente un genio poliglotta della letteratura e dell'alta finanza. Per il suo regista Neil Burger, significa invece poter utilizzare liberamente e senza vincoli tutti gli effetti più esaltanti e barocchi maturati dall'estetica del videoclip. Dopo aver lavorato con iridi ed effetti seppia per dare una patina da favola d'altri tempi agli illusionismi del mago Eisenheim nella Vienna di fine Ottocento (The Illusionist), stavolta Burger si serve di espedienti tecnici più all'avanguardia, attraverso un impiego ardente e ardito di fisheye, morphing e zoom. E proprio in quella infinita zoomata in avanti dei titoli di testa, con la quale attraversiamo tutta Manhattan come in una mise en abyme, possiamo leggere l'intera configurazione del film. Che altro non è se non una corsa frenetica fra vari generi, una dissolvenza continua fra molteplici suggestioni narrative, sovraccaricate dalle eccitazioni di una sostanza stupefacente.
Ci sono davvero poche barriere non varcate in Limitless (la fantascienza, l'action movie, il thriller), così come molti sono i luoghi tipici dispiegati nell'arco del racconto (la cospirazione politica, la mafia russa, l'alta finanza, la dipendenza dalle droghe). Ognuno di questi input non è tanto finalizzato alla costruzione di una sceneggiatura rigorosa e complessa, quanto a introdurre nuovi stimoli per permettere al "cervello" della macchina da presa di Burger di perseguire un continuo esercizio di stile concitato e galvanizzante. Limitless è perciò, fin dal suo titolo, quasi un manifesto per l'estetica postmoderna, il trionfo di un cinema medio votato principalmente all'esaltazione dei sensi e all'immersione continuativa.
E tuttavia, se il film funziona è proprio in virtù della sua "medietà" esibita. Nella storia di un mediocre scrittore che, grazie a una pillola sintetizzata da un ex-spacciatore, diventa un genio incredibilmente attivo e sagace, possiamo leggere anche il percorso creativo di un film con evidenti falle di sceneggiatura e ambiguità tematiche, che, attraverso un utilizzo brillante degli artifici visivi dell'avanguardia pop, risulta comunque capace di vitalizzare e stupire il suo spettatore, annullando la sua soglia di credenza e la percezione del passare del tempo.
Uscita dal ghetto losangelino, ma ostinata a 'rincasare' per un barbecue, la famiglia di Dominic Toretto accende i motori per la sesta volta, guidando ad alta velocità per le strade del mondo. Saturo di adrenalina, ruote sgommanti, esplosione testosteronica e una verve autodenigratoria, Fast & Furious 6 è diretto di nuovo da Justin Lin e 'guidato' da Vin Diesel, irriducibile fuorilegge rasato a cui chiediamo ancora un altro giro. E lui, cowboy urbano senza paura e molto carburante consumato, ci accontenta, raddoppiando la posta e allargando la famiglia a un nuovo e piccolo Toretto. Driver di nuovo 'in amore' con la ritrovata Letty, Diesel è corpo esagerato che non delude mai. Generoso e fedele (al codice) condivide la scena con la massa enfatizzata di Dwayne Johnson, 'roccia' contro cui si frange la megalomania del villain di Luke Evans, moschettiere a cavallo convertito ai cavalli. Asfalto rovente e motori su di giri, il sesto capitolo parte a tutta birra, rallentando a metà percorso e impennando nella volata finale, dove trova un 'abbraccio' acrobatico e trattiene sulla pista un Boeing smisurato. L'ipertrofico Diesel, che ha dimostrato con Sidney Lumet (Prova a incastrarmi) di essere qualcosa di più di un culturista con ambizioni attoriali, resta il cuore, la carne e i muscoli sempre tonici di una serie longeva che non ci pensa davvero ad 'accostare', rilanciando dopo i titoli di coda con Jason Statham. Con un cliffhanger e un appuntamento rinnovato termina l'ennesima avventura del clan Toretto e di una gioventù ultrabruciata senza scopo e col vizio della corsa clandestina. Corse che rimpiangono la polvere delle backstreets mentre sollevano la polvere di stelle di una Londra dove tutto è davvero possibile, anche un amore 'smemorato' e memore. Nel turbo giro, in cui finiscono inghiottite le star di turno, resiste Paul Walker, ex poliziotto infiltrato e amico fraterno di Toretto, e rientra Michelle Rodriguez, moglie del divo tutta curve pericolose e grinta sporca. I due eroi 'fendiaria' danno vita e gas all'ennesima avventura mozzafiato che non risparmia in stravaganza e propellente, frullando girandole meccaniche, accelerate pirotecniche e inseguimenti da sballo. Tutto quello che Fast & Furious 6 promette nel trailer lo mantiene, pilotando un cast che tiene la scena come le macchine la strada. Infine, e da tradizione, nei titoli di coda si raccomanda allo spettatore di non emulare gli esercizi acrobatici dello schermo, rispettando il codice stradale incorreggibilmente infranto da una combriccola di irresistibili spacconi.
L'uscita di Monsters & Co. aveva rappresentato (e continua a rappresentare) una tale vetta nel panorama del cinema d'animazione e della stessa Pixar che era impensabile poter fare di meglio. Eppure, John Lasseter e i suoi sono riusciti nell'impresa intelligente di restituirci il piacere della compagnia di Mike e Sully senza metterli in competizione con loro stessi. Si cambia tempo, optando per il prequel, si rinnovano i personaggi (e alcune new entries sono notevoli), ma soprattutto cambia radicalmente il registro: dal filosofico e tenero incontro/scontro tra il mondo dei mostri e quello dei bambini, attraverso la porta del destino, a quello goliardico e avventuroso del college movie tinto di fantasy, di buon umorismo e di una goccia di retorica (la porta, infatti, non è più la soglia della conoscenza con l'Altro, ma l'elemento di un proverbio per cui, quando si chiude un'opportunità, se ne apre un'altra).
Se l'originale è il ritratto di una strana coppia, il prequel, che narra come ci si è arrivati, è più classicamente la storia di Mike, piccolo grande eroe, costretto a fare i conti con il proprio handicap (è un mostro che non fa paura) ma anche con la forza contagiosa che gli viene in soccorso dalla determinazione e dalla passione che la carriera di potenziale spaventatore ispira in lui. Un oggetto magico -il cappellino donatogli in età scolare da un impiegato alla Monsters Inc.- scatena letteralmente l'avventura, mentre le prove che l'eroe dovrà superare si confondono e sovrappongono con le prove delle Spaventiadi, ingegnosamente architettate da un duo di sceneggiatori in gran forma (gli stessi del primo capitolo, Gerson e Baird).
Il passaggio dalla regia a sei mani dei creatori di Toy Story alla direzione unica di Dan Scanlon (Cars) si sente, ma non penalizza oltremodo un film pieno di divertimento, che ha il suo fiore all'occhiello nell'ambientazione, mai così fantasiosa e accurata.
Un episodio, il settimo della serie inaugurata nel 2001 da Rob Cohen, che da subito ha assunto proporzioni gigantesche di significato, ben al di là della semplice prosecuzione di un franchise di successo. Dal momento della scomparsa di Paul Walker, senza dimenticare le circostanze paradossali in cui questa è avvenuta, realtà e finzione hanno cominciato a mescolarsi, delegando alla riuscita di Fast & Furious 7 un possibile esito virtuoso del cortocircuito. Il film sgombra il campo dagli equivoci ben presto, dimostrando, più che di essere influenzato dagli eventi extra-diegetici, di esserne dominato. La ridda di speculazioni sul film di James Wan - diversi horror al suo attivo come Saw - L'enigmista o L'evocazione - The Conjuring - non ha chiarito quanto Brian, ossia il personaggio di Walker, sia stato ricostruito grazie alla computer graphics, né quante delle scene siano frutto dell'effettiva interpretazione di Walker e quante abbiano fatto ricorso ai fratelli dell'attore scomparso. Ma quel che è certo è che lo script e il concetto stesso dell'opera sono stati riscritti e ripensati dopo l'evento, trasformando Fast & Furious 7 in un lungo addio all'amico, senza neanche porsi il problema di giustificare il tutto sul piano diegetico: è chiaramente insufficiente, infatti, il pretesto narrativo del ritorno in famiglia di Brian per giustificare l'atmosfera elegiaca del film, così come appare studiata la volontà di avvicinare all'attesa morte (che allinei realtà e finzione) il personaggio per poi salvarlo nelle maniere più rocambolesche. Vince, anzi stravince, l'elemento extra-diegetico e il fatto rappresenta una novità sostanziale in chiave di completo superamento del postmoderno nel cinema action: il reale irrompe inarrestabile e scardina le regole della finzione.
Solo Blues Brothers 2000 aveva accettato l'elaborazione del lutto sul piano diegetico, ma per tracciare una linea e proseguire in un'altra direzione. Wan invece lavora sul fantasma di Walker cercando di invertire il corso naturale delle cose: e se la resa infine è inevitabile (per ora, visto che Fast & Furious 7 apre a scenari nuovi anche sul potere di resurrezione del digitale) di certo non è silenziosa. Tra granate in ogni dove, bolidi che escono da un grattacielo per entrare in quello accanto e auto paracadutate su una strada nel Caucaso, Fast & Furious 7 esagera su ogni fronte; è insieme il più bromance e il più voyeur sulle grazie femminili, il più spettacolare e il più corale. Anche grazie a un cast micidiale, che trova in Statham l'unico villain capace di competere credibilmente con colossi come Vin Diesel o The Rock e in Kurt Russell il depositario dell'action movie che fu, pronto a benedire gli eccessi dell'era digitale. Ma giudicare Fast & Furious 7 come un "normale" action movie, con i suoi pregi - la sequenza a Dubai - e i suoi molti e notevoli difetti - di sceneggiatura, coesione tra le parti, prolissità - significherebbe ignorare le ragioni della sua specificità, tali da renderlo, ad oggi, inequivocabilmente unico.
La storia, scritta dallo stesso Kosinski per una graphic novel mai realizzata, è diventata progetto cinematografico dopo l'interessamento di Tom Cruise. Questa genesi aiuta a comprendere molti dei pregi di un film che sancisce la definitiva fumettizzazione del cinema blockbuster statunitense. Dopo il successo e il profluvio (per nulla terminati) di film direttamente tratti dai fumetti, negli ultimi anni tutto il comparto d'azione, anche quello originale, è contaminato da dinamiche, figure e strutture tipiche del fumetto.
La forma della graphic novel è la nuova cianografia su cui raccontare l'eroismo per il grande pubblico e non ne è immune nemmeno il regista di un capolavoro sperimentale come Tron: Legacy, sebbene le invenzioni e l'audacia audiovisiva di quel film qui siano lontane. Oblivion riconduce il genio di Joseph Kosinski dentro il sistema hollywoodiano più canonico e incanala le sue intuizioni fantascientifiche in uno svolgimento più consueto, specialmente per ciò che riguarda la figura del protagonista, il cui carattere e il cui percorso appaiono modellati sul corpo, sui trascorsi e sulla carriera di Tom Cruise.
Benchè non si tratti di un sequel, Oblivion attinge a piene mani dall'immaginario della fantascienza recente. Il protagonista è un Wall-E potente e avventuroso che gira per una Terra distrutta, lavorando come ripulitore, raccogliendo scarti del mondo che fu per riunirli in una casa/museo mentre sogna un domani migliore nelle pause lavorative, a questo sono abbinate suggestioni da La fuga di Logan (il film) e "Modello due" di Philip Dick, aggiornate al loro rimaneggiamento operato in Moon di Duncan Jones. Inoltre, assieme al direttore della fotografia e al designer di Tron: Legacy, Kosinski descrive il suo futuro postapocalittico a colpi di architetture memori di Syd Mead e paesaggi miyazakiani, caratterizzati cioè da una rivolta della natura e una sua riconquista del pianeta in seguito ai postumi della guerra e degli eccessi umani. L'elenco dei riferimenti potrebbe andare avanti a lungo ma per fortuna non è nei debiti che si misura la forza del film.
Come la miglior fantascienza Oblivion sfrutta un contesto avventuroso per affrontare la dialettica tra speranze e timori per quelle evoluzioni dell'uomo e del pianeta che è possibile intravedere oggi, e lo fa attraverso il rapporto che egli intrattiene con la tecnologia e le sue possibilità. La visione cinematografica di Kosinski rimane sbilanciata sull'audiovisivo più che sul narrativo, sempre pronta a sacrificare la coerenza e l'inattaccabilità della sceneggiatura per una trovata visiva in più, purtroppo però la "normalizzazione" di questo secondo film porta con sè anche un ribaltamento del pensiero fondante del precedente, un ritorno alla tradizione del genere, ovvero il racconto della lotta per la riconquista della supremazia dello spirito sulla tecnologia. Non viene così portato avanti quel discorso molto più moderno e attuale di riscoperta dell'umanesimo proprio dentro il tecnologico e non in sua opposizione che poneva Tron: Legacy all'avanguardia nel genere.
Dopo aver diretto Goldeneye e il James Bond charmant (e irlandese) di Pierce Brosnan, Martin Campbell scommette su Daniel Craig e vince senza bluffare al tavolo verde del Casino Royale. Il suo nuovo episodio 007 mostra la genesi di James Bond e colma il suo passato, informandoci sugli antefatti. Il ruvido agente di Daniel Craig mantiene i riferimenti strutturali col Bond "seriale", confrontandosi con i tratti distintivi del suo personaggio, indagandone nuove possibilità espressive senza mai negarlo.
È vero, Daniel Craig è fenomenologicamente più vicino all'antagonista di Bond, magari russo e magari letale, ma le sue doti recitative rinnovano da sole il mondo narrativo di Bond, rivelando allo spettatore i suoi "ingredienti" e quelli del suo Vodka-Martini. La spia di Campbell, ispirata al primo romanzo di Fleming, è già a suo agio dentro all'azione, alle location esotiche, allo smoking, o alla guida di una Aston Martin, ma è ancora privo di Moneypenny, di Q e dei suoi gadget avveniristici, dei motoscafi, del sesso premio e della presentazione cool ("Il mio nome è Bond, James Bond"). Perché non è ancora Bond, quello di Connery, di Lazenby, di Moore, di Dalton, di Brosnan, il raffinato agente dello spionaggio inglese, bagaglio di un condiviso immaginario collettivo.
In Casino Royale tutto ha l'incanto ma anche la brutale materialità della prima volta. Ottenuti due zeri, ovvero la licenza di uccidere, in un flashback in bianco e nero, Bond affronta la sua prima missione e il suo primo inseguimento: un'incredibile corsa urbana a ostacoli a Nambutu, dietro a un dinamitardo campione di parkour. L'azione, che proietta direttamente il personaggio nelle ambasciate, negli aeroporti e nei luoghi aperti perennemente minacciati da attacchi terroristici, si apre al melodramma, all'autobiografismo e al sentimentalismo. La parte action radicalizzata nella serie viene sottoposta ai movimenti e ai ripiegamenti del cuore, innamorando Bond di Vesper Lynd come da copione e da romanzo. La bella tesoriera della "dreamer" Eva Green determinerà il Bond seduttore e fonderà il presunto sessismo del genere. Luogo di culto e di fascinazione assoluta degli 007 è pure la sigla musicale dei titoli di testa. Sulla canzone di Chris Cornell scorrono i personaggi, allegorizzati in silhouette ridotte in semi di cuori e picche dalla pistola di Bond, finalmente tornato.
Tom Shadyac, il regista di "Una settimana da Dio", aveva già diretto Jim Carrey, il comico, in "Ace Ventura l'acchiappanimali", un classico dell'umorismo demenziale alla "fratelli Farrell". Poi Jim Carrey, l'attore, aveva abbandonato la maschera di gomma, per interpretare "The Truman Show", affrancandosi dalla schiavitù del far ridere. La schizofrenica carriera di Carrey sembra risanarsi proprio qui, in "Una settimana da dio", dove l'attore coniuga la mimica esasperata del suo personaggio e le sue doti, innegabili, di attore brillante. Shadyac, regista, attore e produttore con un passato di ghost writer per Bob Hope, tiene il ritmo dell'irrefrenabile Jim in un film che non ha la pretesa di essere un capolavoro, ma che come commedia, funziona con la precisione di un orologio svizzero. Nel cast, Jennifer Aniston sempre più in fuga da "Friends" verso una carriera sul grande schermo e Morgan Freeman, dio "politically correct" con un bizzarro senso dell'umorismo.
Clint Eastwood non smette mai di stupirci. Dopo averci narrato di Iwo Jima vista dai due fronti e di un'altra intrusione dello Stato nella vita degli individui (Changeling) ci immerge ora nel privato di un uomo che ha fatto dell'astio nei confronti dei diversi da sé (siano essi asiatici, neri o più semplicemente giovani) la sua ragione di vita. Si è murato vivo nella sua casa e la prima pietra dell'edificio è stata collocata a metà del secolo scorso quando ha conosciuto la violenza e la morte in Corea. Il suo personaggio si chiama (e lo ribadisce al fine di evitare appellativi troppo confidenziali) Kowalski.
Eastwood ha una cultura cinematografica così vasta da non poter aver scelto a caso questo cognome. Stanley Kowalski era il brutale protagonista di Un tram che si chiama desiderio da Tennessee Williams interpretato da un Marlon Brando al suo top. Anche Walt è brutale, in maniera così rozza che nessuno fa quasi più caso alle sue offese di stampo razzista. È come se, ormai anziano, il mondo attorno a lui gli facesse percepire la sua inutilità anche da quel punto di vista. Il suo andare sopra le righe ad ogni minima occasione lo apparenta con l'altrettanto anziana vicina di casa asiatica che sa solo inveire e lamentarsi sul portico di casa.
Saranno però i giovani 'diversi' (Thao e sua sorella Sue) ad aprire una breccia nelle sue difese. Hanno l'età dei detestati nipoti ma, a differenza di loro, hanno saputo conservare dei valori che l'Occidente non si è limitato a dimenticare ma ha addirittura rovesciato. Una parte della critica americana ha deriso il 'buonismo' di questo film e chi non lo ha attaccato si è spesso trincerato dietro la fredda analisi che vorrebbe trovare in Kowalski una sintesi dei personaggi interpretati nella sua lunga carriera dall'attore. Può anche essere ma Eastwood non è un regista che assembla ruoli per cinefilia compiaciuta o per autoesaltazione.
Walt è un personaggio sicuramente nella linea di quelli da lui già portati sullo schermo ma è molto più complesso di quanto non possa apparire a prima vista. Il suo rapporto con l'auto e con le armi (straordinario e determinante il segno di pollice e indice a indicare la pistola come nei giochi dei bambini) ma anche quello con l'unico essere umano che si potrebbe definire suo amico (il barbiere) sono solo alcuni degli elementi che, insieme all'insorgere della malattia, costituiscono il mosaico della personalità di un protagonista non facile da dimenticare.
La trama poggia su un racconto adolescenziale di Besson (più tardi ampliato in romanzo con la collaborazione di Terry Bisson), allineato senza eccessiva originalità al superficiale manicheismo misticheggiante di dimensioni cosmiche che permeava buona parte della produzione letteraria francese di genere fantascientifico di qualche decade fa. Ma da cineasta esperto Besson riesce, con astuta ironia ed indubbio mestiere, a tramutare la sua esile favoletta in un grande successo commerciale, grazie anche ai collaboratori eccellenti di cui si è circondato, dallo stilista di fama mondiale Jean Paul Gaultier che ha realizzato gli originali costumi, a due illustratori del calibro di Jean-Claude Mézières e Jean Giraud (più noto quest'ultimo come Moebius, il creatore della mitica rivista Metal Hurlant), che ne hanno curato le mirabolanti scenografie. E di un fumetto in definitiva si tratta, forse prolisso e certo in debito di ispirazione verso personaggi e pellicole di maggior spessore, e tuttavia assai pregevole, splendidamente confezionato ed impreziosito inoltre da uno stuolo di attori famosi, scelti con occhio attento al mercato anglosassone, che infatti ha promosso a pieni voti questa megaproduzione da 100 milioni di dollari.
Silente è incarnato da un affascinante Jude Law che gli dona carisma, sicurezza, e non ultima quella dose di ambiguità che il personaggio anziano si era lasciato alle spalle, ma che sappiamo presente nel suo curriculum e intimamente legata proprio alla relazione con Grindelwald.
È questo però anche il capitolo in cui ci si lascia definitivamente alle spalle il tempo della favola e del disimpegno: lo sancisce metaforicamente l'uccisione di un bambino, tra le prime azioni del malvagio evaso, mentre, a livello più esplicito, il protagonista è chiamato a scegliere da che parte stare, lui che avrebbe preferito di gran lunga potersi disinteressare dei tormenti umani per dedicarsi con curiosità da scienziato ai suoi animali. Non è più tempo di incertezze e allusioni: quello del Mago Oscuro è un progetto nazista, di pulizia etnica, l'auspicio di un regime del terrore, drappeggiato di nero e di follia, e tutto lascia intendere che la strada per abbatterlo sarà lunga e costellata di perdite.
Giusto per togliersi il dubbio: Madagascar non solo è di gran lunga il migliore dei film Dreamworks (sotto certi aspetti supera anche la bilogia dell'orco verde), ma si mette in diretta concorrenza con le recenti produzioni del team di Lassiter, in campi in cui il predominio Pixar appariva, fino a ieri, oggettivamente irraggiungibile: spessore psicologico dei personaggi, plot e regia. Piccolo miracolo di ironia surreale, Madagascar parte da un assunto comico molto elementare, quello del "pesce fuor d'acqua", del personaggio che si trova involontariamente catapultato in una realtà che non gli è propria, in questo caso un eterogeneo gruppetto di animali selvaggi che, imbolsiti dalla comoda vita da zoo, si ritrovano, senza volerlo, dalla giungla urbana di New York a quella, ancora più frenetica e pericolosa, dell'isola africana. Finezze a parte (la location infatti non è certamente scelta a caso, visto che, proprio in quanto isola, il Madagascar è caratterizzato da una flora ed una fauna complemente diversa da quella africana ed è lontanissima dalla visione stereotipata e tradizionale del continente nero, tanto che, ad esempio, non vi si trovano realmente né leoni, né zebre), la produzione Dreamworks, poggia quasi completamente sui meravigliosi personaggi, cui una sceneggiatura leggera e tagliente conferisce un 'aura quasi mitica ed indimenticabile. L'eterogeneo quartetto di protagonisti (una ippopotama, una zebra, una giraffa e l'inevitabile leone), è decisamente ben caratterizzato sia sotto un profilo psicologico, visto che ognuno ha una caratteristica peculiare (eccezionale la giraffa ipocondriaca) che sotto l'aspetto comico, visto che il team offre una pletora di gag, senza dover ricorrere continuamente alla citazione metacinematografica, tranne che in un paio di occasioni (perlatro molto ben riuscite e divertenti).
La pattuglia "made in Zelig" dei doppiatori (con Hunziker-Ale e Franz-DeLuigi che prendono il testimone da Pinkett Smith-Stiller-Rock e Schwimmer della versione originale) compie un discreto lavoro, anche se, dopo l'agghiacciante performance di Dj Francesco, capace da sola di affossare il successo di Robots nel nostro paese, sarebbe davvero difficile fare peggio. Adesso la palla torna a Pixar, che muoverà la macchine di Cars il prossimo anno e al sequel de L'era glaciale, tuttavia l'estate americana ed italiana è assoluto dominio di Madagascar e del suo folle gruppo di animali.
Un film dal successo garantito grazie a un attento dosaggio degli elementi di cui sopra, ma altrettanto sicuramente fastidioso per quella parte di pubblico che alla terza esibizione coreografica di combattimento aereo non ne può più e non si fa recuperare dalla successiva riflessione parafilosofica sui destini dell'umanità. I fratelli Waxhowski sembrano i fratelli Cohen: cultura in eccesso che però in questo caso cerca un rigore stilistico piu nelle scenografie e nelle luci che nella storia. Che assomiglia pericolosamente a un "prodotto" molto attento, troppo attento, al mercato. Rischiando così di perdere l'anima che nel primo film c'era ancora. Lasciandoci poi ovviamente in attesa dell inevitabile seguito.
Ottima suspense, efficacemente ambientato, con avvincenti scene d'azione. Funziona persino lo scialbo Bruce Willis.
L'operatore e direttore alla fotografia di Luc Besson, Pierre Morel, torna a dirigere un film scritto e prodotto dal maestro francese a quattro anni da District B13, il rocambolesco esordio in lungo. Quando non si è seduto dietro la macchina da presa, Besson ha sempre prediletto l'ironia dell'action movie (fatta eccezione forse solo per Danny The Dog). Tuttavia, con Io vi troverò tenta la carta del thriller e insieme allo sceneggiatore di Karate Kid Robert Mark Kamen, già al suo fianco in Transporter 1, 2 e 3 (di prossima uscita), confeziona uno script "accidentalmente" paradossale. Se, infatti, la presenza nel cast di Liam Neeson e il soggetto gravoso del film fanno sperare in un prodotto autentico, il personaggio interpretato dall'ex Oskar Schindler - che è ritratto come una sorta di antieroe imbattibile e incorruttibile neanche fosse Jack Bauer in 24 - e l'evolversi della trama ne compromettono la natura espropriandolo del diritto di appartenenza al genere. Io vi troverò torna così ad assumere le sembianze del popcorn action movie amato da Besson e trova nella figura di Neeson un volto poco credibile e un corpo impreparato all'azione tutta cazzotti e sparatorie. Se Bryan fosse stato portato sullo schermo da un Bruce Willis i conti sarebbero tornati, ma senza l'ironia di un attore abituato ai tempi "comici" e alla leggerezza del genere finisce per sembrare un prodotto geneticamente modificato.
Josh Boone mette in scena il romanzo di Green con estremo rispetto e in punta di piedi, senza commettere l'errore di alterare fatti o personaggi in funzione del passaggio al grande schermo e senza prendersi libertà autoriali, il che soddisferà i fan del libro ma colloca il film in un terreno di grande (forse eccessiva) cautela. Colpa delle stelle rimane aderente alla parola scritta, al punto che l'eloquio di Hazel e Gus suona talvolta bizzarro quando diventa dialogo cinematografico. In compenso Boone lavora bene sul montaggio e sull'eliminazione di alcune scene ai fini della velocità del racconto, eliminando il superfluo e lasciando intatti i passaggi narrativi e i dialoghi (anche se talvolta spostandoli di luogo o di tempo). Boone usa in modo moderato e intelligente la voce fuori campo di Hazel, che nel romanzo è l'io narrante della storia, e molto del dialogo interiore della ragazza diventa immagine, come si conviene alla narrazione filmica.
Colpa delle stelle cammina con grande cautela sul filo che separa il melodramma dalla commedia romantica, alterna in modo intelligente gravitas e umorismo, pathos e leggerezza. Soprattutto, riesce a non indulgere smaccatamente nei topos di quel nuovo genere filmico (e letterario) che è il teenager cancer romance, ovvero la storia d'amore fra teenager malati (non solo di cancro), nonostante sia ampiamente disegnato per farci consumare svariati pacchetti di kleenex.
Il cinismo insito nella premessa di fare di una tragedia un veicolo commerciale è evitato soprattutto dall'interpretazione dei due attori protagonisti: Ansel Elgort è un Augustus appropriatamente impacciato e spaccone, e centra a perfezione quel sorriso di cui si parla per tutto il romanzo, a metà fra la seduzione e lo scherno. Shailene Woodley è di una dolcezza disarmante e di una sensibilità intelligente immediatamente intuibile attraverso il suo sguardo mobile e attento. Anche l'interazione fra i due attori appare spontanea e naturale, senza eccessive contraffazioni cinematografiche. E il casting di Willem Dafoe nei panni del cinico scrittore Peter Van Houten è un colpo maestro (nonostante la diversità fisica fra l'attore e il personaggio letterario): in poche scene, Dafoe aggiunge tutto il sottotesto doloroso che il romanzo impiega svariate pagine a comunicare.
Peccato per la continua sottolineatura musicale a base di teen soft rock che appartiene più alle dramedy televisive che al grande schermo. Ma è un difetto da poco per un film che soddisferà i fan del best seller letterario, più gratificati dalla fedeltà ai loro "eroi di tutti i giorni" che manipolati dalla macchina hollywoodiana.
Scritto dal produttore John Hughes con un'accorta miscela tra la buffoneria, anche violenta, della farsa slapstick e dei cartoon e il saccarosio della commedia familiare, il film ebbe anche in Europa un successo inatteso e, per le sue proporzioni, inesplicabile. Gli esperti USA stanno ancora cercandone le ragioni, come in Italia per Il ciclone.
Coraggioso nella scelta tematica, discutibile nella sua poco critica esaltazione dell'individualismo e con qualche forzatura retorica, è una macchina narrativa perfettamente oliata che non perde un colpo sino al finale che scalda il cuore, inumidisce gli occhi e strappa l'applauso. Di suo P. Weir ci mette l'abituale misticismo e la sapiente guida nella recitazione dei ragazzi inesperti tra cui spicca R.S. Leonard sebbene solo E. Hawke abbia fatto carriera. Eccellente R. Williams. Oscar per la sceneggiatura di Tom Schulman. Inatteso campione d'incassi 1989-90.
Scritto da Melissa Mathison, non ancora signora Ford, il film di Spielberg si colloca tra i capolavori che non perdono la presa sul pubblico neppure col trascorrere degli anni e si configura come una di quelle opere che hanno mancato gli Oscar principali per insipienza dei membri dell'Academy, non certo per mancanza di meriti. È facile vedere nell'alieno senza età e venuto da non si sa dove sottotesti cristologici (anche se un po' improbabili per l'ebreo Spielberg). Ma non sta in questo il valore del film. Il regista aveva già affrontato la fantascienza con una sua visione personale in Incontri ravvicinati del terzo tipo ma qui intende andare oltre. È la diversità che lo interessa ma nello sviluppare il tema affronta la possibilità che il diverso possa non essere del tutto 'solo'. L'incontro tra Elliott ed E.T. è notturno ed entrambi provano paura nello scoprire il diverso da sé e sconosciuto. Progressivamente quella paura si trasformerà in osmosi e la loro stessa sopravvivenza sarà legata a una dipendenza reciproca.
La sceneggiatura di un film il cui pressoché unico personaggio femminile adulto è quello della madre (peraltro neppure troppo presente) è consapevole di non dover assumere toni predicatori. Ecco allora che, in una delle sequenze di maggior presa sul pubblico, E.T. (pupazzo meccanico realizzato da Carlo Rambaldi recentemente scomparso) si nasconde nell'armadio in cui si tengono i peluche giocando astutamente sull'autoironia spielberghiana. In questo film poi i 'luoghi' del cinema del regista si vanno sempre più definendo. La luce di taglio che entra dalle finestre offrendo una nuova dimensione agli spazi diventa sempre più un marchio di factory. Così come l'incombere delle torce elettriche nella notte alla ricerca dell'alieno, dietro cui stanno ombre e non volti, non può non far tornare alla mente il camion di Duel. C'è poi quella mano dal lungo dito che sa come indicare il cielo per cercare la 'casa' a cui telefonare ma che sa anche illuminarsi per guarire o toccare qualcuno nel profondo. Le mani che si uniscono, marcando così la solidarietà, diventeranno da allora uno dei segni favoriti di Spielberg fino al punto di divenire il manifesto di Schindler's List e sottolineando come l'alieno sia spesso più vicino a noi di quanto noi stessi non pensiamo. Non è un caso che, dopo la parentesi del secondo Indiana Jones, il film successivo di Spielberg sia stato Il colore viola.
I celebri robot trasformabili amati dai ragazzini di tutto il mondo di qualche decennio fa approdano finalmente al cinema nel primo lungometraggio live che li vede in azione. Prodotto da Steven Spielberg e diretto da Michael Bay, Transformers mantiene le promesse (non mostrate nei trailer) offrendo più di due ore di puro intrattenimento con sequenze spettacolari eseguite ad alta velocità. La storia di Sam (Shia LaBeouf) e del suo amore segreto per la bella Mikaela (Megan Fox) fa solo da contorno alla trama che ha come punto focale l'arrivo degli "ENB" - extra terrestri non biologici - sulla terra. Il film si divide in tre atti. Nel primo atto assistiamo allo scontro tra i Decepticons e le forze militari, nel secondo viene mostrato l'incontro del giovane protagonista con gli Autobots e nel terzo viene messa in scena la battaglia tra Decepticons e Autobots. Un gran finale che ha il pregio di non risolversi in poche battute ma di prolungarsi per dare spazio all'azione senza cali di tensione. La "guerriglia urbana" filmata con la macchina a mano replica le inquadrature di guerra reale, neanche fosse stata girata nel caldo luglio genovese del G8. D'altronde Bay ha incentrato tutta la sua carriera sugli action movies e non è nuovo agli effetti speciali avendo firmato The Rock, Armageddon e Pearl Harbor. Né lo è Spielberg, menzionato in maniera più o meno subliminale e a più riprese (Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T. - L'Extra-Terrestre). La differenza tra Transformers e i precedenti film del regista californiano la fa il totale impegno da parte di tutto lo staff - la Industrial Light & Magic in primis, che ha saputo ricreare sul grande schermo la spettacolarità delle trasformazioni - l'interpretazione di Shia LaBeouf, sempre più convincente nei ruoli da protagonista, e di John Turturro, stavolta impigliato nei panni di un agente segreto molto particolare.
Premiato da grandi incassi e 2 Oscar per le musiche, è il 31° lungometraggio a disegni animati della Disney. Effetti speciali di ogni genere, esibizione tecnologica, ridondanza virtuosistica, zapping vertiginoso, orgia cinematografica di citazioni. È un film per adulti camuffato da fiaba per bambini dove, qua e là, l'antropomorfismo diventa poesia. Ma la vera ragione d'essere del film è il Genio, che nella versione italiana ha la voce dell'ottimo Luigi Proietti. Tra scopiazzature e prestiti da Superman, Indiana Jones e Guerre stellari della fiaba originale è rimasto poco.
C'è tanto materiale narrativo dentro Cattivissimo Me 2, c'è la spy-story, la love-story, ci sono gli zombie, il vaudeville, c'è la bimba che vuole una mamma e il papà che non vuole che la piccola cresca. Un accumulo di materiale che, nonostante il montaggio sapiente, vivace ma non caotico, a tratti dà l'impressione di voler supplire con la quantità ad una qualità - quella dell'originale - difficilmente replicabile. Manca lo spettacolo di personaggi ebbri di egoismo come la madre di Gru o il viziato Vector, di fronte al quale il villain di questo capitolo appare decisamente più tradizionale e prevedibile. Manca, soprattutto, il dissidio interiore che lacerava il protagonista nel 2010, quando un tutù rosa, un paio di occhialetti rotondi e un berretto calato sugli occhi mettevano clamorosamente e improvvisamente in discussione la sua stessa natura e i principi sui quali si era costruito una carriera e un'esistenza, mescolando alla commedia un alto tasso di sentimento.
Eppure, nonostante queste mancanze si sentano, da cima a fondo, il secondo capitolo ha una forza comica irresistibile, una batteria inesauribile di gag e, ciò che più conta, una coerenza di fondo con il percorso precedente, pur presentandosi con gambe proprie, perfettamente in grado di sostenerne l'autonomia. Gru non è cambiato: è più fedele che mai alla scelta che ha fatto di dedicarsi alla paternità prima che al resto; e così non sono cambiate Margo, Edith e Agnes, che si sono limitate a crescere, ma non hanno smesso di unire le forze per offrire al padre ciò di cui ha bisogno, anche se ancora non lo sa.
All'interno di un quadro narrativo meno originale, e in gran parte ricalcato sulla sequenza del primo film, Cattivissimo Me 2 è dunque e comunque uno spettacolo che non annoia mai un minuto, che diverte senza se e senza ma, e ribadisce la felicità creativa delle coppie Chris Renaud-Pierre Coffin alla regia e Cinco Paul-Ken Daurio alla sceneggiatura.
Dopo il fulminante I soliti sospetti e l'interessante ma non sconvolgente L'allievo, Bryan Singer vede finalmente il colore (abbondante) dei soldi di una megaproduzione. La domanda legittima avrebbe potuto essere: avrà venduto l'anima al diavolo (la cui presenza torna in tutti i suoi film)? La risposta è no. Pur maneggiando effetti speciali ad alto tasso di spettacolarità non rinuncia a proseguire un proprio percorso di autore. Eccolo allora lavorare ancora sull'ambiguità, sulla difficoltà di distinguere il Bene dal Male. La mutazione non diventa occasione di dibattito ma resta elemento per 'fare cinema' in un film in cui l'umanità sta sullo sfondo e lo scontro si svolge tra esseri che hanno delle potenzialità che ai 'normali' fanno solo paura.
Dentro un mondo futuribile e una scansione rigorosa degli spazi (il dentro e il fuori, il sopra e il sotto), Andrew Niccol si interroga sul nostro esserci in un orizzonte di senso in cui l'uomo ha definitivamente cessato di essere natura per diventare merce, trattabile e scambiabile sul mercato della vita. Come Gattaca quindici anni prima, In Time abita una società che contempla due classi e mutua i 'validi' e i 'non validi' in 'immortali' e 'mortali'. La prima classe è quella degli eletti, la seconda è quella dei dominati, dove si producono inevitabilmente l'antidoto e la turbativa. Alla maniera di Ethan Hawke, Justin Timberlake incarna l'impresa impossibile di un mortale che, destinato a una previsione di vita di pochi anni e poca speranza, si ribella al suo destino e a quello dei suoi simili attaccando letteralmente il cuore degli immortali. La sua inquietudine febbrile e il suo agire precipitoso, che contraddicono il muoversi flemmatico degli immortali, non mancano di colpire e innamorare l'algida bellezza di Amanda Seyfried, che fa il paio con quella 'artificiale' di Uma Thurman.
L'ereditiera del tempo, figlia irrequieta del mad man Vincent Kartheiser, imparerà a frequentare i sentimenti e a trasformare la nostalgia della vita in vita tra le braccia di un eroe popolare e sotto un carré rosso, fissato e resistente all'acqua e alle fughe. E se idealmente prossimo a Gattaca è pure il patto 'di sangue' tra il protagonista e un immortale che gli cederà generoso il secolo accumulato e il suo posto tra i privilegiati, In Time scarta la riflessione genetica a favore di quella socio-economica, muovendosi in quartieri abbandonati al loro destino di miseria endemica.
Niccol aggiorna il suo cinema alla crisi economica e alle logiche stringenti che si sono affermate nel mondo contemporaneo, focalizzando la sua attenzione sulle speculazioni e sul ridimensionamento del singolo davanti agli organismi di potere sempre più estesi e transnazionali. La teoria del film, come la sua materia, è manifestazione dell'umanesimo che resiste al culto del capitale e dell'accumulo 'temporale', misurando la disuguaglianza sociale. Il regista scrive, dirige e produce per questo un ribelle che insorge per rivendicare il valore dell'autodeterminazione politica degli individui e per manifestare il bene come forza materiale, fisica, determinante la vita, determinante per la vita.
Will è l'imprevisto che non si può impedire, è una corsa contro il tempo (ma per il tempo) che sfugge al controllo e ai controllori, è la peripezia dell'abbraccio, è un corpo abbracciato e da abbracciare per sentire finalmente il mondo nella propria carne.