_Jordan Peele_ - uno dei registi da cui mi aspetto di più nel genere horror insieme ad Ari Aster, visti i lungometraggi diretti.
Penso che la prima cosa da dire sia che è **impressionante** come un regista al suo esordio dietro la cinepresa, con nessun background nel genere horror, riesca a sfornare un film del genere.
E per _un film del genere_ intendo una pellicola solida, ben costruita e che riesce nell'intento di inquietare.
Certo non si può dire brilli di originalità (protagonista intrappolato in una casa, scienziato che sperimenta su persone, ...) però si redime da ciò inserendo delle (neanche tanto) nascoste riflessioni sociali e dettagli splendidi, quali l'utilizzo dello slang tipico delle comunità nere americane negli USA, usato dal protagonista ma non dai 'falsi' (in lingua originale, naturalmente).
Gli elementi che mi fanno pensare _"ok, questo è da tenere d'occhio."_ sono sicuramente gioielli quali le scene della psicoterapia e della tazzina da tè.
Da non sottovalutare anche la performance attoriale di Daniel Kaluuya.
Ottimo!
La trilogia di Suzanne Collins, che biasima la società dello spettacolo e sottrae ogni alibi e pretesa innocenza alla nostra identità di spettatori, è giunta sullo schermo al suo secondo atto, riprendendo il respiro là dove l'aveva trattenuto. Un anno e un'edizione dopo gli hunger games tornano nell'arena per smascherare il vuoto che ci resta al di là del pieno della televisione. Al centro brilla la loro stella più luminosa, archetipo eroico, quello della guerriera, ridotto a meccanismo ludico. Ritrovati Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson, Francis Lawrence succede a Gary Ross, ribadendo con lo spettacolo la dimensione morale. Meno risolto e coerente del primo, Hunger Games: La ragazza di fuoco è nondimeno un efficace episodio di passaggio che si fa carico delle premesse del primo, sottintendendo la rivoluzione e preparando l'epilogo. Intrepida e rutilante, Jennifer Lawrence incarna ancora una volta il sacrificio e ancora una volta lo rimanda, permettendo a chi la osserva, al di qua e al di là dello schermo, di ragionare sullo spettacolo come linguaggio in grado di mettere in circolo il potere. Katniss, attrice condannata a essere solo un oggetto scopico passivo, rivendica adesso il diritto a ritornare soggetto dentro una sequenza di grande bellezza, in cui sfonda il confine del mondo (artificioso) e rivolge il proprio sguardo sulla rappresentazione che contribuisce a realizzare. Sorteggiata per innescare la paura e il consumo, l'eroina di Suzanne Collins ispira la rivoluzione e come il guerriero di De André tira una freccia al cielo per farlo respirare. Di là poi c'è il buio che chiude sui suoi occhi spalancati e promette un posto in cui (ri)nascono le immagini. Perché quello che può spezzare la catena è la capacità (e la volontà) di riconquistare la propria immagine. Per sé e per il popolo di Panem, che ha declinato lo speculare circenses, dove i suoi figli vengono mietuti e 'tributati' senza onore al pubblico di Capitol City. Blockbuster 'di cuore', pieno di trucchi e di sorprese, feste pirotecniche e meraviglie barocche, Hunger Games: La ragazza di fuoco è una fantasmagoria costruita sulla produzione di morte 'vera'. Morte che ci attrae nella sua barbarie, che ci inchioda proprio come accade con il film di Francis Lawrence. Cinema della cattività, che aspira a realizzare una parabola fantascientifica sullo spettatore e sul bisogno di fruire sempre e solo di un'eccitazione continua. Il bello e il vero sono appannaggio di Katniss, che ha frecce al proprio arco per ridiventare soggetto di visione.
Da un romanzo di Stephen King.Il miglio verde è, in slang, il percorso dei condannati a morte. Soggetto che ha sempre un forte appeal cinematografico. Tutto gira bene, del resto King ha spalle talmente robuste da sostenere anche qualche lentezza di troppo. Hanks, come sempre, è un protagonista credibile, appassionato e appassionante.
A Marc Webb l'arduo compito del reboot di un prodotto cinematografico del quale eravamo già pienamente soddisfatti, grazie alla recente trilogia di Raimi: inutile mettersi a farne un calco, difficile evitare le sovrapposizioni, dato il comune testo di partenza. Che fare? Forse la risposta va cercata nel poster di Einstein che campeggia in casa di Peter Parker e reca la famosa frase secondo la quale "l'immaginazione è più importante della conoscenza". Poco importa, sembra dire Webb, se la storia è nota, si può ancora reinventare ogni cosa. Verso la fine il film tornerà su questo concetto, durante una lezione scolastica, quando si premurerà di ricordare che c'è chi sostiene che al mondo esistano solo dieci storie ma forse ce n'è addirittura una soltanto, che coincide con la domanda identitaria: chi sono io. Webb e sceneggiatori immaginano dunque un Peter diverso, non più un emarginato ma un ribelle, quasi uno snob in erba, che non viene morso per caso ma va di sua iniziativa là dove l'impossibile può accadere, quasi sperandolo, e non teme la propria trasformazione ma ne è immediatamente soddisfatto e consapevole. Non sono sfumature: proprio perché ridefiniscono l'identità del protagonista di fatto ridisegnano completamente il quadro.
Al romanticismo, all'aspetto ludico e all'immaginario cartaceo dei film di Raimi (nel senso della carta dei fumetti ma anche di quella fotografica e di giornale) si sostituisce una visione attualizzata, meno tormentata ma più realistica, il cui immaginario di riferimento è esclusivamente cinematografico e nemmeno rétro. Sfortunatamente, le idee visive scarseggiano, se si eccettua il passaggio forse volontariamente ridicolo dalle squame del branzino alla pelle di Lizard, il gigante distruttore, o la scena dell'infilata di gru, che vorrebbe dare un senso al 3D, ma occorre accantonare ogni confronto col pregresso o non si uscirà dalla spirale ingannevole della falsariga (e qualcosa c'è, di obbligato, come il "non è una scelta, è una responsabilità" a rimpiazzo di "grandi poteri, grandi responsabilità").
Amazing è una parola grossa, che non calza bene al film in questione, ma Spider-Man ha avuto tante vite e il suo giro dentro il costume rosso e blu, in fondo, se lo è meritato anche Andrew Garfield.
Il cinema di animazione sta vivendo i suoi anni migliori: finalmente sdoganati (anche se c'è ancora molto da fare) i grandi maestri nipponici, tramontata la stella delle due dimensioni disneyane, sul campo di battaglia dei botteghini imperversa, furiosa, la lotta tra i colossi Pixar e Dreamworks per il predominio sul boxoffice. La contesa ha visto finora prevalere il colosso di Geffen e Spielberg, grazie alla mirabolante performance estiva di Shrek, che col secondo episodio, ha sfondato quota 430 milioni di dollari. Gli incredibili, pur graziato da un'ottima partenza (70 milioni, coi quali ha già quasi coperto i costi di produzione), non supererà la seconda puntata delle avventure dell'orco più famoso al mondo, almeno quanto ad incassi, ma segna inequivocabilmente una tacca (anzi, più di una) a favore di Pixar, sotto tutti gli altri aspetti.
In due parole, passi l'ovvio gioco di parole, Gli incredibili è un film incredibile.
Incredibile è infatti la capacità di Pixar di riuscire a sfruttare i topos classici del film con supereroi e di stravolgerli, creando una materia nuova, nella quale aggiungere elementi atti a stupire e affascinare lo spettatore. A differenza di Shrek 2, ad esempio, dove la struttura di base viene mantenuta ed ampliata, con più gag, più slapstick, più strizzate d'occhio al pubblico e qualche concessione di troppo alla "battuta scatologica", Gli incredibili cerca di creare un proprio percorso, abbandonando le certezze tipiche della classica pellicola di animazione americana. Stavolta andiamo oltre le mere citazioni "cinefile", che peraltro abbondano, e non sono solo visuali ma graziano anche il comparto... uditivo, ma parliamo in senso compiuto di regia, movimenti di macchina, espressioni dei personaggi, scelte stilistiche inerenti i costumi, le scenografie, insomma tutto quello che caratterizza un film "con attori in carne ed ossa". Esemplare, in questo senso, la scena delle dimissioni di Bob Parr/Mr. Incredibile, dalla ditta di assicurazioni in cui lavora suo malgrado: il contrasto cromatico tra le grigie, fredde pareti, e lo sgargiante caleidoscopio di colori che si apre una volta che l'eroe ha smesso i panni del travet, i movimenti di macchina, che indugiano su dettagli di apparentemente scarsa importanza, ma di grande valenza simbolica, i tempi dell'azione e dei dialoghi, perfetti, mai troppo dilatati, né frettolosi: cinque minuti di assoluta perfezione contenutistico/formale, racchiusi in due ore di grande cinema (eh si, stavolta i tempi si allungano... ma scorrono che è un piacere).
Brad Bird, già autore del superbo Il gigante di ferro, e di alcune puntate della serie dei Simpson (e si vede... il gusto cinico di alcuni momenti del film, in particolare la "sagace" spiegazione sul perché i supereroi NON DEVONO mai indossare un mantello, ha un marchio di fabbrica inconfondibile), firma il suo capolavoro, riuscendo a dare uno spessore insolito a personaggi che, paradossalmente, sono molto convenzionali nel loro essere "altri" rispetto alla massa.
Nella prima parte del film, più lenta, si ride, certo, ma a volte si ride amaro, osservando la grigia vita del supereroe costretto alla pensione anticipata, ma ancora voglioso di aiutare il prossimo. Tutta l'azione, e che azione, è concentrata nelle fasi finali, in cui il montaggio, frenetico, la fa da padrone.
Strepitoso, stavolta bisogna ammetterlo, il doppiaggio italiano: spendiamo due parole in più per la geniale idea di affidare un personaggio minore (ma di fondamentale importanza nell'economia della storia, la stilista "di supertute" Edna) ad Amanda Lear che la "vive" in modo impeccabile: ogni minuto in cui l'attrice è in scena, è un minuto durante il quale Gli incredibili guadagna peso nella storia del cinema. Raramente si era visto un personaggio così ben caratterizzato ed efficace nel riprodurre i tic, le nevrosi, gli stati d'animo classici e persino la postura, del suo mondo di provenienza. Niente da dire (o meglio, ce ne sarebbe, ma oramai le lodi sono pleonastiche), sul commento musicale, un mix di jazz, swing e temi epici, che richiama i primi Bond, e tutto lo scibile dei film di spionaggio ed avventura anni '50.
Acutissima analisi dello stereotipo "supereroe con super problemi", dotato di una storia semplice ma al tempo stesso appassionante e ricchissima di colpi di scena e capovolgimenti di fronte, Gli incredibili rappresenta il vertice della produzione Pixar, ed in assoluto, uno dei migliori film di animazione di tutti i tempi. Noi lo premiamo ora, Natale ed il pubblico faranno il resto...
Senza rivoluzionare l'immaginario della science-fiction, l'autore canadese evoca un concetto e gli dona una forma. Dalle parti di Spielberg (Incontri ravvicinati del terzo tipo) e di Zemeckis (Contact) piuttosto che dei blockbuster di Roland Emmerich, Arrival non affronta la questione della fine del mondo, niente battaglie sanguinose o confronti militari, uomini e alieni questa volta provano a comunicare e a comprendersi.
Se il tema è dato (e visto), Villeneuve aggiunge una dimensione supplementare interrogandosi sulla nostra maniera di comunicare. In attesa di ultimare il sequel di Blade Runner, debutta nel genere e realizza un dramma fantascientifico intimo che contempla il côté umano, già al cuore di Gravity e di Interstellar.
Giocato sin dal titolo e dal trailer sull'archetipo milleriano dello scontro fisico tra i due supereroi, Batman v Superman tiene fede all'ordinamento tra i due, che non è tale solo in senso alfabetico. Il punto di vista scelto da Snyder, nonostante la serie sia stata rifondata con l'Uomo d'Acciaio, è infatti quello del Pipistrello. Suo l'incipit - che ci riporta ancora una volta all'uccisione dei due Wayne, topos così usurato da costituire omaggio o meta-narrazione a seconda dei casi -, sua la visione del disastro che si abbatte su Metropolis, suo il dubbio che lo porta vicino a un deicidio degno di Caifa, sua infine la riflessione della coscienza collettiva. Un Batman mai così consapevole del proprio ruolo di super-uomo nel senso di miglior rappresentante della razza umana, dove Superman, colui che è letteralmente super-uomo, resta, nel bene e nel male, altro, diverso, alieno. Il suo ingresso in scena avviene ai margini dell'inquadratura, dopo uno scontro letale in fuoricampo; i suoi pensieri sono intuibili ma distanti, legati al "suo mondo", quello che Kal-el porta nel "nostro", rischiando involontariamente di distruggerlo. Un dilemma tra l'umano e il divino che avvicina Superman ai due Watchmen Ozymandias e Manhattan, scissi tra la volontà di aggiustare i destini dell'uomo da demiurghi e di disinteressarsene scegliendo l'esilio. Bontà e onnipotenza, dice Lex Luthor (reinventato in chiave millennial di Noah Baumbach, desideroso di uccidere i propri idoli e di fare tabula rasa), non possono coesistere. Benché Superman appaia più benevolo di un Batman nero e spietato come fu per Frank Miller, un vigilante che uccide senza scrupoli e picchia con un pugno che pare un maglio. Ma nonostante ci terrorizzi, è lui a comprenderci, è il Pipistrello a farci dormire tranquilli la notte.
Snyder pensa prima di tutto a eseguire il compito assegnatogli, quello di spettacolarizzare al massimo - un fracasso mai visto con il Dolby Atmos - i grossi calibri dell'universo DC e preparare la strada alla Justice League, pronta a opporsi cinematograficamente agli Avengers della Marvel (e solo così si spiega la pleonastica presenza di Wonder Woman). È così diligente in questo il regista, da sperperare spunti di grande interesse, come quelli succitati o il nuovo ruolo dei media, con la notizia istantanea catturata dai video contrapposta alla macchinosa obsolescenza del Daily Planet, quotidiano che fatica a ritrovare un suo ruolo ("Non siamo più nel 1938 (...) i giornali non li compra più nessuno!"), proprio come il suo "dipendente" superumano. Ma come per i supereroi, che devono in pochi secondi prendere decisioni da cui dipende il destino del mondo, così per Snyder la priorità era un'altra. Schiaffeggiare con un guanto di sfida la Casa delle Idee, ricordando che l'America ha iniziato da qui, dal Dio tra di noi e dall'Uomo che veglia su di noi.
Tutto considerato, e dovendo amalgamare materia così eterogenea, l'Alba della Giustizia dirada un po' di foschia.
Inarritu prende in carico il progetto che in prima battuta doveva essere di John Hillcoat e mette in scena un film quasi essenziale rispetto all'arabesco formale e narrativo che è stato spesso la bandiera del suo cinema: un film che ha la pretesa di affondare il coltello (e sono tanti gli affondi di lama) niente meno che nell'essenza, appunto, della natura dell'uomo.
L'universo di Revenant - Redivivo è un universo manicheo: c'è la neve che gela e c'è il fuoco che scalda; c'è il rispetto della parola data e c'è il tradimento; infine, e soprattutto, ci sono due idee di uomo: quella incarnata da Glass, cui fanno da specchio altre figure, più attutite, e quella rappresentata da Fitzgerald, per cui Dio è un scoiattolo che compare quando ne hai più bisogno, e va divorato in fretta, senza pensarci su.
Una persona sola intrappolata in una situazione all’apparenza senza scampo dalla quale può uscire solo facendo affidamento sulle proprie forze, un aiuto che giunge insperato, un sentimento forte che aiuta a superare le asperità: dopo il raffinato gioco psicologico e teatrale di ‘Birdman’, Iñárritu affronta i grandi spazi in un epico filmone di oltre due ore e mezza intrecciando alcuni temi classici del western (la fellonia e la conseguente rivalsa) assieme al racconto di sopravvivenza. Alla base della storia sta l’avventura di Hugh Glass, lasciato per morto sull’alto corso del Missouri in seguito all’assalto di un orso – molto bella la costruzione dell’intera scena con il bestione che sbatacchia il buon Leo qua e là - ma capace di cavarsela malgrado le ferite e il gelo invernale: il regista e il co-sceneggiatore Mark L. Smith ci hanno aggiunto un figlio mezzosangue (Forrest Goodluck) ucciso dal cattivo di turno Fitzgerald per alimentarne il desiderio di vendetta in un universo popolato di uomini brutti, sporchi – chi volete che si lavasse con delle temperature del genere? - e cattivi. E’ lampante il contrasto tra una natura bellissima e incontaminata (location in Canada e in Argentina visto che, a furia di tirarla per le lunghe, è arrivato il disgelo) e gli esseri umani, minuscoli al confronto, che si dibattono guidati dall’avidità: per i bianchi ogni comportamento è ammesso allo scopo di mettere le mani sui guadagni assicurati dal mercato delle pellicce e i francesi sono quelli che ci fanno la figura peggiore. Il più distaccato di tutti, anche perché segnato dalla vita negli affetti più intimi, è quello che è costretto ad affrontare l’esperienza più severa: in prolungate sequenze in cui al più viene pronunciato qualche grugnito, Glass prima si trascina, poi barcolla infine percorre la via del ritorno sostentandosi con il poco che si trova nell’ambiente ostile, dalle radici al fegato crudo di un bisonte. Quando alla fine ritrova Fitzgerald, lo scontro si risolve in una lotta bestiale che richiama quella avuta con il plantigrado dato che l’umanità è in entrambi quasi cancellata tanto che la conclusione è tutto meno che liberatoria. Nei suoi panni, DiCaprio riprova per l’ennesima volta la scalata all’Oscar sottoponendosi a una serie di prove estreme (incluso, pur essendo vegetariano, mangiare il sullodato organo interno) e riuscendo a rendere con l’espressione, giacchè le parole sono ridotte al minimo, le sofferenze fisiche e mentali di un personaggio che però, per colpa della scrittura e non sua, non può essere definito a fuoco: l’interpretazione è così un’ulteriore conferma delle capacità dell’ attore ma, nel complesso, si fatica a capire per quale motivo dovrebbe arrivare dove non sono giunte quelle più rimarchevoli del recente passato. Al suo fianco, è davvero notevole il lavoro di Tom Hardy nele ritrarre un Fitzgerald ben più sfaccettato, pieno com’è di doppiezze e piccole vigliaccherie, mentre non sono certo da dimenticare l’ennesimo ruolo convincente di Domnhall Gleeson come capitano della sfortunata spedizione e Will Poulter che incarna la difficoltà di scegliere del giovane Bridger. Tutti, pare, messi a dura prova dalla complessa lavorazione, prolungata dalla decisione del regista di girare con la luce naturale: le poche ore a disposizione sono state sfruttate in modo mirabile da Emanuel Lubeszki che riesce a trasportare lo spettatore in un mondo lontano nello spazio e nel tempo (si sfiorano i due secoli, ormai). Sulla base di tali immagini, Iñárritu costruisce un film con meno alzate d’ingegno rispetto al precedente, sebbene non rinunciando a una componente onirica che a volte risulta un po’ forzata: per il resto, a parte un pugno di piani sequenza verticali, la narrazione si mantiene entro canoni più tradizionali, eppure – anche grazie all’incastro delle vicende dei vari personaggi – non ci sono momenti di stanca che appesantiscano il passo calibratamente cadenzato. Il risultato è un’opera molto legata agli schemi holliwoodiani seppur ravvivata da numerose pennellate d’autore: non all’altezza di ‘Birdman’, ma comunque un’avventura appassionante raccontata in modo mai banale.
Subito una citazione per lo sceneggiatore Andrew Nicol, davvero geniale in certe soluzioni. Idea centrale straordinaria, con tanti bei manifesti e simboli: i media sono ormai tanto invadenti da non essere più passatempo, ma tempo, ma forse, ci possiamo ancora salvare. Proprio per tutti questi contenuti il film si rivela uno splendido esercizio, una rivisitazione avanzata della parabola del grande fratello. E proprio per questa ragione è inevitabilmente costretto ad essere freddo, e più adatto a un dibattito per addetti che al popolo del cinema.
Non sarebbe corretto citare la Trilogia dell'Anello per introdurre l'adattamento del primo libro di narrativa di Tolkien, che la precede di parecchi anni nella realtà e ancora di più nella finzione, se non fosse che è Peter Jackson stesso a farlo, inscenando una breve cornice nella quale Elijah Wood compare come traghettatore e tramite tra le due esperienze cinematografiche. E qui occorre fare una premessa, che contiene un appello. Se nel Signore degli Anelli il materiale per una trilogia c'era tutto - tanto che persino il romanzo era stato diviso in tre volumi prima di riconquistare l'unità voluta dal suo autore - nel caso dello Hobbit non si può dire lo stesso.
Più breve, leggero e non ancora carico di quell'epica e di quello straordinario lavoro sulla lingua e sul mondo che è la cifra della produzione a venire, Lo Hobbit, per soddisfare la misura scelta dei (prima due e poi) tre lungometraggi, ha richiesto un lavoro di sceneggiatura inedito, che, per i non filologi, non è di per sé una cattiva notizia (la parentesi bucolica con Radagast, per esempio, è "potteriana" ma affatto malvagia), peccato però che la cornice scricchioli e che questo primo film conti nel complesso un'unica sequenza realmente meritoria: l'incontro di Bilbo con Gollum. Qui c'è tutto quello che il film poteva essere e non è: il duetto tra due grandi attori, un dialogo finalmente brillante, la stretta dell'avventura e dell'ignoto, la necessità narrativa allo stato puro (con la comparsa dell'anello). Altrove, purtroppo, Jackson lotta invano per portare Lo Hobbit al regime di grandeur del Signore degli Anelli senza possedere gli strumenti di base per farlo, vale a dire un racconto altrettanto complesso e dei personaggi adatti. L'appello, allora, per non restare schiacciati dalla delusione, è quello di attendersi altro, di non cercare un prequel laddove non c'è e non ci dovrebbe essere, ma sfortunatamente il film non aiuta in questo senso e anzi confonde, tentando per esempio di calare a tratti la carta dell'umorismo su un tavolo troppo rigido e serioso per saperla accogliere.
Come se non bastasse, la tecnologia avanguardistica del 3D a 48 fotogrammi al secondo sortisce un risultato controproducente: l'altissima definizione azzera la magia della patina cinematografica, trasformando la profondità di campo in una sorta di effetto pop up che ricorda paradossalmente gli incerti effetti speciali d'antan dei film di fantascienza degli anni '50/'60 o, più tristemente, le ricostruzioni televisive che conducono dentro l'infinitamente piccolo/grande. La sovrapposizione di un'immagine apparentemente artefatta su un racconto totalmente fantastico crea così una spiacevole saturazione e fa rimpiangere la precedente incursione di Jackson nella Terra di Mezzo, che invece brillava proprio per lo straordinario realismo. Poi l'occhio si abitua o la sceneggiatura migliora, di fatto il Viaggio Inaspettato si alza a fatica in piedi, ci mostra un occhio, giusto il tempo di acchiapparci per assicurarsi che non ci perdiamo la coda.
Al di là dei costi (107 milioni di dollari, riprese a Malta, in Marocco, la foresta di Bourne Woods in Inghilterra), del dispiego di effetti speciali computerizzati e del can-can plurimediatico, il megafilm della Dreamworks (Spielberg & Co.) è una parabola fantastorica sulla società dello spettacolo e sull'uso dello spettacolo che il potere _ tutti i poteri, anche religiosi _ ha fatto per suggestionare e dominare le masse. La sua inattendibilità storica è esplicita ed esibita nei personaggi, nelle scene, nei costumi: nell'itinerario di Scott si collega, nel bene e nel male, a Blade Runner e Alien. Altrettanto espliciti sono i suoi meriti (l'interpretazione del poliedrico neozelandese Crowe; la furente battaglia iniziale, cioè l'ordine del dominio contro il caos della ribellione; i combattimenti nel circo dove eccelle il talento di Pietro Scalìa al montaggio) e i suoi demeriti (anacronismi, scritte latine sbagliate, banalità nella sceneggiatura di David H. Franzoni e soci). Critica divisa: trionfo spettacolare del postmoderno o finto cinema che punta al solleticamento del nervo ottico? 5 Oscar: miglior film, Crowe, costumi, effetti speciali e suono.
Al quarto lungometraggio la Pixar raggiunge il proprio zenith espressivo (confermato subito dopo da Alla ricerca di Nemo e Gli incredibili), mescolando un umorismo potente e sempre originale ad un sentimentalismo inavvicinabile anche per il cinema drammatico (l'immagine che chiude il film è tra le più poetiche e delicate di tutti gli anni 2000), continuando a puntare, come farà anche nei film successivi, su una coppia disfunzionale di protagonisti. Mike e Sulley dovranno prima gestire la bambina, poi cercare di liberarsene e infine riportarla sana e salva nel suo mondo. Dunque il modello dichiarato fin dai titoli di testa è il cinema degli anni '60 e in particolare le commedie fantastiche in cui dei ragazzi entrano in contatto con un mostro/alieno/entità soprannaturale da celare al resto del mondo e poi liberare (il medesimo modello alla base anche di E.T.), non a caso tutta la prima parte è orchestrata come un film adolescenziale, con la Monster's & Co. a fare da scuola, i direttori a fare da professori/presidi, le ragazze incontrate nei corridoi, le rivalità e le scene negli spogliatoi con gli armadietti. Il divertimento è tutto nella doppia dinamica del ribaltamento (nel mondo dei mostri le creature orrende che lo abitano sono terrorizzate dai bambini) e nel tipico adattamento pixariano di personaggi, luoghi e consuetudini umane nel corrispettivo mostruoso.
Nella seconda parte invece prende piede lo specifico dello studio, uno svolgimento dinamico che si fa forza dello spostamento, tradotto in una lunga corsa che (prima dello showdown finale con la bellissima sequenza delle porte) ha il suo culmine nel più classico esilio, ovvero quel momento che ricorre spesso nei film scritti da Andrew Stanton, in cui i personaggi di colpo si trovano separati dagli altri da una distanza per loro incolmabile e alla concreta impressione che tutto sia perduto si affianca una sensazione di solitudine ed ostracizzazione dal proprio mondo che nessuno aveva mai approfondito tanto, specie in film per l'infanzia.
Alla luce dei lungometraggi seguenti è impossibile non notare la coerenza con la quale, fin dagli inizi, la Pixar persegua una politica di svelamento delle verità attraverso il video. Solo quando vede se stesso attraverso la mediazione audiovisiva Sulley capisce quanto sia sbagliato ciò che fa, alla stessa maniera in cui Woody comprendeva le sue origini via tv Toy Story 2, Eve comprenderà l'amore di Wall-E rivedendo i propri ricordi registrati, Elastigirl i desideri del marito in Gli incredibili e via dicendo.
Rieditato in 3D a poco più di dieci anni dall'uscita originale, il film di Docter, Unkrich e Silverman è aggiornato anche nella risoluzione. Se il secondo processo non può che aver fatto bene sono più legittimi i dubbi sul primo. A differenza di quanto accaduto con Alla ricerca di Nemo, la dimensionalizzazione di Monsters & Co. lascia abbastanza indifferenti. Ambientato più che altro in luoghi chiusi e ambienti stretti, il film si presta poco al processo eppure anche le scene di più ampio respiro (l'inseguimento sulle porte) non sembrano beneficiare della terza dimensione.
A un primo sguardo Gone Girl sembra una corsa contro l'evidenza. Una corsa per scoprire le ragioni della sparizione di Amy e per dimostrare la colpevolezza di Nick. Perché lui ha tutta 'l'aria' del colpevole. Almeno per la polizia, che cerca indizi e accumula prove, per l'anchorwoman più famosa d'America, che sottopone a un'analisi impietosa la sua vita, per i vicini, che giurano al solito di aver visto e sentito, sicuramente per Amy, che gli ha dichiarato guerra prima di scomparire, formalmente per David Fincher, che orchestra nel tempo di un'ora un thriller meticoloso, un gioco di piste, di cinismo, di follia, di fragore mediatico, di illusione romantica. Ma poi, nell'ora e mezza restante, l'autore ridistribuisce le carte e avvia un nuovo film, una commedia esistenzialista e bicefala che alterna i punti di vista e rivela, dietro la messinscena para-hitchcockiana, il grado zero di una coppia e di un matrimonio dominato dalla paura, il sospetto, il tradimento, il rimorso, la rivalsa. Come la protagonista di Kim Novak anche Amy vive due volte. La bionda (e ideale) spirale dei suoi capelli nel prologo diventa segno del film e tono del film. Accarezzata dallo sguardo di Nick, la testa di Amy dissimula cose che lui vorrebbe talmente conoscere che si decide ad aprire la 'scatola'. L'ultima volta che un protagonista di Fincher ha guardato sul fondo della scatola è stato in Seven, un noir cupo di cui Gone Girl replica il gusto per la messa in scena, la scelta cromatica e l'iniziazione alla verità attraverso la creazione di un mondo parallelo. Un delirante disegno che pone il protagonista di fronte alla necessità di compiere una scelta precisa e irreversibile, una scelta traumatica che gli (ri)apre gli occhi. Per Fincher la strada verso la realtà sperimenta sempre la violenza ed è segnata dal sangue, dalle ferite, dai lividi, quando non dalla morte. Amy e Nick sono come ogni altro personaggio di Fincher figli del loro tempo. A ribadirlo è il regista di The Social Network, una tragedia geek che insieme a Gone Girl dice di noi e della nostra esistenza passata a costruire un'immagine pubblica conveniente. Nella rete (sociale), nella vita reale, nel matrimonio. Amy e Nick fingono superbamente di non vedere che il loro piacere narcisistico è compreso nello sguardo degli altri, nello sguardo di chi li osserva, figuranti frustrati dalla loro felicità senza nubi. Ma alla maniera dei film di Fincher, Gone Girl interrompe la narcosi interiore dei suoi protagonisti, facendo saltare lo schema logico e le previsioni facili, diventando gioco interattivo, dove il presunto assassino diventa vittima e la vittima si fa carnefice, dove c'è solo il male, di vivere e di guardare. Gli spazi dell'innocenza, in quel luogo mentale che è la città per Fincher, sono ristretti e affondano senza remissione chi pensava di (ri)costruire. L'ambiente domestico e il quartiere residenziale immacolato, facciata edificata sopra le rovine di un centro commerciale e della crisi economica, correlano le manie dei protagonisti, interpretano la loro psicologia, illustrano la morbosa estetica della malattia, del decadimento, dell'illusione a cui non sfugge nemmeno il matrimonio con la sua pretesa di durare per sempre. Come desidera diabolicamente Amy, che prosegue il discorso di Fincher sull'emancipazione (e libertà) femminile dopo l'amica di Mark Zuckerberg, che rifiuta la sua 'amicizia' (The Social Network) e l'eroina di Stieg Larsson, che si vendica del suo aguzzino e diventa elemento destabilizzante del liberalismo patriarcale (Millennium). Con Amy, corpo rigido e insensibile, la donna si fa mistero angosciante, pronta a ottenere il suo potere a ogni costo e con ogni mezzo, compreso quello di invischiare la preda in una tela di ragno camuffata da felicità coniugale. Assenza mai così presente e rivelazione bionda dentro un valzer di mostri di cui segna il passo, Rosamund Pike è la perfetta antagonista di Ben Affleck, abbagliante e (im)perturbabile, che trova l'epifania in un sorriso e l'attore dentro il riscatto di un personaggio assimilabile al suo. Trasposizione del bel romanzo di Gillian Flynn, che sceneggia il film, Gone Girl è testimone e giudice di quello che siamo veramente, al di là di tutte le apparenze e della capacità di costruire e abitare un teatro della mente. Teatro in cui si mettono in scena Amy e Nick, fatti davvero l'uno per l'altra, sovrani effimeri e officianti radiosi di una cerimonia barbara, dove i 'fedeli' scattano selfie e contemplano soddisfatti la propria immagine sul telefonino. Dopo aver compreso che in fondo anche per gli altri la felicità è una bufala.
È da sempre il duello la soluzione alle tensioni create dalla narrazione e all'antitesi dei valori proposti. Lo sa bene David Yates, che alla sua quarta realizzazione punta l'obiettivo su quell'atto decisivo dell'intreccio, sullo scontro fisico tra l'eroe e il suo opponente schierati all'interno delle rovine di Hogwarts, contenitore e palcoscenico dell'epilogo. Spedendo al suolo Lord Voldemort come un volgare villain, Harry, in piedi contro un cielo grigio e spento dal 3D, raccoglie il valore in gioco nello scontro. Valore anticipato nella prima parte dei doni della morte, che dichiarava l'analogia con la logica del fascismo e l'ascesa del Nazismo. Il progetto di purificazione razziale di Voldemort, drammaticamente affine all'ideologia razzista hitleriana, ha sterminato senza pietà i mezzosangue, costringendo i sopravvissuti alla clandestinità. Sacrificata letteralmente la generazione dei padri, a resistere sulla scena e nel secondo atto troviamo i figli, lontani dall'egocentrismo dell'infanzia, emancipati dal disordine dell'adolescenza e abili a 'sbarcare' sulle sponde di Hogwarts con un'arma più potente di un incantesimo: la capacità di amare e di riconoscere l'altro nella sua singolarità. Portatori sani di un'idea di giustizia e di società giusta e aperta, dove convivere e contaminarsi. Di quel mondo, avviato da Albus Silente e minacciato costantemente da Tom Riddle, Harry è l'eroe dell'apertura, colui che porta in sé proprio ciò contro cui combatte, perché la Rowling non si limita a metterli l'uno contro l'altro ma, forzando la geometria frontale del duello, li mette l'uno nell'altro. Insieme a Voldemort la saga di Harry Potter esala l'ultimo respiro e lascia orfani una messe inestimabile di spettatori che per dieci anni hanno visto crescere, amare, lottare e invecchiare il maghetto di Privet Drive. Iniziato all'età adulta nel tempo di sette libri e otto film, il sempre uguale Harry Potter è stato affidato a Daniel Radcliffe, che tra azioni magiche e prodigi naturali, ha trovato il tempo di essere attore nei teatri e nel mondo normale dei babbani. Con sacrificio, fedeltà e intraprendenza lo hanno accompagnato Rupert Grint (Ron) e Emma Watson (Hermione), braccati, marchiati e torturati ma sempre pronti a sbrigarsela come potevano dentro camere segrete, foreste proibite, banche o paioli magici. Defezionato da Spielberg, impostato dallo sguardo di Chris Columbus, veterano di film con bambini protagonisti, (pro)seguito dal sentimento dark del messicano Alfonso Cuarón, cresciuto coi turbamenti adolescenziali di Mike Newell e aggiudicato fino all'ultimo respiro e all'ultimo mago a David Yates, Harry Potter al cinema si è (purtroppo) limitato a 'fotocopiare' i celebri romanzi, eccedendo nella tecnica, nelle convenzioni, negli effetti e dimenticando troppo spesso di produrre la magia. Confezioni sempre troppo lunghe e quasi nulla impegnate nella costruzione dei personaggi, quelle biografie ideali magnificamente immaginate per ognuno di loro dalla Rowling. A dare loro la vita ci hanno pensato tuttavia gli attori, che la scrittrice ha preteso inglesi. Sono loro i produttori di incantesimi che hanno riempito le sale e incantato le masse babbane. Su tutti Alan Rickman, signore di tempeste emotive concentrate in una lacrima che rivela commossa il rovescio del male.
Rilancio del sottogenere piratesco? Presto per dirlo, ma indubbiamente La maledizione della prima luna - maggior successo dell'estate statunitense - vale la visita. Nonostante la produzione targata Bruckheimer facesse temere il peggio, il regista Verbinski padroneggia la materia con sufficiente energia e ironia, non risparmiandosi citazioni e ammicchi al passato ma non perdendo mai di vista lo svolgersi del racconto. Le due ore e venti scorrono con una certa facilità, anche grazie a una compagnia d'attori - Depp su tutti - che fa di una divertita gigioneria un manifesto programmatico. E qualche sequenza ben girata - vedi quella dell'arrembaggio - fa il resto. Non memorabile, ma per divertirsi va più che bene.
Hogwarts anno quarto. Harry Potter e i suoi amici Ron ed Hermione stanno crescendo e con loro crescono le consapevolezze e i dubbi.
È questo il perno attorno a cui ruota il film di Mike Newell in perfetto equilibrio tra dramma e commedia. Perché il dolore pesa terribilmente sulle spalle di questo Eletto che vorrebbe essere solo un mago "normale" e tutte le assenze del passato (i genitori morti) e le incombenze del futuro si fanno pressanti. La tensione non è quindi tanto affidata ai draghi o alle prove da superare quanto a una sofferenza interiore che non ha bisogno di attendere l'evidenza dell'incontro con Voldemort per divenire percepibile. Ma Newell (sempre più apprezzabile l'idea di cambiare regista per ogni film) è però abilissimo nel farcela "sentire" come tema portante distraendo però la nostra attenzione grazie alle pagine della festa da ballo che la Rowling gli offre e che lui sa giostrare con la sapienza consumata di un realizzatore di commedie brillanti.
I piccoli slittamenti del cuore, le rivalità e i tremori dell'inizio dell'adolescenza diventano materia per un'ampia parentesi di alleggerimento. Che non basta però a distrarci dall'esigenza (divenuta per Harry ormai imprescindibile) di distinguere la realtà dall'apparenza, il bene da ciò che bene non è. Se gli amici restano tali nonostante le incomprensioni, il mondo intorno a lui si sta facendo sempre più "adulto" e, quindi, sempre più ambiguo e temibile.
Kevin Feige e la Marvel giocano, sperimentano con il biondo dio del tuono e lo affidano a Taika Waititi per un trattamento pop. Difficile stabilire quanto siano rimaste sciolte le briglie del visionario regista, che prova a iniettare forti dosi di kitsch da primi anni 80 nel corpo di un blockbuster supereroistico minore. Brani synth-pop affidati alla cura di Mark Mothersbaugh - ex Devo e sodale di Wes Anderson - ed estetica da space opera povera e sporca, stile Tatooine del primissimo Star Wars. Funziona e a tratti trascina, ma il gigantismo da cui sono affette le produzioni MCU infine prevale, obbligando a un prima e un dopo: a sequenze ad Asgard dallo scarso appeal; alla conclusione, più o meno elegante, di obblighi contrattuali (Hopkins, Portman, Asano Tadanobu); all'utilizzo reiterato di "Immigrant Song" dei Led Zeppelin per rientrare del costo dei diritti. Di come avrebbe potuto essere un Ragnarok svincolato da lacci e lacciuoli ci resta qualche suggestione.
L'ambiguità psicologica di Wayne/Batman diventa finalmente il fulcro di un film a lui/loro dedicato: non poteva essere messo in mani migliori, visto che Nolan, nella sua pur breve carriera, ha dimostrato di avere una somma predilezione per i meandri più fangosi della mente umana.
Questo quinto capitolo della moderna traduzione in pellicola di uno tra gli eroi a fumetti più amati di sempre è di ottima fattura, ed è quasi tutto merito dello stesso regista: Nolan immerge la trama in un'atmosfera cupa ma non barocca; elude abilmente gli stereotipi pacchiani (in agguato ad ogni angolo nei film tratti da fumetti); tiene la tensione grazie a personaggi ben costruiti e non a colpi bassi da seconda lezione del corso di sceneggiatura. A onor del vero la prima parte è un po' farraginosa, ma il film lentamente carbura, fino a chiudere in grande stile con un colpo maestro che lo ricongiunge al primo capitolo diretto da Tim Burton. Un plauso a Nolan, dunque, soprattutto per aver ridato slancio e dignità ad una serie che Schumacher aveva ostinatamente tentato di macellare.
Un'ultima menzione per Bale, ottimo in un cast stellare ma sottotono: finalmente un volto credibile per il Cavaliere Oscuro.
Soltanto un passo e un film diviso in due (Harry Potter e i doni della morte) separano il celebre mago di Privet Drive dall'epilogo e dal confronto finale con Colui che è ormai nominabile, Colui che era il più bello e potente degli angeli, appassionante variazione del mito di Lucifero, che ha ceduto al lato oscuro della forza e della magia per diventare Lord Voldemort, un cattivo senza riscatto. Assenza materializzata in un teschio colossale e spaventevole, il Signore dei Mangiamorte non è protagonista nella nuova avventura cinematografica di Harry Potter, al centro della "seconda volta" di David Yates ci sono due eroi, Potter e Silente, uno trionfante e uno soccombente. Albus Silente, il più grande mago dell'era moderna e preside di Hogwarts, riveste nell'episodio del principe mezzo sangue un ruolo genitoriale e di rilievo, è il suo abbraccio ad Harry ad aprire il film ed è il profilo insistito del suo corpo dipartito a chiuderlo. Grande Esorcista, Stregone Capo e Mago leggendario, Silente è idealmente prossimo al Gandalf del Signore degli Anelli e all'Obi-Wan Kenobi di Guerre stellari, è colui che riconosce nel piccolo Harry Potter il segno della forza e lo riscatta dalla sua condizione (per metà) babbana, è colui ancora che favorisce e sovrintende la sua formazione e inevitabilmente è colui che compirà il percorso sacrificale e verrà sostituito dall'allievo.
La struttura del racconto è (sempre) estremamente elementare: i cattivi di turno, i Mangiamorte, portano il caos nel regno degli uomini e in quello dei maghi, costringendo i prodi eroi a combattere di nuovo con tutte le loro forze e tutta la loro magia per riportare l'armonia e separare per sempre la luce dalle tenebre. Ma da copione e da romanzo, la pace, il benessere e la riconquista del paradiso sono rimandate alla prossima puntata, perché Silente "perderà" la bacchetta, indebolito dalla ricerca degli Horcrux, e soccomberà al maleficio di un ambiguo traditore. Con un mago senza magia, Hogwarts è senza un "re", è luogo vulnerabile e per la prima volta espugnabile. Inizia allora da una perdita incolmabile e dalle torreggianti torri della scuola la ricerca di ciò che è perso e di ciò che deve essere distrutto, condotta da Harry e fedeli compagni fino ai limiti dei due mondi.
Se, possiamo scommetterci, Harry Potter e il principe mezzo sangue coglierà il bersaglio e renderà felici gli spettatori ansiosi di rileggere per immagini personaggi e avventure familiari, il sesto adattamento del fantasioso pastiche della Rowling non trova questa volta le felici invenzioni allestite nel precedente (Harry Potter e l'ordine della Fenice) e appare un riflesso impallidito dell'universo letterario di Potter. Un plauso va invece tributato ai tre protagonisti, Daniel Radcliffe, Rupert Grint e Emma Watson, competenti nell'esibire le loro identità mutate e affrancate dall'infanzia e dalla temperanza. Sorgente di fascinazione è pure la performance di Jim Broadbent, attore inglese, ironicamente felpato nell'abitare il film in cui vive e nel nobilitare la pusillanimità del professor Lumacorno. Bevete fortuna liquida e sollevate le bacchette, il male avanza e la magia continua.
Quinta volta per Potter al cinema, prima volta per David Yates, regista inglese che supera la prova accompagnando Harry alla maturità e all'autonomia affettiva. Harry come persona e come mago è chiamato anche questa volta a un compito evolutivo e a prove fondamentali per entrare progressivamente nell'età adulta. Fa esperienza di un corpo "alterato" che invia segnali nuovi, che si risveglia sessualmente spingendolo verso l'esperienza amorosa. Lo sforzo di adattamento produce frustrazione e rabbia separandolo fisicamente ed emotivamente dagli adulti che lo hanno adottato per costruirsi degli affetti fuori da quelli istituiti. Harry, Ron, Neville, Cho e Luna sono adolescenti davanti allo specchio.
Nell'Ordine della Fenice questo strumento di divinazione non riflette più l'immagine speculare di una persona né l'identità benevola o malevola come nello Specchio delle Brame della Pietra Filosofale, diventa piuttosto un portale magico verso una nuova dimensione. A mutare è pure il rapporto con la magia, costretta dalla terribile Dolores Umbridge all'interno di parametri tradizionali, inaridita da un approccio inconsistente che non permette alcuna partecipazione personale. È l'esempio positivo di Sirius, nel privato, e di Silente, in quello pubblico, a insegnare a Potter a vivere intensamente, contribuendo alla giustizia del mondo con il proprio atto magico.
Di fronte alla rigidità educativa prevista dal Ministero, che punisce duramente la trasgressione, la proposta di Harry di fondare "l'esercito di Silente" appare rivoluzionaria: la magia non va soltanto letta sui libri, ma applicata, agita e vissuta. Solamente così assume un significato intenso e una forza formativa per lo spirito. Affascinato dal racconto giovanile del patrigno sulla fondazione dell'Ordine della Fenice, Harry e compagni riportano in vita quella tradizione di pratiche rituali e di virtù, sviluppando un proprio modo di vivere magicamente e rifiutando il conformismo delle idee.
Il viaggio dell'eroe mago continua, la guerra tra il Bene e il Male viene giocata sul terreno accidentato della non visibilità (Dissennatori, Thestral e Voldemort restano invisibili ai più) e la forza di Voldemort può avere la meglio trascinando gli avversari dalla luce nelle tenebre. La convivenza degli attori col soprannaturale si fa raffinata dando vita a forme visive disparate che, smaterializzandosi e polverizzandosi, investono corpi, ambienti e oggetti. Nella sequenza iniziale, che pratica il teen movie, lo straordinario entra nell'ordinario: i personaggi reali convivono nel mondo babbano con gli antagonisti scarnificati. Il digitale sottrae materia alle superfici, rendendole inquietanti e spettrali. L'Ordine della Fenice si divora come il libro omonimo e dona allo schermo la performance, straordinaria per perfidia, di Imelda Staunton, "cattiva maestra" incapace di partecipare il proprio amore per la cultura. Magica, ovviamente.
Hanno detto che Sopravvissuto - The Martian rimette la "sci" in sci-fi, ovvero pone l'accento sulla "scienza" di fantascienza. E non sono andati lontani dal vero. Ridley Scott, alle prese con uno script non suo - autore il Drew Goddard della scuderia Joss Whedon - e tratto dal meticoloso romanzo di Andy Weir, un ingegnere informatico reinventatosi scrittore, si dimentica di essere il profeta dei futuri distopici di Alien e Blade Runner. E si limita a fare quel che gli riesce meglio, ossia rendere cinematografica materia che tale non è. Concedendo qualcosa al 3D ma il minimo indispensabile alla computer graphics, Scott consegna la sua epica alle riprese in esterni della desolazione marziana. Le passeggiate di Matt Damon sul suolo di Marte, a bordo del suo rover, ricordano tanto le cavalcate fordiane nella Monumental Valley che gli orizzonti infiniti di Lawrence d'Arabia. E non casualmente, visto che quest'ultimo è stato girato in luoghi vicini al deserto della Giordania scelto per The Martian. La visione di Scott e il suo racconto di un'odissea in cui Ulisse e Robinson Crusoe trovano un ideale punto d'incontro procede in parallelo con i teoremi infallibili di Weir, che vede nel suo protagonista l'ingegnere perfetto, un MacGyver di Marte pronto a elaborare modalità di sopravvivenza sempre nuove in un pianeta ostile. Rosso, brullo e indomabile, il quarto pianeta viene privato della allure che lo ha accompagnato in un tutt'altro che brillante passato cinematografico, attraverso l'espediente di ipotetiche civiltà pre-terrestri (Mission to Mars) o alieni belligeranti (La guerra dei mondi). E presentato per ciò che è, un gigantesco e suggestivo ostacolo alla vita. Solo con la forza dello humour da middle-class americana di Damon-Watney e con il pragmatismo della Nasa (collaboratrice e sponsor del film) il racconto regge per la sua lunga durata, avvince e infine porta all'immedesimazione con il protagonista. E pur trattandosi questi, ancora una volta, di un Matt Damon da salvare (Salvate il soldato Ryan) per il bene dell'America e del mondo, lo script spinge il minimo indispensabile sul pedale di un enfatico patriottismo; scegliendo anzi, con un'inattesa svolta narrativa, di ridimensionare il ruolo statunitense di superpotenza infallibile. Il futuro non è mai parso più verosimile di così, divaricando ulteriormente le due storiche branche della fantascienza: da un lato una space opera sempre più assetata di effetti speciali e meraviglie, dall'altro la controparte pseudo-scientifica, con i piedi ben piantati per terra, nonostante gli occhi osservino il cielo. Con buona pace di chi cerca una sua personale terza via, come il Nolan di Interstellar. Resta da domandarsi, visto il palesato intento di promozione a un rilancio dei viaggi aerospaziali della Nasa, se si tratti di uno spot centrato o controproducente. Proprio in virtù della stretta aderenza ai fatti di The Martian, infatti, Marte come meta non è mai parsa meno allettante di così. Omini verdi malvagi con i laser compresi.
Dopo 32 lunghi anni la saga di Star Wars ha un seguito. Transitata dalle mani di George Lucas a quelle della Disney, la serie viene affidata a J.J. Abrams, creatore di Lost, già dimostratosi capace di rivitalizzare Star Trek. Le mani giuste, a giudicare dall'entusiasmo suscitato dai trailer prima e dal film poi, realizzato con i fan e le loro esigenze in mente, cercando di allontanarsi il più possibile, visivamente e narrativamente, dalla deriva presa da George Lucas nella trilogia prequel.
Abrams non tenta di riscrivere un'epica, non prova nemmeno a porsi su livelli rischiosi e impossibili da rendere attuali. Preferisce dichiarare immediatamente la resa di fronte a un mito così impossibile da scalfire che si può solo emulare. Il romanzo di iniziazione di un nuovo gruppo di eroi, catapultati in un'avventura più grande di loro, non può quindi che ripercorrere la struttura narrativa e gli stilemi dell'episodio originale, Guerre stellari o Star Wars IV - Una nuova speranza, di cui Il risveglio della Forza pare un remake sotto mentite spoglie, più che un sequel. Così facendo Abrams attribuisce a Lucas la valenza di classico che non si può riscrivere, al pari di Shakespeare o Omero, e insieme accontenta i fan e prepara il terreno per un'invasione mediatico-commerciale su vasta scala.
Operazione riuscita, quindi, ma a che prezzo? Calcolare ogni mossa e rispettare l'esigenza di tutti senza "tradire" è un processo troppo complesso per risultare del tutto indolore. A farne le spese è il lato emozionale. La vertigine che si prova di fronte all'introduzione all'episodio o alla prima comparsa degli eroi della trilogia originale è inevitabile, ma a parte lì Il risveglio della Forza coinvolge ma non emoziona, lasciando trasparire troppo la presenza delle rotelle di un ingranaggio. Benché le vicende quasi ricalchino quelle di Star Wars IV, lo spirito che le infonde - la sagacia del riscrittore seriale di franchise epici, come Star Trek - è lontano dall'ingenuità contagiosa da space opera che animava il capostipite.
Un distacco brutale, che porta con sé anche qualche lato positivo. A partire dalla crudeltà e dal verismo di sequenze belliche lontanissime dalla tradizione della saga. Gli assalti del Primo Ordine e i loro efferati delitti sono vissuti "dal basso", dalla parte di chi è vittima di un bombardamento o di un'invasione, di chi subisce gli effetti di un disprezzo raro per la vita umana. Quella empietà che prima era teatrino posticcio, troppo fantastico per suscitare inquietudine, qui per la prima volta si traduce in violenza genocida effettivamente percepibile.
Tra i molti e spesso inconsistenti personaggi introdotti da Abrams - molto deludente quello che sembra l'arcinemico della trilogia, a cui avrebbe giovato un po' di mistero in più - prevale la figura ambivalente di Kylo Ren, ora terrificante, ora tragica, ora patetica. Un'altra maschera nera che rivela ben presto la sua natura di mera emulazione, trasfigurazione di un ipotetico fan della saga catapultato nel suo stesso mondo di fantasia e incapace di mantenere il giusto equilibrio. Difficile dire se Abrams e lo sceneggiatore Lawrence Kasdan (Il grande freddo, Brivido caldo) avessero in mente la deriva dell'ossessione nerd di fronte a un potere smisurato o una riflessione più sottile sulla rilettura degli archetipi e sulla ripetizione dei medesimi errori, ma l'incastro tra Kylo e la natura speculare di Il risveglio della Forza rispetto a Una nuova speranza funziona.
Dove la goffaggine anacronistica della trilogia prequel aveva fallito, Il risveglio della Forza è il trionfo di un cinema contemporaneo nella sostanza anziché nel solo sviluppo tecnologico. Il confronto impari tra Lucas e l'industria dell'entertainment, culminato con un autore divenuto industria egli stesso, appartiene al passato almeno quanto Darth Vader e le sue gesta. Oggi Star Wars è industria in tutte le sue forme né sarà mai altro. Inutile farsi illusioni: o si accetta la nuova natura o si resta aggrappati alla nostalgia.
Non sono mai stato un fan particolarmente accanito della saga di ‘Guerre stellari’ (il nome di quando non imperava l’anglicizzazione figlia del marketing), avendo visto in sala la prima trilogia e ignorato invece la seconda. Così mi sono avvicinato senza particolari pregiudizi a questo che è indicato come il settimo episodio dell’intera vicenda e, anzi, considerata inoltre la buona prova del regista con Star Trek, con parecchie aspettative. Alla fine delle due ore e un quarto di montagne russe con pochissimi attimi per tirare il fiato, si può dire che le suddette speranze non siano state rispettate appieno: il film regala uno spettacolo travolgente e bello da vedere, ma patisce qualche semplificazione di troppo. E’ vero che nell’universo immaginato da Lucas si scontrano il Bene e il Male (proprio così, con la maiuscola), ma le vie con cui vi si giungeva erano più complesse nei segmenti precedenti – il lungo apprendistato Jedi, la controversa figura di Darth Vader – mentre ci si spostava tra società e mondi assai vaariegati: benchè la sceneggiatura sia firmata, assieme al regista e a Michael Arndt, da quel Lawrence Kasdan che aveva lavorato alla prima trilogia, al confronto hanno un retrogusto di trovata semplificativa il percorso iniziatico di Rey (Daisy Ridley) quantomeno facilitato e la citazione esplicita dell’avventura capostipite nell’ambiente desertico del pianeta in cui comincia l’azione. La scelta è volta con ogni probabilità a favorire l’avvicinamento delle nuove generazioni di adepti e, del resto, non mancano i richiami alle ultime versioni dei supereroi Marvel, ad esempio i discorsi e le spiegazioni ridotte all’essenziale, ma spruzzate di un filo d’ironia oppure la constatazione che i momenti movimentati – segnati da scontri tra uomini o astronavi – facciano la parte del leone: come giù detto, il giocattolone funziona, ma al termine si sente la mancanza di almeno un accenno di profondità in più. Il soggetto ruota attorno alla mappa che conduce a Luke Skywalker, ritiratosi in eremitaggio: in pericolo, un pilota della resistenza (Oscar Isaac) la affida a un robot - il nuovo BB-8, dalle accattivanti forme rotondeggianti - che finisce poi nelle mani dell’assaltatore pentito Finn (John Boyega) e della giovane Rey. In fuga dagli imperiali guidati dal controverso Kylo Ren (Adam Driver), i due, o tre, rubano nientemeno che il Millenium Falcon per poi andare a sbattere in Han Solo che è nel frattempo tornato a fare il contrabbandiere. Tra varie avventure, il trio ritrova dapprima la spada laser presso la locanda di Maz Kanata (sotto la cui maschera si cela Lupita Nyong’o) e in un secondo momento si ricollega al resto dei ribelli sotto il comando di Leia, ormai promossa a generale. Da qui prende il via l’assalto alla base di Ren, sorta di Morte Nera all’ennesima potenza dotata di cannone laser capace di distruggere mondi ad anni luce di distanza: tra rivelazioni a (quasi) sorpresa e combattimenti vari, il Bene vince come da manuale pur lasciando aperta la porta alle prossime puntate (l’ottava è già in lavorazione). Il tutto è sostenuto da una batteria di effetti speciali ovviamente impeccabili nonchè intergrati con la fotografia di Dan Mindel che ben si districa fra il giallo del deserto arabico e le nevi islandesi: su simili sfondi, oltre che nelle enormi cavità dell’astronave-mondo dei cattivi, i personaggi si muovono accompagnati dalle musiche di John Williams, che spesso non va troppo per il sottile, ma contribuisce comunque al coinvolgimento dello spettatore. Gli attori danno l’impressione di divertirsi r reggono con disinvoltura il peso di essere parte di cotanto progetto, a partire dai giovani – Driver, Ridley e Bodega, tutti di estrazione più o meno televisiva – con una nota di merito per la ragazza; tra i vecchi eroi, Harrison Ford, che ha il primo nome in cartellone, si fa amabilmente il verso grazie con l’aiuto di Abrams che cita qualche inquadratura, mente l’irriconoscibile Carrie Fisher e la piccola apparizione di Mark Hamill servono solo per rafforzare i legami con i film precedenti.
La più volte annunciata Fase 2 dell'epopea cinematografica Marvel arriva al suo momento chiave. Perché nonostante la sua natura minore, o meglio minuscola, all'interno dell'universo della Casa delle Idee, Ant-Man è destinato a incarnare un ruolo cruciale. Quello della diversità, del supereroismo come riscatto, definitivamente riconquistato da quei nerd che l'hanno generato, sulla scia dei Guardiani della Galassia che sono già cult generazionale. Perché se il supereroe con superproblemi è il marchio di fabbrica della Marvel, pochi possono competere con la mancanza di glamour di un ex galeotto divorziato e miniaturizzato a cavallo di una formica. La scommessa più audace di un pantheon disincantato, capace di prendersi gioco dei dogmi di un rituale che non nasconde ult(ron)eriori sorprese. Propositi che conferiscono a Ant-Man una responsabilità che l'opera di Peyton Reed dimostra chiaramente di non poter gestire appieno. In primis per la sua natura ibrida e irrisolta: in origine progetto pluriennale di Edgar Wright (L'alba dei morti dementi, Scott Pilgrim vs the World), destinato a sconvolgere il canone tra mille aspettative, si è trasformato, a causa di divergenze creative, in quello di Peyton Reed.
I "se" e i "ma" si sprecano in ogni dove, attribuendo, come da usuale folklore pro-perdenti, a Wright ogni intuizione e al suo erede ogni malefatta, ma la verità sulla paternità dell'uno e dell'altro resta un mistero. Quel che è oggettivo è l'accento posto sul lato comico della sceneggiatura (a cui nella riscrittura ha messo mano lo stesso Paul Rudd), al servizio di un Paul Rudd post-Judd Apatow (Questi sono i 40) e di un Michael Pena così esilarante da rischiare di oscurare il protagonista.
Nell'animo genuinamente infantile di Ant-Man - La Cucaracha in apertura, a prefigurare Speedy Gonzales come uno dei principali riferimenti sotterranei, o l'incredibile epilogo pixariano nella cameretta di una bambina tra trenini giganti e insetti di dimensioni garroniane - vive il ridimensionamento necessario di un filone il cui gigantismo rischia di stimolare la bulimia del pubblico, ma di arrestarne ben presto la digestione. Sono infatti proprio le infiltrazioni nello script del franchise Avengers - emblema con l'ultimo Avengers: Age of Ultron del vuoto (e insieme dell'horror vacui) che caratterizza il calo narrativo marveliano - a sconvolgere struttura e intenti di Ant-Man, così come gli stereotipi arrugginiti sul percorso di apprendimento e consapevolezza dell'eroe recalcitrante. L'effetto ossimorico che deriva da questi contrasti non fa che accentuare la sensazione di un progetto che non ha goduto della necessaria libertà per spiccare il volo e per far decollare la Fase 2 di una Marvel incapace di resettare i suoi già obsoleti e ingombranti campioni di incassi. Ant-Man funziona nella sua irriducibile singolarità, nella sua anarchica impossibilità di adattarsi a schemi consueti. La volontà di imporre comunque questi ultimi non pare un buon viatico per la nuova ondata Marvel, ma i segnali forniti da alcuni elementi del film di Reed inducono a confidare ancora nelle Idee della relativa Casa.
Robert Zemeckis era da poco andato con successo di pubblico e di critica All'inseguimento della pietra verde quando si mise al volante di un'auto che pareva destinata all'oblio. Perché la De Lorean DMC 12, come sanno gli appassionati delle quattro ruote, non è frutto di invenzione ma era stata l'unico veicolo realizzato da un industriale accusato di appropriazione indebita e quindi sparito dal mercato. Così come l'idea della macchina del tempo non è particolarmente originale se si considera che H.G. Wells l'aveva già immaginata nel suo romanzo omonimo del 1895.
Dove risiede allora la base del successo di questo film che avrebbe dato il via a una trilogia destinata a sbancare i box office di tutto il mondo? Sta nel fatto che Zemeckis, con la complicità alla produzione dell'amico Spielberg, non si limita a giocare con gli anacronismi in stile Un americano alla corte di re Artù ma va molto oltre. Non solo anticipa le Sliding Doors della seconda metà degli anni Novanta ma batte anche di un'incollatura (ossia di un anno) il Coppola di Peggy Sue si è sposata. Lo fa con la consapevolezza di realizzare una commedia innervata dalla fantascienza ma, soprattutto, di star riflettendo su un presente non facile (se Reagan è Presidente perché non avere Jerry Lewis come vice?) senza particolari nostalgie per il passato. Non siamo in area American Graffiti in questa occasione o, se lo siamo, si tratta solo di riferimenti cronologici. Perché la vita nel 1955 non è poi così idilliaca se i bulli spadroneggiano.
A questo si aggiunge una riflessione non banale sull'immagine che i figli di tutto il mondo (e forse di tutte le epoche) hanno dei genitori. Quell'uomo e quella donna sembrano non essere mai stati degli adolescenti e, soprattutto, non debbono aver mai avuto una sessualità. Così Marty può sentirsi davvero a disagio nel momento in cui non solo rischia un pre-incesto (avere un rapporto amoroso con sua madre che ancora non è tale) ma scopre che la ragazza non attende le avances ma le anticipa attivamente. Lo scorrere del tempo, che apre il film con gli innumerevoli orologi che affollano il laboratorio di Doc Brown, non sembra aver intaccato la presa spettacolare (ma non solo) di questo film.
Semmai ci ricorda che oggi Michael J. Fox lotta contro un male, il morbo di Parkinson, che proprio con il procedere degli anni e con le scoperte di scienziati non meno brillanti di Doc potrebbe essere sconfitto. Guardandolo poi con particolare attenzione, il film ci ricorda che la tecnologia periodicamente compie dei ritorni al futuro. Osservate uno dei bulli che inseguono Marty in auto: indossa gli occhialini bicolori del 3D. Più 'ritorno al futuro' di così!
La Wonder Woman di Gal Gadot è una specie di Don Chisciotte, come racconta l'immagine di lei per le strade di Londra in cappotto lancia e scudo, spaesata tra i comuni cittadini, che non condividono la sua visione dell'universo, imbottita delle figure mitologiche con le quali è stata cresciuta e protetta dalla verità e dalla banalità del mondo. Ma non è facile aspettare senza sbuffare che arrivi la sua tardiva presa di coscienza e, con essa, la consapevolezza che la guerra non è un gioco e la vera forza è nell'amore... Il film ci intrattiene ma ci mette anche a dura a prova, riducendo le avventure della più amata delle supereroine femminili ad un romance tra ragazzi ("Aveva ragione mia mamma..."), dove c'è spazio per lo humour malizioso sugli attributi maschili (l'orologio, s'intende) e per le sequenze al ralenti targate Zack Snyder (produttore e patron dell'operazione) ma non c'è ancora posto per ammirare il personaggio nel pieno della sua fioritura e della sua indipendenza.
Per vedere Wonder Woman, insomma, occorrerà attendere il capitolo francese, attraversando, nel frattempo, questo lungo prologo come una terra di nessuno, anche stilisticamente variabile e incerta.
Un film di animazione (targato Disney) ha aperto per la prima volta il Festival di Cannes. Si è trattato di un segnale molto preciso se si considera che la Major americana era assente da 5 anni dalla Croisette (l'ultima volta aveva presentato Ladykillers) e proponeva un film in 3D. La tridimensionalità viene utilizzata in questo film senza le esagerazioni effettistiche che, come sempre,, accompagnano le fasi nodali della storia della settima arte a partire dall'invenzione del sonoro.
Il rischio che la sceneggiatura si mettesse al servizio della tecnologia c'era ma è stato brillantemente evitato. Semmai sussiste la possibilità che Up piaccia più agli adulti che ai bambini i quali dovranno attendere l'arrivo del solerte e tondeggiante Giovane Esploratore per avviare il necessario processo di identificazione nell'avventura. Fino ad allora ci viene narrata la tenera e delicata storia di un venditore di palloncini con la passione per l'avventura condivisa da un'amica e poi compagna per la vita.
La sequenza in cui si narra il percorso di Carl ed Ellie partendo dall'infanzia sino ad arrivare alla morte di lei è di quelle che si fanno ricordare per la divertita sensibilità con cui è costruita. Le citazioni cinematografiche non mancano (a partire dalla somiglianza del protagonista anziano con Spencer Tracy per finire con il vecchio Muntz che ricorda Vincent Price passando per echi spielberghhiani) ma non hanno la pesante insistenza che si può rinvenire in altri film di animazione. Perché questo è un film leggero. Leggero su temi ponderosi come quello dell'invecchiare da soli, dei sogni non realizzati, della memoria viva di chi ci ha lasciati, del rapporto giovani/anziani. Un film leggero come quei palloni che portano magrittianamente nei cieli un'intera casa liberandola da un mondo incapace di comprendere i sogni.
Lo sforzo profuso da Amblin Entertainment e Legendary Pictures in termini di marketing è massiccio e fa leva sull'incrollabile fascinazione dei più piccoli per le lucertole giganti. Ma il semi-carneade Colin Trevorrow prova a ragionare su più livelli: se da un lato si rivolge ai ragazzini e alla realizzazione dei loro sogni - inutile negare l'effetto disneyano-horror della sequenza del mosasauro che divora lo squalo - dall'altro prova a imbastire una metafora sullo scontro generazionale tra verità e finzione, analogico e digitale, natura ed esperimenti genetici. Con la paradossale, ma non inconsueta, predilezione per la purezza del passato, in un film tecnologicamente spinto a velocità folle verso il futuro, con un 3D abbondante e una CGI invasiva, benché competente. Al di là della semplicità allegorica e del fatto che il saccheggio nei confronti del Godzilla di Edwards e dello scontro da kaiju eiga tra lucertolone e M.U.T.O. pare evidente, la competizione per ristabilire chi sia il predatore alfa e chi sia in cima alla catena alimentare convince e guida un epilogo trascinante. Che ha l'ulteriore merito di avvalersi di un elemento "dormiente" del plot, trasformato in risolutivo deus ex machina.
Il risultato, tutt'altro che ovvio, accontenta piccoli fan (irresistibile l'attrazione delle girosfere), animalisti, evoluzionisti e semplici nostalgici. Merito anche di buone scelte di casting, tali da correggere storture o manchevolezze di uno script talvolta troppo elementare: la coppia Chris Pratt-Bryce Howard funziona, con il primo sempre più candidato (dopo Guardiani della Galassia e The LEGO Movie) al ruolo di nuovo Harrison Ford, adattato alla consapevolezza dei propri limiti e al cinismo post-tutto della contemporaneità. Meno bene Irrfan Khan (Vita di Pi), mix di stereotipi sul mecenate vittima delle sue stesse ambizioni, e Vincent D'Onofrio (Full Metal Jacket), fuori giri sin dalla prima apparizione nei panni di un villain che pare un cliché vivente - ovviamente militare e scriteriatamente guerrafondaio - più antico degli stessi dinosauri. Nonostante l'abbandono della direzione da parte di Spielberg, a progetto ancora in uno stato embrionale, Colin Trevorrow risolve una impasse complicata, confermando le ottime impressioni lasciate dall'incursione nella sci-fi di Safety Not Guaranteed e cancellando (anche a livello di plot) il ricordo del secondo e del terzo episodio della serie, deludentissime prosecuzioni del capostipite.
Andrew Stanton torna a raccontare "un'odissea d'amore" dopo quello straordinario road movie acquatico che è stato Alla Ricerca di Nemo e lo fa sostituendo alla vastità dell'oceano la profondità dello spazio e alla forma del film on the road quella del cinema di fantascienza distopico. Ma Wall-e non è la solita celebrazione della riappropriazione da parte dell'uomo della sua umanità in un futuro dove la tecnologia ha vinto sullo spirito, al contrario è un film capace di commuovere anche solo con un abbraccio, che afferma la bellezza e il romanticismo della tecnologia attraverso alcune delle scene più semplici e disarmanti che il cinema abbia mai offerto.
Wall-e dunque è prima di tutto uno dei più rivoluzionari film di fantascienza mai visti (realizzato con un unico gigantesco punto di riferimento: 2001: Odissea nello spazio) nel quale il mondo delle macchine è a tutti gli effetti centrale. I robot non sono solo l'entità da combattere ma una società a sé: hanno una loro vita, loro sentimenti e valori propri (come il concetto di "direttiva"), i protagonisti di una trama autonoma rispetto a quella che coinvolge gli umani. Wall-e e Eve non combattono per salvare la razza umana, quello accade incidentalmente e secondariamente, combattono a fianco di altri robot buoni contro i robot cattivi prima di tutto per salvare se stessi e il loro amore, degli umani non gli importa.
Il nono lungometraggio della Pixar è l'ennesimo annuale capolavoro capace di cambiare definitivamente il modo in cui viene imitata la macchina da presa e le sue lenti nell'animazione computerizzata e come al solito ci mette di fronte al miglior cinema immaginabile oggi.
Un film che afferma con una forza che mai avevamo visto nei lungometraggi della società di Lasseter l'importanza e la centralità del racconto audiovisivo (e quindi del cinema) nel modo in cui conosciamo la realtà. Tutti i momenti chiave del film sono mediati dalla visione di un video (sia reale che di finzione): dalla conversione del capitano della nave, all'educazione sentimentale di Wall-e (attraverso la visione ripetuta di Hello, Dolly! di Gene Kelly), dalla scoperta dell'amore per Eve (in uno stupendo flashback visto in prima persona su monitor), fino all'inganno del capitano nei confronti del computer della nave (perpetrato con alcuni tipici trucchi cinematografici).