Una persona sola intrappolata in una situazione all’apparenza senza scampo dalla quale può uscire solo facendo affidamento sulle proprie forze, un aiuto che giunge insperato, un sentimento forte che aiuta a superare le asperità: dopo il raffinato gioco psicologico e teatrale di ‘Birdman’, Iñárritu affronta i grandi spazi in un epico filmone di oltre due ore e mezza intrecciando alcuni temi classici del western (la fellonia e la conseguente rivalsa) assieme al racconto di sopravvivenza. Alla base della storia sta l’avventura di Hugh Glass, lasciato per morto sull’alto corso del Missouri in seguito all’assalto di un orso – molto bella la costruzione dell’intera scena con il bestione che sbatacchia il buon Leo qua e là - ma capace di cavarsela malgrado le ferite e il gelo invernale: il regista e il co-sceneggiatore Mark L. Smith ci hanno aggiunto un figlio mezzosangue (Forrest Goodluck) ucciso dal cattivo di turno Fitzgerald per alimentarne il desiderio di vendetta in un universo popolato di uomini brutti, sporchi – chi volete che si lavasse con delle temperature del genere? - e cattivi. E’ lampante il contrasto tra una natura bellissima e incontaminata (location in Canada e in Argentina visto che, a furia di tirarla per le lunghe, è arrivato il disgelo) e gli esseri umani, minuscoli al confronto, che si dibattono guidati dall’avidità: per i bianchi ogni comportamento è ammesso allo scopo di mettere le mani sui guadagni assicurati dal mercato delle pellicce e i francesi sono quelli che ci fanno la figura peggiore. Il più distaccato di tutti, anche perché segnato dalla vita negli affetti più intimi, è quello che è costretto ad affrontare l’esperienza più severa: in prolungate sequenze in cui al più viene pronunciato qualche grugnito, Glass prima si trascina, poi barcolla infine percorre la via del ritorno sostentandosi con il poco che si trova nell’ambiente ostile, dalle radici al fegato crudo di un bisonte. Quando alla fine ritrova Fitzgerald, lo scontro si risolve in una lotta bestiale che richiama quella avuta con il plantigrado dato che l’umanità è in entrambi quasi cancellata tanto che la conclusione è tutto meno che liberatoria. Nei suoi panni, DiCaprio riprova per l’ennesima volta la scalata all’Oscar sottoponendosi a una serie di prove estreme (incluso, pur essendo vegetariano, mangiare il sullodato organo interno) e riuscendo a rendere con l’espressione, giacchè le parole sono ridotte al minimo, le sofferenze fisiche e mentali di un personaggio che però, per colpa della scrittura e non sua, non può essere definito a fuoco: l’interpretazione è così un’ulteriore conferma delle capacità dell’ attore ma, nel complesso, si fatica a capire per quale motivo dovrebbe arrivare dove non sono giunte quelle più rimarchevoli del recente passato. Al suo fianco, è davvero notevole il lavoro di Tom Hardy nele ritrarre un Fitzgerald ben più sfaccettato, pieno com’è di doppiezze e piccole vigliaccherie, mentre non sono certo da dimenticare l’ennesimo ruolo convincente di Domnhall Gleeson come capitano della sfortunata spedizione e Will Poulter che incarna la difficoltà di scegliere del giovane Bridger. Tutti, pare, messi a dura prova dalla complessa lavorazione, prolungata dalla decisione del regista di girare con la luce naturale: le poche ore a disposizione sono state sfruttate in modo mirabile da Emanuel Lubeszki che riesce a trasportare lo spettatore in un mondo lontano nello spazio e nel tempo (si sfiorano i due secoli, ormai). Sulla base di tali immagini, Iñárritu costruisce un film con meno alzate d’ingegno rispetto al precedente, sebbene non rinunciando a una componente onirica che a volte risulta un po’ forzata: per il resto, a parte un pugno di piani sequenza verticali, la narrazione si mantiene entro canoni più tradizionali, eppure – anche grazie all’incastro delle vicende dei vari personaggi – non ci sono momenti di stanca che appesantiscano il passo calibratamente cadenzato. Il risultato è un’opera molto legata agli schemi holliwoodiani seppur ravvivata da numerose pennellate d’autore: non all’altezza di ‘Birdman’, ma comunque un’avventura appassionante raccontata in modo mai banale.