Jake è un adolescente sognatore che lotta per riprendersi dalla morte del nonno. Su consiglio del suo psicologo, che gli consigliò di imparare a distinguere la fantasia dalla realtà, partì con il padre per un'isola al largo della Gran Bretagna. Nelle rovine dell'orfanotrofio dove è cresciuto il nonno, scopre un mondo parallelo che lo catapulta nel 1943. Lì incontra Miss Peregrine e gli strani bambini che possiedono poteri magici per i quali vengono perseguitati. In loro compagnia, Jake impara a difendere e ad accettare la sua diversità.
Non c’è niente da fare, Tim Burton continua a procedere a strappi. Negli ultimi dieci anni, ovvero da ‘La sposa cadavere’ in poi e con l’eccezione di ‘Frankenweenie’, i suoi film sono diventati colorati, dispendiosi, ma anche – quale più, quale meno – non del tutto riusciti. I risultati meno validi sono venuti dai titoli rivolti espressamente al pubblico più giovane, non si sa se per eccesso di attenzione agli stilemi del genere o per qualche richiesta che non si può rifiutare da parte dei produttori, e perciò poco predisponeva all’ottimismo questo riadattamento (la sceneggiatura di Jane Goldman si prende molte libertà, specie nella seconda parte) del best-seller di Ransom Riggs. Il risultanto è soddisfacente a metà, perché in queste due ore abbondanti, che potevano essere tranquillamente limate, c’è molto Tim Burton, ma poi si svolta all’improvviso verso una conclusione da blockbuster qualsiasi mettendo in scena una lotta tra buoni e cattivi noiosa se non risibile. Il regista di Burbank si vede invece innanzitutto dalla scelta del tema, ovvero quello dell’escluso: il giovane Jake (dai tempi di ‘Hugo Cabret’ Asa Butterfield è cresciuto parecchio) si trova spaesato nella sua Florida, con la mente agitata dalle immagini scaturite dalle inquietanti storie della buonanotte di nonno Abe (Terence Stamp). Quando una psicologa suggerisce ai genitori di far ripercorrere al ragazzo le orme dell’avo, egli finisce in Galles dove ritrova la casa di cui al titolo che vive in una dimensione temporale tutta sua. In essa abitano ragazzini con proprietà straordinarie e Jake, che si ritiene normale, si sente un’altra volta escluso finchè non capirà che la sua presenza è fondamentale per sconfiggere un pericoloso nemico facente parte della categoria ‘traditori della specie’. Nella costruzione di un simile universo, Burton si trova a suo agio con il confronto che stacca il reale dall’immaginario, ma, al contempo, con la separazione fra i due mondi che si rivela estremamente labile, per non parlare poi dell’affettuosa rappresentazione dei ‘ragazzi speciali’ (ma il ‘peculiar’ dell’originale ha un significato più composito) come dei teneri fraks pronti a scherzare con e delle loro stranezze per i quali non si può non simpatizzare. Se nella realtà i colori sono sovente opachi, quelli dell’eterno 1944 in cui vive la casa sono brillanti e ravvivati da un gioioso sole (la forografia è di Bruno Delbonnel): il tono della narrazione resta lieve e le invenzioni visive non mancano – davvero efficaci le scene ambientate nella nave affondata – mentre le citazioni proprie e altrui spuntano qua e là a partire dalla lotta fra gli ‘automi’ di Enoch filmata a passo uno. I riferimenti esterni non spariscono con la l’avvento di Barron e della sua congrega di cattivi (in dirittura d’arrivo c’è pure una scena che fa tanto Titanic’), ma la magia se ne va e lo spettatore segue con un interesse relativo le alterne vicende fra i due schieramenti, con un unico sussulto nella sequenza della ‘resurrezione’ della nave citata poco sopra. Il bilancio altalenante si riflette anche nel cast: se Butterfield è convincente e gli altri ragazzi non sono da meno a partire da Ella Purnell che lo affianca nei panni della volante Emma, gli adulti, con l’eccezione di Stamp nonché, soprattutto, di Eva Green che disegna una Miss Pregrine voltiva e affasciante, lasciano alquanto a desiderare. Se per Judi Dench e Rupert Everett si tratta di piccoli camei, il secondo quasi caricaturale, Samuel L. Jackson risulta sprecato in un ruolo monodimensionale come quello di Barron che altro non gli lascia se non giogioneggiare al limite dell’istrionismo.