Quando un film racconta una storia di cui si conosce già la conclusione, ma è capace lo stesso di tenere con il fiato sospeso lo spettatore, significa che si tratta di un’opera riuscita, ma la qualità di questa pellicola riesce ad arrivare ben oltre. Erede di una nobile tradizione della quale è inevitabile citare almeno ‘Tutti gli uomini del presidente’, il lavoro di McCarthy ricostruisce con asciutta efficacia l’indagine con cui il Boston Globe portò alla conoscenza del pubblico i casi di pedofilia nella diocesi cittadina costringendo di fatto la rimozione – promoveatur ut amoveatur? Mah… - del connivente cardinale Law. La sceneggiatura, firmata dal regista a quattro mani con Josh Singer, accompagna le ricerche della piccola squadra detta Spotlight perché dedicata a far luce su casi controversi: afferrato il filo costituito dalle insabbiate malefatte di padre Geoghan, i cronisti ricostruiscono pezzo dopo pezzo un sistema omertoso che, anche perché rafforzato dai legami con una città a prevalenza cattolica, si è specializzato nel voltarsi dall’altra parte aiutando i carnefici e facendo ulteriormente del male alle vittime. L’incontro con queste ultime non è facile per i giornalisti che sono nati e cresciuti nell’ambiente come sottolineano la devota nonna di Sasha Pfeiffer (Rachel McAdams) o la casa degli orrori sita nel quartiere in cui vive Matt Carroll (Brian d'Arcy James). Non è allora un caso che l’impulso maggiore venga da elementi in un modo o nell’altro provenienti dall’esterno: il nuovo direttore Baron (Liev Schreiber) ha appena lasciato Miami ed è ebreo, l’avvocato che – con una lotta solitaria che lo ha assai inacidito – difende coloro che hanno subito violenza è di origini armene (nei suoi panni un bravo Stanley Tucci) e di ascendenze portoghesi è Mike Rezendes, il cronista più deciso nell’investigare la cui interpretazione ha portato Mark Ruffalo alla nomination agli Oscar – per la statuetta concorrono anche McAdams, il film, al regia, la sceneggiatura e il montaggio di Tom McArdle. A coordinare il gruppo di Spotlight sta però un bostoniano doc come Walter ‘Robby’ Robertson (Michael Keaton) che, in un primo istante freddo, aggiunge all’impegno altrui il peso dell’ esperienza, oltre a consentire di demitizzare la rappresentazione del giornalismo, visto che proprio lui, a capo della cronaca locale, aveva ignorato dieci anni prima gli stessi indizi alla base di un inchiesta che arriverà fino al Pulitzer: Robertson e i suoi collaboratori credono in ciò che fanno e sono spinti da motivazioni etiche, ma hanno pecche come chiunque, il che finisce per stabilire uno dei molti collegamenti all’opera di Pakula sul Watergate: assieme alle inquadrature sulla distesa di scrivanie della redazione e la presenza di Ben Bradley jr. (John Slattery) invece del padre interpretato da Jason Robards, c’è soprattutto la testardaggine nell’andare a fondo sugli aspetti più scabrosi cercando di superare i mille bastoni messi fra le ruote da chi è interessato a troncare e sopire. Così, benché l’attenzione rimanga sull’attività dei reporter – domande, appunti, pazienza, suole di scarpe – l’empatia che trasmettono si riversa sul doloroso universo degli abusati che vengono smossi a fatica perché ormai rassegnati all’impossibilità di avere giustizia. Sulle orme della tradizione indicata sopra, McCarthy utilizza una struttura classica in cui le vicende dei singoli si incastrano secondo una scansione precisa che, più cadenzata all’inizio, acquista ritmo con il passare dei minuti giustificando appieno al proposta di premio per il montaggio: nel frattempo la macchina da presa di Masanobu Takayanagi insiste nell’indagare i volti dei personaggi per raccontarne l’evoluzione con una cura e una profondità che può ricordare certe opere di Lumet. Il risultato è un ottimo film di solidissima fattura che pareggia i pregi cinematografici con l’esigenza di mantenere il riflettore puntato su di un argomento spesso colpevolmente passato sotto silenzio (un’occhiata ai titoli di coda basta a confermarlo).