Partiamo dal 'giudizio', War Horse è un film sconsolante e minore. Un film con una voglia di semplicità che fa rima con superficialità, che intende la messa in scena (solo) come scenografia, impiega in maniera evocativa e incalzante la banda sonora e musicale, è incapace di colmare spazi e personaggi di un valore metaforico. I suoi sentieri, arati o selvaggi, sono lontani dalla sensibilità formale di John Ford e prossimi a un melodramma familiare, pieno di ostacoli, dipartite e struggimenti. Eppure importa capire che cosa emerge dietro il kolossal e la grandeffettistica, dietro l'aspetto e la scrittura molto (troppo) americani.
War Horse rimette in circolo il conflitto, muovendosi sul confine incerto che separa e unisce il fascino spettacolare della guerra dal suo irremovibile orrore. Per Spielberg si tratta daccapo di congiungere il percorso della Storia (qui la Prima Guerra Mondiale) con la narrazione e il punto di vista del singolo. Niente di nuovo sul fronte hollywoodiano, certo, ma se quel singolo da salvare sullo sfondo di una carneficina è un cavallo la questione si fa più interessante. Secondo titolo zoofilo della filmografia spielberghiana, dispensando i sauri di Jurassic Park, clonati e riportati artificialmente in vita in un contesto ecologico mutato, War Horse fa il paio con Lo squalo, lavorando sull'archetipo dell'altro e giungendo alla medesima conclusione: la bestia al cinema agisce soltanto per essere uccisa. Squali, balene, gorilla incarnano sullo schermo l'alterità, la minaccia, il pericolo da sopprimere, esorcizzare, eliminare. Tuttavia il destino di Moby Dick o King Kong lo sopportano pure i Lassie, i Rin Tin Tin o qualsiasi altro animale antropomorfo della Disney, la cui disinvolta omologazione con quello che noi siamo, dimostra una volta di più la rimozione della diversità di cui la bestia è naturalmente portatrice. Il film di Spielberg, sprofondato con gli zoccoli nel fango delle trincee, attribuisce al suo protagonista equino valori e pulsioni umane secondo un modello classico che viene da Esopo e da Fedro. Se lo squalo di Amity Island nuota nel mare del perturbante e rappresenta uno spietato predatore da abbattere, il cavallo del titolo cavalca le praterie del meraviglioso e sviluppa un rapporto privilegiato con gli uomini che incrocia e che lo scampano alla morte. Il personaggio Joey frena l'istintività a vantaggio delle potenzialità simboliche, sfruttate dal regista in maniera esplicita attraverso immagini che scadono nel quadretto didascalico. Le visioni dell'animale assumono connotazioni drammatiche o ricreative, rispecchiando la condizione del 'proprietario' o della circostanza di turno. Regista del movimento, Spielberg (ri)trova se stesso e la lirica bestialità di Joey dentro la battaglia e una sequenza epica che commuove e turba, avviando una cavalcata febbrile interrotta nella 'terra di nessuno', tra le trincee avversarie e nell'abbraccio straziante del filo spinato.
Candidato all'Oscar insieme a The Artist e Hugo Cabret, War Horse condivide coi più meritevoli concorrenti le origini del cinema, dove insieme al silenzio e alla fantasmagoria, troviamo il cavallo, (s)oggetto delle prime analisi cronofotografiche del movimento di Muybridge. Un cavallo da corsa pronto a solcare lo spazio selvaggio del West e del western a venire.
Sebbene il neoclassicismo di Spielberg sia ben noto, qui si esplica all’ennesima potenza: basterebbe a testimoniarlo il Ritorno finale che unisce la poetica di John Ford circa ‘Sentieri selvaggi’ a un cielo infuocato alla ‘Via col vento’ contro il quale si stagliano le silhouette dei personaggi (umani e non).
La ricerca delle varie ispirazioni potrebbe valere per tutta la pellicola, ma il nome del’autore di ‘Ombre rosse’ è quello che torna in mente più spesso: in ogni caso, il regista sfrutta al meglio gli ingenti mezzi a disposizione per girare un classico filmone da Oscar (che tuttavia non ha vinto nemmeno una statuetta) in cui le maestose inquadrature dall’alto fotografate da Janusz Kaminski si alternano ai momenti più intimi sempre col supporto della colonna sonora tutt’altro che minimalista di John Williams.
Il miglior Spielberg sta altrove – si pensi anche solo ai successivi ‘Lincoln’ (con il quale condivide la rappresentazione dell’orrore della guerra) e ‘Il ponte delle spie’ – ma il racconto sa appassionare e all’occorrenza commuovere (l’aratura del campo di pietre, la tregua per la liberazione di Joey) seppur mantenendo il ciglio asciutto laddove la potenziale lacrimogenità della storia farebbe pensare a fazzoletti inzuppati.
La quale storia è tratta da un libro per bambini trasformato poi in opera teatrale e racconta le avventure del cavallo Joey e del suo giovane padrone Albert (Jeremy Irvine) nei mesi precedenti e durante il primo conflitto mondiale. Dalle corse felici per la campagna del Devon alle fatiche dei campi di battagli francesi, il destino dell’equino incrocia figure di vari Paesi peraltro non tutti perfettamente riuscite, come i due fratelli tedeschi disertori (David Kross e Leonard Carow, ma la scena della fucilazione è molto bella) o il nonno (Niels Arestrup) e la nipote (Celine Buckens) la cui serenità bucolica è spezzata dalle truppe tedesche guidate da Brandt (Rainer Bock).
Gli episodi a diversa intensità gonfiano la durata e qualcosa sarebbe stato meglio tagliare, ma lo scopo di intrattenere è brillantemente raggiunto assieme a quello di far riflettere sulla natura (simboleggiata per l’appunto da Joey) messa in pericolo dall’avidità umana: contribuisce al risultato un gruppo di attori di notevole qualità che vede fra gli altri Peter Mullan ed Emily Watson come genitori di Peter impegnati a difendere la loro fattoria nonché Tom Hiddleston e Benedict Cumberbatch nei panni di giovani ufficiali di cavalleria che incarnano l’incoscienza con cui l’intera Europa si gettò nel massacro.