Più affine alla letteratura gialla di Friedrich Dürrenmatt che ai romanzi giallosvezia di Stieg Larsson, il Millennium di David Fincher produce arte là dove nessuno se lo aspetta e avvia un'indagine più importante della soluzione. 'Colpevole' degli esiti più felici e rilevanti del genere delittuoso e seriale (Seven e Zodiac), Fincher realizza una versione autoriale del primo episodio di "Millennium", trilogia poliziesca già adattata per lo schermo da registi ordinari e scandinavi. Introdotto da "Immigrant Song" dei Led Zeppelin (nella cover di Karen O., Trent Reznor e Atticus Ross) e 'terminato' da "Orinoco Flow" di Enya, Millennium ribadisce l'ossessione del regista per il delitto e la decodificazione. Sotto il segno del male e dentro baratri esistenziali, invariabilmente lastricati da sangue, lividi e ferite, il suo thriller nero rifiuta come il Vanger di Christopher Plummer lo sguardo superficiale. Per questa ragione il patriarca al tramonto assolda Mikael e Lisbeth, diversamente motivati ma incarnazioni ugualmente silenti e laboriose dell'individuo che respinge il sistema chiuso e omertoso in cui è costretto a muoversi e contro il quale mette in piedi ipotesi e intuizioni.
Altrimenti da Oplev e da Alfredson, l'autore americano esce dai confini 'nazionali', dal paese dei Nobel, dal benessere scandinavo e dai suoi rovesci sociali, per abitare un'inquietudine indeterminata e assumere uno sguardo astratto sul disagio dello stare assieme. A dirla tutta il romanzo di Larsson prima di essere adattamento si adatta alla poetica fincheriana, che riguarda da sempre la morale individuale e la patologica condizione di smarrimento interiore dell'individuo nella società contemporanea. Millennium secondo Fincher innalza la temperatura interpretativa e chiarisce una volta per tutte che l'adattamento non è una traduzione (fedele) ma un'interpretazione, o perlomeno ne implica una. In questo senso la trasposizione dell'autore è qualcosa di diverso dal romanzo di origine, una riscrittura che scava più in profondità, producendo valore aggiunto, illuminando Larsson e concedendo un'ulteriore chance al suo romanzo.
A muovere la situazione di impasse apparente, accumulando dettagli utili a edificare una costruzione indiziaria e contro un conclamato fraintendimento del reale e delle evidenze, ci pensano la Lisbeth diafana e disperatamente vitale di Rooney Mara e il giornalista assediato e depotenziato di Daniel Craig, crepe luminose che lottano per dare visibilità a esistenze e corpi inghiottiti dal nulla, ricercatori (in)sani che indagano con fiducia nella verità dentro l'impenetrabilità dello spazio domestico. E l'iniziazione alla verità nel cinema di Fincher avviene sempre in un 'mondo parallelo'. Agli scenari allestiti dal serial killer mistico di Seven, ai club notturni e alle cantine sporche di Fight Club succede la Hedestad immaginaria di Larsson, un territorio 'raffreddato', un luogo mentale che disprezza il presente (e lo stile Ikea), che esala vapori densi e l'odore cattivo degli spurghi dell'anima. Aperto alle innovazioni tecniche e sperimentatore indefesso di soluzioni visive potentemente funzionali al racconto (nel modo dei titoli di testa), Fincher riapre il caso 'Larsson' e fa giustizia.