Il film percorre le tappe di una storia carica di tensione emotiva, che costringe lo spettatore all'apnea dei primissimi piani di fronte al cuore di un esercito di bombe pronte ad esplodere. I volti puliti dei giovani prigionieri sono i caratteri di un intero popolo che, dopo aver messo l'Europa a ferro e fuoco, è stato costretto a richiamare alla leva ragazzini di tredici anni. Vediamo quindi il leader naturale Sebastian, il cinico insofferente Helmut o i dolcissimi gemelli Ernst e Werner strappati ai sogni infantili per riscoprirsi affamati e impauriti in un tratto di mondo che desidera solo vederli morire.
La fotografia fredda di un'ambientazione incantevole stride con i caratteri infernali di cui è imperniata la vicenda, in cui l'aridità degli animi si contrappone ai panorami mozzafiato di un deserto in riva al mare. Lo spettatore è in balìa di una narrazione ben costruita che genera una tensione costante, con una regia che predilige il più delle volte l'omissione alle immagini esplicite. La scelta di silenzi carichi d'intensità, rafforza l'efficacia delle lunghe sequenze del film, con le musiche a fare da contrappunto con brevi sonorità, subito interrotte da una rinnovata quiete apparente - e devastante.
Ne esce un'immagine di desolazione e impotenza, addolcita solo dal sergente Rasmussen che riporta tutto ad un senso di rettitudine ammirevole grazie a una rinnovata empatia con i ragazzi. Il bagliore alla fine del tunnel, il confine con la Germania a poche centinaia di metri, risulterà però pretenzioso e un po' poco credibile laddove il cambio di tendenza sentimentale del capitano per i suoi prigionieri è un pretesto debole per il disgelo totale delle relazioni che conducono alla liberazione. Per un film che è riuscito a mantenere una linea lucida e realistica, il rischio era quello di scadere nella retorica, ma Zandvliet riesce a sublimare l'importanza degli sguardi dei ragazzi scomparsi a scapito delle parole dei superstiti, relegando la salvezza solo a un'anomalia.