Una classica commedia hollywoodiana dove la cattiveria è bandita perchè tutti quanti sono pieni di buona volontà e pervasi da delicati sentimenti, così che le difficoltà si superano e gli spigoli (più apparenti che reali) si smussano conducendo lo spettatore per mano verso l’inevitabile lieto fine. Un corretto alternarsi di tocchi più leggeri e momenti commoventi – o, più semplicemente, commossi – con una sola deviazione nel comico puro: la scrittura di Nancy Meyers resta quasi sempre in equilibrio mentre la sua regia attenta ai dettagli fa sì che scorrano due ore di rilassante sogno a occhi aperti in una fascinosa New York autunnale ben fotografata da Stephen Goldblatt. Tutti ingredienti abbastanza ben dosati da consentire di ignorare il peana all’etica statunitense del lavoro, ma che fanno pensare a un film già visto mille volte da tenere presente, magari, per una futura visione televisiva. Senonchè c’è un ‘ma’ e questo ‘ma’ è, com’è ovvio, la presenza di Robert De Niro: non il solito De Niro svogliato e puramente alimentare di quelle moltissime fra le ultime prove che ne avevano fatto supporre una trista decadenza, bensì un attore che dà l’impressione di essere convinto della parte e riesce così a recuperare quasi tutto lo smalto che pareva ormai smarrito (sarà forse perché all’inizio parla a se stesso riflesso in uno specchio?). Bob veste i panni di Ben, un benestante pensionato settantenne che, vedovo, si ritrova con una vita da riempire: risponde così a un annuncio di un’azienda che vende moda on-line e che, aderendo a un programma di recupero, è alla ricerca di stagisti anziani. Educato e sempre tirato a lucido, l’uomo entra ben presto nelle simpatie di colleghi che potrebbero essere suoi nipoti e, pian piano, incrina la non certo invincibile corazza che avvolge la fondatrice e boss dell’impresa Jules Ostin: sostituendosi ai genitori inesistenti, Ben l’aiuta a sbrogliare l’ingorgo tra impegni familiari e professione. Per rendere il carattere discreto, ma allo stesso tempo deciso del suo personaggio De Niro sceglie saggiamente di rimanere sotto le righe usando con parsimonia la mimica senza far ricorso a troppe mossette: così operando, contribuisce assai a dare il tono a tutta la vicenda, grazie anche alla giusta sintonia che si stabilisce da subito con Anne Hathaway, la cui bellezza dolce e luminosa non riesce a far credere neppure per un attimo che Jules sia davvero una tirannica padrona. Purtroppo, la stessa chimica non scatta tra lei e Anders Holm, che ne interpreta il marito Matt, il quale risulta la figura di gran lunga meno a fuoco di tutto il film. Ben diverso è il discorso per le figure di secondo piano, i cui caratteri sono ben delineati, ad esempio, da Rene Russo nel ruolo di un’avvenente psicologa e dal trio, costituito da Adam DeVine, Zack Pearlman e Jason Orley, che finisce per spalleggiare Ben in una divertentissima quanto del tutto ingiustificata effrazione. Il finale che porta a chiudere il cerchio su toni smorzati potrà piacere o meno, ma, riflettendoci, è sulla medesima lunghezza d’onda del resto di un lavoro non eccelso che, però, raggiunge in pieno il suo scopo di far stare bene chi vi si abbandona.