Prendendo spunto da una serie di libri fantasy (in totale 15), iniziata nel 2002 e finita nel 2008, ad opera della naturalista Kathryn Lasky, Il Regno di Ga'Hoole, sembra l'ennesimo tentativo di far partire una nuova saga dai grandi incassi, dopo gli analoghi esperimenti miseramente falliti di Pusher, Ember o Percy Jackson, con in più la maggiorazione al botteghino del 3D. La scelta di un regista come Zack Snyder, dallo stile caricato, commerciale e a suo agio con la spettacolarità, sembra quindi azzeccata.
La vera sorpresa però è che Il Regno di Ga'Hoole non è solo un divertimento per preadolescenti, target cui il film è palesemente indirizzato, ma anche un sollazzo per gli amanti del cinema.
Se è vero che il regista di 300 si è concesso questa piccola deviazione nel cinema per l'infanzia e nell'animazione computerizzata durante il breve intervallo tra due impegni più grossi (Watchmen e Sucker Punch), è anche indubbio che Il Regno di Ga'Hoole costituisce uno dei suoi exploit più interessanti. Sul cannovaccio di un tipico racconto di formazione all'americana, tra sconfitta e seconda occasione, predestinazione, lotta contro la propria nemesi (in questo caso un fratello, il doppio per eccellenza), contrapposizione manichea di bianco e nero ed elogio di valori virili, Snyder architetta un film che mette da parte le caricature e le sovrimpressioni estreme degli spartani di Leonida (salvo recuperarle nel momento della grande battaglia finale assieme a stupefacenti ralenti da National Geographic) e prende la più improbabile delle decisioni: concentrarsi sui volti dei protagonisti, cioè gufi animati con molto realismo e poche concessioni fumettistiche.
Ma la volontà di guardare in faccia protagonisti che per definizione (e per disegno) sono poco espressivi è solo la prima di una lunga serie di scelte spiazzanti, sulle quali domina quella di girare un film in 3D puntando su luoghi stretti e piani ravvicinati. Contro ogni aspettativa si tratta di una sequela di idee vincenti che riescono a restituire il senso di grande epica di un minimondo, più con la profondità imprevista delle tane dei gufi, degli antri dei malvagi o delle cime di alberi talmente dense di rami da sembrare affollate metropoli, che con quella prevedibile degli ariosi voli.
Con attenta costruzione drammaturgica infine Snyder riesce anche a consegnare al pubblico, tra tanti personaggi che paiono sagome incolori utili solo ad incarnare una funzione (il fato, la provvidenza, le avversità, l'aiuto insperato...), almeno una figura indimenticabile: il grande guerriero Ezylryb, guercio e mezzo monco dopo mille battaglie, quasi impazzito per i colpi presi eppure ancora capace di stupire ed osare, dotato di una punta di follia nichilista che mancava ai 300 spartani e che, distinguendolo dal coro di perfetti soldati che popolano la storia, lo avvicina di più ai drogati di adrenalina del cinema di Kathryn Bigelow.