Tre degli attentatori dell'undici settembre erano di base ad Amburgo. Da quel giorno la città portuale tedesca divenne un sito ad alto rischio, sorvegliato dai servizi segreti tedeschi e americani, compresi nel tentativo di anticipare un'eventuale minaccia terroristica. È in questo contesto geopolitico che si muove il romanzo di John le Carré, thriller politico tradotto per lo schermo da Anton Corbijn. Fattura classica e raffinata tessitura dei procedimenti narrativi, La spia - A Most Wanted Man è un film trattenuto, introverso e ossessionato dai dilemmi morali e dall'ingerenza degli americani negli affari mondiali. Nel mondo evocato da Corbijn per dare corpo alla complessa indagine pensata da le Carrè, si trascina il protagonista greve e stropicciato di Philip Seymour Hoffman.
Corpo informe e sguardo dolente, il suo Günther Bachmann è finito in una sorta di 'ritiro coatto' dopo il repulisti successivo all'undici settembre. In un garage anonimo di Amburgo sconta adesso il rimorso per qualcosa che avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Eppure Günther Bachmann il suo lavoro lo fa e lo sa fare bene dentro un quotidiano privo di cromie e passioni. L'agente americano di Robin Wright e l'avvocato sociale di Rachel McAdams sono le uniche sfumature di rosa tollerate e ostinate che finiranno per impattare violentemente la figura screpolata e depressa di Bachmann, senza entusiasmi e difficilmente riconducibile all'immaginario spionistico abituale. Ma proprio lì sta (tutta) la bellezza della letteratura e dei personaggi le carreriani, lontani dagli agenti segreti charmant e ipersessuati con un Martini in mano e una Walther PPK nell'altra.
Costruito come La talpa di Tomas Alfredson con grande consapevolezza contro un sistema di attese sedimentate dentro il genere, La spia - A Most Wanted Man gioca la sua partita a un livello più profondo. È una spy story anomala, che all'azione preferisce l'introspezione, al dinamismo il gioco intellettuale. Abile nel comprimere nei tempi e nei modi cinematografici il romanzo intricato e ricco di sfumature di le Carré, il regista (e fotografo) olandese affida a Philip Seymour Hoffman, nella sua ultima interpretazione, il peso nascosto nell'anima del suo personaggio, un dolore senza condivisione e senza lacrime sprofondato nell'alcol e nelle poltrone. Poltrone di uffici e edifici verticali in cui si lavora per la sicurezza nazionale ma si è incapaci di provvedere alla propria. Perché Günther Bachmann non trova sbocchi al lutto indefinito che lo agita e lo isola dalla sua squadra e dentro un epilogo di insolita malinconia.
Come Alfredson con Gary Oldman, così Corbijn beneficia del talento enorme di Seymour Hoffman che ci lascia per sempre. La sua ultima replica è un grido di rabbia, il suo ultimo piano un perfetto epitaffio. Disilluso, solo e smisurato, esce di scena e dalla sua Mercedes. Perché i veri attori non sono quelli che godono all'accendersi delle luci ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere.