Da Dante Alighieri a oggi è sempre una questione legata alle tre "fiere": lince, leone e lupa - lussuria, superbia e cupidigia - mali oscuri del debole uomo, prima indotto in errore da loro e poi obbligato a pagarne le conseguenze. Una nota malinconica e pessimista accompagna tutto Raya e l'ultimo drago, a partire dall'inizio in medias res, che ci cala in una distopica landa desertica, degna di Mad Max: Fury Road.
Raya è parte Furiosa e parte Max, oltre che Rey di Star Wars: un crocevia di principessa disneyana ed eroina action da post #metoo. Così come Sisu, il drago che finirà per accompagnarla nelle sue avventure, unisce i tratti della tipica spalla disneyana, con lo humour stralunato del genio di Aladdin e l'aria un po' svampita e sopra le righe di Dori da Alla ricerca di Nemo (le fattezze invece tradiscono la somiglianza con Awkwafina, rapper e personaggio mediatico che, nella versione originale, presta la voce al doppiaggio del personaggio).
A emergere come personaggio meglio delineato dalla sceneggiatura è l'antagonista Namaari: la tensione che la dilania, scindendola tra dovere di figlia verso il proprio popolo e aspirazione utopistica legata ai sogni di bambina, è il cuore del film e forse rappresenta la chiave di volta disneyana sul ruolo del nostro fanciullino interiore di fronte all'apocalisse.