Quando De Niro fa il suo ingresso nel cinema di Scorsese sulle note di Jumpin’ Jack Flash, molto è già stato scritto: ci sono la fluidità della macchina da presa nel seguire (e scrutare) i protagonisti, l’abilità di sposare la musica e le immagini, il retroterra italoamericano e non manca l’ossessione per gli insegnamenti e le pratiche della religione cattolica.
Insomma, a trent’anni il regista mette in mostra già alcuni dei filoni portanti del suo modo di narrare e lo fa raccontando la storia di figure di quartiere che vivono sul limite della legalità: il forse aspirante boss Charlie (Harvey Keitel) che si muove nell’ombra dei traffici dello zio Giovanni (Cesare Danova); Michael (Richard Romanus) che presta i soldi a strozzo; Tony (David Proval) che gestisce il bar che fa da punto d’incontro; Johnny Boy (Robert De Niro) che è la scheggia impazzita e incontrollabile tanto da (rischiare di) far saltare il banco.
De Niro tende a rubare la scena – pure in lui si vedono già i prodromi di ‘Taxi driver’ e del Michael vietnamita de ‘Il cacciatore’ – al protagonista Keitel, il cui Charlie vede attraversata la sua strada di piccolo criminale dai sentimenti – l’amore di Teresa (Amy Robinson), l’amicizia per Johnny Boy – e dalle frequentazioni in chiesa: il suo percorso ondivago si sviluppa comunque in una vicenda corale di un gruppo di personaggi che vive soprattutto di notte.
Scorsese – con l’improbabile capigliatura di quei dì – si riserva la parte dello sparatore silenzioso, mentre l’edizione italiana (il cui doppiaggio d’epoca Netflix ripropone) è abbastanza insopportabile: lasciando stare il demenziale sottotitolo, la lingua utilizzata è una sorta di broccolino intessuto di termini inglesi che sfiora a volte la comicità.