Essendo il genere demenziale tipicamente abitato da personaggi sopra le righe, eccessivi e a loro modo sempre iconoclasti, l'incontro con il mondo della moda, che mostra per natura le stesse caratteristiche, non poteva che dar luogo ad un match perfetto, e Zoolander ne è stata la prova. Il secondo capitolo potrebbe non far altro che ripetere il concetto, ma interpreta il compito in maniera ansiosa e bulimica. Da un lato, infatti, s'intrattiene senza verve sui cambiamente occorsi nell'ambiente dal 2001 ad oggi, dall'altro si butta a capofitto nella crime story, riempiendo l'ordigno cinematografico di polvere esplosiva ma apparendo poco attrezzato per reggere l'impatto della deflagrazione al momento decisivo.
L'ambientazione nella Roma riportata allo splendore dei massimi complotti da Dan Brown, offre l'occasione a Ben Stiller, Justin Theroux e soci di inventare un segreto biblico, basato su un gioco di parole, che da solo dovrebbe tenere insieme un'avventura che parla di popstar assassinate, di un eletto sovrappeso e di un cenacolo massonico che conta tra i suoi adepti Valentino, Anna Wintour, Vera Wang, Mark Jacobs e Tommy Hilfiger: tutti veri e democraticamente incappucciati.
Naturalmente, sconclusionato può essere sinonimo di divertente, è quasi condizione necessaria, ma qui il troppo finisce per nascondere il buono: si ride meno rispetto al film inaugurale e pare di essere capitati dentro un'infilata di parodie, da Balle Spaziali a Johnny English, compressa dentro ritmi troppo sostenuti per il nostro eroe, il cretino Derek. Penelope Cruz, nei panni di un ex modella di costumi da bagno riciclatasi come poliziotta hot, procede controcorrente, rallentando il ritmo del film ad ogni apparizione, ma non è esattamente un pregio.
Il sequel non trova una propria "espressione", per quanto uguale a tutte le altre, e, verso la fine, replica senza remore le gag dell'originale. Stiller la chiedeva così bene, che non si poteva non dargli "un'altra chance", ma difficilmente questo capitolo replicherà il fenomeno di culto.