Sono ormai decenni che Meryl Streep è riconosciuta come un’attrice brava e duttile, la migliore della sua generazione e probabilmente pure di quelle venute poi. Malgrado i rapporti non idilliaci con il sistema cinematografico (vedi la battaglia per la paritù di salario fra uomini e donne), la sua classe le ha sempre consentito di trovare ruoli da protagonista sebbene gli anni scorrano per lei come per tutti: parecchi si sono rivelati sfide non del tutto riuscite, ma in questo caso – grazie anche alla direzione di Stephen Frears, uno che ha il senso del tempo sia per la commedia, sia per il dramma – l’operazione ha successo sfociando in un’opera di stampo classico che sa regalare risate ed emozioni in egual misura. Meryl si infila negli opulenti panni di Florence Foster Jenkins, patrona della musica a New York nella prima metà del Novecento (ad esempio era amica dell’esule Toscanini, qui interpretato da John Kavanagh) con la fissa di saper cantare pur essendone totalmente incapace. Spalleggiata dal marito St. Clair, che ne fa di ogni a colpi di bigliettoni perché lei non rimanga delusa ma la tradisce con una ragazza assai più giovane, l’attempata signora arriva fino alla Carnegie Hall per un concerto che è al contempo il suo apice e la sua caduta quando infine qualcuno ha il coraggio di dire che il re è nudo. Il film racconta soprattutto la smisurata passione della protagonista per la musica, tanto che mai viene da compatirla per le sue penose esibizioni vocali (peraltro ancora ascoltatissime su internet): Streep, ingrossata da una certa quantità di cuscini, fa rivivere con delicatezza una donna ricca ma dalla vita difficile che trova nelle sette note la forza per un’esistenza entusiasta. La personalità dell’interprete e l’attenzione che vi pongono regia e sceneggiatura di Nicholas Martin fanno sì che il tema conquisti lo spettatore, facendo un po’ passare in secondo piano la denuncia dell’ipocrisia della buona società niuiorchese nonché dell’ambiente musicale nel suo complesso, quest’ultima ben simboleggiata dal venale maestro di canto Carlo Edwards. E’ inevitabile che una vicenda così al limite dell’assurdo generi un’infinita serie di situazioni divertenti che qui vengono costruite con un sicuro senso del ritmo e attraverso la notevole coloritura delle figure minori: in un buon numero di esse, spicca Simon Helberg nella parte del pianista McMoon che prima scettico, poi in qualche modo affascinato, accompagna i vocalizzi di Florence, interpretati dalla stessa Streep con un sovrabbondante uso di mimica facciale. A fare da contrappeso c’è il personaggio di St. Clair, attore fallito combattuto tra l’affetto per la moglie e il desiderio di evadere, nei cui panni Hugh Grant regala una prova insolitamente misurata e perciò per una volta davvero convincente. Attorno a loro opera un discreto gruppo di validi comprimari, fra i quali si fa notare la stellina di Broadway Nina Arianda nel ruolo della finta svampita Agnes, i destini dei cui personaggi si intrecciano in una Manhattan ricostruita di peso tra Inghilterra e Scozia (il set è a cura di Caroline Smith mentre i costumi sono della fida, per il regista, Consolata Boyle) e ripresa da Danny Cohen con colori in prevalenza caldi che ben si confanno a quello che è un ‘feel good movie’, sebbene accompagnato da una sottile vena di malinconia che diventa protagonista nella conclusione. L’addio di Florence alla vita è difatti una scena madre regalata da Frears alla sua primattrice per mezzo di un lungo primo piano che ne restituisce la bella performance in un pallore che riecheggia nella fredda tinta celeste che la circonda.